Il calcio come la società civile

Beppe Di Corrado

Trovate Paoloni. Sì, Marco Paoloni. E’ con lui che comincia tutto. Con una bottiglia avvelenata preparata nello spogliatoio dello stadio Zini di Cremona prima di Cremonese-Paganese. Il piccolo portiere e il grande chimico: infila il Minias, un sonnifero, nell’acqua e nel tè che i suoi compagni della Cremonese stanno per bere. Vuole che giochino male, vuole che perdano, vuole che siano stanchi. La Cremo vince, invece. Due a zero.

Leggi Dopo la democrazia, sospendere il calcio. Monti esagera (ma sulla società civile ci prende) di Piero Vietti - Leggi Calciatori, banchieri e società civile

    Trovate Paoloni. Sì, Marco Paoloni. E’ con lui che comincia tutto. Con una bottiglia avvelenata preparata nello spogliatoio dello stadio Zini di Cremona prima di Cremonese-Paganese. Il piccolo portiere e il grande chimico: infila il Minias, un sonnifero, nell’acqua e nel tè che i suoi compagni della Cremonese stanno per bere. Vuole che giochino male, vuole che perdano, vuole che siano stanchi. La Cremo vince, invece. Due a zero. Però, poi. Sì, però, qualcosa succede lo stesso: il difensore della Cremonese, Carlo Gervasoni, sbanda con l’auto tornando a casa dopo la partita. Tampona una macchina che lo precede, va fuori strada, prende una botta, poi esce dall’auto: stordito e assonnato. Qualche giorno dopo parla con i compagni: tre, quattro di loro hanno avuto gli stessi sintomi. Diranno: intossicazione alimentare che ha provocato sonnolenza e malessere generale. Non regge, sta storia. Forse qualcuno che ha visto Paoloni armeggiare con quelle bottiglie e lo conosce parla col direttore sportivo della Cremonese, Turotti. Lui parla con la Federcalcio, poi con la procura della Repubblica di Cremona. Quella carambola in auto di Gervasoni non è un incidente: è il velo dietro cui si nasconde un intreccio di scommesse, corruzione, minacce, affari, giochi sporchi, soldi, truffe, cialtroni, malavitosi, altri soldi, giocatori, ancora altri soldi.

    Paoloni è l’inizio. I magistrati indagano su di lui: lo intercettano, lo seguono, lo ascoltano. Controllano i conti correnti: meno ventimila, meno cinquantamila. Ma come: un portiere di serie C guadagna sette-ottomila euro al mese. Perché è sempre così in rosso? Scommette. E per rifarsi si vende. Semplice: io sono il portiere, li faccio segnare e posso gestire i risultati. Faccio scommettere e incasso il denaro. La follia di uno è la porta che spalanca l’inizio dello scandalo. Paoloni ha giocato nelle giovanili della Roma, poi ha girato nei campi di C, conosce un po’ di gente. C’è un dentista di Ancona, si chiama Pirani: ha un bel po’ di soldi e la sua stessa passione per le scommesse. Il medico è a sua volta amico di un gestore di una ricevitoria a Pescara, Erodiani. Altri amici, poi amici di amici, amici di amici di amici: è l’Italia marcia, dentro ci sono personaggi legati al pallone e gente che non c’entra. Le scommesse sono una malattia trasversale. Paoloni è uno: bravo ragazzo, dicono tutti. Però con quel vizio. Se lo trascina ovunque vada: cambia città, non abitudini. Il conto vuoto e il giro che s’allarga: Pirani ed Erodiani hanno altri contatti: c’è Beppe Signori, ex campione di Lazio, Bologna e Nazionale, i commercialisti del bomber, poi altri ex giocatori, come Bellavista del Bari, Bressan, Parlato, il direttore sportivo del Ravenna, Buffone. Ognuno di loro ha altri amici, ragazzi del sottobosco pallonaro, sparsi tra B e C: sono le cimici e gli emissari dentro gli spogliatoi. Sono quelli che possono essere contattati per aggiustare le partite.

    Si parte, anzi si è già partiti: i magistrati ascoltano tutto. Le partite da taroccare sono soprattutto in C, poi arriva la B. C’è Atalanta-Piacenza, soprattutto. Torna Carlo Gervasoni. Quello che aveva rischiato di morire perché il compagno lo aveva avvelenato, ora diventa complice. Perché così funziona: se ci si può guadagnare, conviene provarci. Gervasoni ha cambiato aria: è andato a Mantova, poi a Piacenza. Ha capito come funziona il giro. Ora c’è anche lui. E quel giorno, gli amici delle scommesse, sanno che s’è messo d’accordo con Cristiano Doni, capitano dell’Atalanta: la partita deve essere già sul tre a zero nel primo tempo, in modo che gli scommettitori possano puntare sull’over (più di tre gol) e guadagnare forte. Gervasoni ha coinvolto un po’ di compagni, tra cui il portiere del Piacenza, Cassano. Il segnale dell’accordo, tutti sanno, è una pacca sulla spalla di Gervasoni da parte di Doni. Eccola, durante i saluti dei giocatori. Vai: scommettono tutti, le giocate si impennano. Alla fine del primo tempo è tre a zero per l’Atalanta.

    I magistrati prendono nota, ancora. Gli serviva proprio questo. Poi un giorno, vanno. Cremona non è una procura abituata a inchieste grosse. Qui c’è il calcio, ci sono i trucchi, c’è un ex grande nome del pallone e poi c’è un altro ex nazionale, cioè Doni, l’Atalanta che è appena salita in A. C’è tutto per dare un po’ di spettacolo. I fatti li aiutano: le immagini che accompagnano i fascicoli di indagine mostrano Cassano che praticamente si fa gol da solo, fanno vedere che in quel maledetto Atalanta-Piacenza Gervasoni fa un fallo da rigore clamoroso e insensato: Doni va a battere e il portiere gli indica dove si butterà. La palla va dalla parte opposta: gol. Prima c’era già stato un fallo di mano in area del Piacenza. Rigore: gol. E all’ultimo minuto del secondo tempo, il Portiere del Piace si butta dentro la porta per lasciarla spalancata e far segnare il terzo gol. Follie che viste dal vivo in diretta, non dicono nulla, ma che viste mentre scorri le pagine dell’inchiesta sembrano come gli incontri di wrestling, dove sai che è tutto concordato, è tutto finto, è tutto già scritto. L’indagine è in forno, a questo punto. E’ il primo giugno 2011. Otto meno dieci di mattina: la polizia entra a casa di 16 giocatori con 610 pagine di ordinanza sulla nuova inchiesta del calcio malato. Scommesse, maledette scommesse; soldi, maledetti soldi; inciuci, maledetti inciuci. Un caos, l’ennesimo. Una botta alla fiducia della gente, alle certezze dei tifosi: partite aggiustate, risultati addomesticati, gol regalati. Le intercettazioni parlano di un linguaggio volgare e da criminalità: minacce a chi non si adegua. E’ roba di basso livello, sfide di serie C, di serie B, qualcosa di A. Però c’è Beppe Signori: l’ex campione della Lazio, uno conosciuto, amato, pagato. Uno per cui una volta scese in piazza mezza Roma: “Chi vende Signori non merita il nostro tifo”. Sergio Cragnotti rinunciò a 25 miliardi di lire e Signori restò. Quel primo giugno sono andati a prenderlo a casa, Beppe. E lì l’hanno lasciato agli arresti domiciliari. Ha risposto al telefono a un giornalista dell’Ansa: “Ma non avete pietà in questa situazione? Abbiate pietà”.

    Risuoneranno spesso le sue parole in quella giornata. Fanno male. Pietà? Per chi? Per che cosa? In quelle pagine c’è la storia di un uomo che ha tradito se stesso oltre che la gente. Ricordi i suoi gol e pure i suoi errori, adesso. Non puoi non chiedertelo: era vero allora? Una giornata così lascia poche certezze. A Bologna, a Cremona, a Benevento, a Bergamo, in tutte le città coinvolte nell’ennesimo capitolo del calcioscommesse all’italiana. Lì guardi i nomi e dici: ok, sono giocatori di seconda fascia e avidi e vigliacchi. I magistrati parlano, felici di poter fare il loro spettacolo: “E’ un fenomeno molto più ampio, l’inchiesta si allargherà”.
    Cambieranno le classifiche e i destini di alcune squadre e con loro quelli dei tifosi. Allora te lo chiedi: che calcio è questo? Calciopoli avrebbe dovuto essere il punto di non ritorno. Il pallone pulito, dicevano. Sembra, invece, che rotoli nel fango come prima. Forse di più. I calciatori che si vendono, gli ex giocatori che si trasformano in allibratori senza scrupoli, il mondo del pallone minore che si muove lontano, in un cono d’ombra che avvolge partite e classifiche. Perché? E’ questa la domanda. E’ la base di tutte le altre: perché lo fanno? Perché ci tradiscono? Perché non si rendono conto che ci tolgono le nostre passioni? I calciatori che smazzano le carte delle scommesse dimostrano che sono incapaci di essere uomini: i soldi, dicono. Hanno fame di ricchezza nonostante i privilegi. Hanno bisogno di sostenere uno stile di vita che era quello dei loro sogni: s’immaginavano campioni e si sono trovati nel sottobosco del calcio. Il ragionamento funziona per alcuni, ma non per altri. Non per Signori, per esempio. Per lui c’è altro: la condanna all’avidità del fortunato che vede il guadagno facile e lo vuole ancora più facile. Sarà vero e sarà così, ma non spiega tutto. Perché la profezia dei magistrati diventa una verità. Certo, a loro fa comodo che sia così: più squadre coinvolte ci sono, più giocatori ci vanno di mezzo, meglio è.

    Allora cominciano a uscire indiscrezioni, nomi veri e presunti: le intercettazioni date ai giornali senza controllo. Paoloni parla del capitano della giallorossa: tutti scrivono di Totti. Lui minaccia querele. Allora si buttano su De Rossi. Lui minaccia a sua volta altre querele. E’ il caos, ma si capisce che dentro a quel caos c’è ancora tanta melma. Sono le triangolazioni che distruggono il mondo del pallone: io conosco A che conosce B che conosce C. Il domino funziona verso l’alto e verso il basso: verso i campioni e verso i farabutti. E’ così che entrano in scena “gli zingari”. Sono un gruppo di slavi pronti a corrompere i calciatori che ci stanno: da 8 mila euro in su, fino a trecentomila, per i giocatori che si vendono e facendo realizzare risultati esatti fanno vincere milioni agli scommettitori. Ovvero agli stessi zingari. E’ un investimento perfetto, no? Un moltiplicatore di denaro. Il nome che gira a questo punto è Almir Gegic. E’ slovacco ma sta a Chiasso, dove avrebbe conosciuto Bressan. La triangolazione lo porta dentro, anzi forse è l’origine di tutto: da lui agli altri e con lui altri. Sembra un gioco di parole, è una catena infinita. Compare l’uomo del denaro: Ilievski. E’ lui che investe per avere ritorni. Tutti dentro: clan, fazioni, giocatori, professionisti. Alto e basso, come sempre. E’ una realtà parallela, un mondo che corre accanto al pallone degli illusi. I protagonisti parlano al telefono come dei banditi: camuffano le voci, si chiamano per soprannomi assurdi. Per stare nel giro bisogna trovare contatti per taroccare le partite: tra verità e millantato credito nelle carte spunta la serie A. C’è chi dice di essere certo di poter aggiustare Inter-Lecce o Milan-Bari o altre partite. I magistrati hanno ascoltato e cominciano a interrogare. Qualcuno parla, perché mica ce la fa a reggere. Le scommesse si mescolano alla consuetudine di finali di campionato con risultati scontati.

    Si sa: una squadra retrocessa mica va a rompere le scatole a una che deve andare in Champions. O una squadra già salva, non si mette di traverso a una che deve salvarsi. Le variabili sono diverse, però: se una squadra è rivale di una mia amica, allora si gioca davvero. Altrimenti no. Lo sanno tutti, avviene da sempre: immorale eppure conveniente. Ecco un altro specchio del paese, della società civile, quella che va in piazza per difendere i diritti dei lavoratori e dei precari, ma poi paga a nero la colf.
    I piani che si mescolano rivelano un’altra pista. Quella che porta a Bari. Quindi alla A. Perché l’anno scorso il Bari era retrocesso già a gennaio ed era perfetta. Era il boccone giusto per gli zingari e per gli altri. Bellavista dice a tutti che ci pensa lui. Da lì i magistrati partono: quelli di Cremona e poi quelli di Bari. Perché a questo punto il piatto è gustoso e la giustizia show può anche lottare: chi indaga? Il nord o il sud? Chi ha cominciato o chi sarebbe il titolare territoriale? Masiello è il nome. Si capisce in fretta. Andrea Masiello, uno di 25 anni, uno con un futuro, uno forte. Qui non si parla di giocatori a fine carriera, ma di ragazzi che possono ancora sognare. Masiello è l’anello di congiunzione di tutto, perché sta con gli zingari, accetta le combine e poi decide anche di mettersi in proprio. Gestisce lui. I giocatori che rubano il posto ai criminali. Perfetto. Risultano 5 partite del Bari in serie A, nel 2010-2011, sospette. C’è tutto e c’è anche l’inimmaginabile. Masiello organizza: ha amici factotum che lo mettono in contatto con il resto del gruppo. Si sa, nell’ambiente. Lui è uno che si sa muovere. Allora si vende da solo il derby Bari-Lecce. Cioè accetta 230 mila euro per far sì che il Lecce vinca. Per essere sicuro fa autogol. Non se ne accorge nessuno, in diretta. Dicono: guarda quello. Invece è tutto studiato. Lo dice lui ai magistrati che lo arrestano ad aprile. L’inchiesta che sembrava andare scemando si rinfiamma: Masiello è l’emblema dell’infame: c’è di più della vergogna di vendersi una partita. Fare autogol per soldi in un derby significa essere al di là anche del male. Siamo oltre le peggiori intenzioni. Perché c’è solo una cosa che supera i valori dello sport ed è il valore della rivalità: perdere apposta la partita col peggior avversario dei tuoi tifosi e della tua città significa insultare due volte la gente. Masiello è finito, ma non è finita la vergogna. Perché i tifosi non sono vittime. Ci stanno. Sono anche loro parte del meccanismo: tre capi ultras del Bari sanno che i giocatori si stanno vendendo e chiedono di entrare nel business. Vogliono che perdano due partite perché così loro ci guadagnano un sacco di soldi. Serve altro per parlare della degenerazione? Chi si scandalizza per la politica corrotta, non ha fatto i conti con il resto dell’umanità. Non basta dire: quelli sono ultras, sono feccia. Perché scoperchiando questa storia scopri che altri tifosi sapevano: a Bari c’era coda. Avvocati, notai, commercialisti, professionisti vari, commercianti, ristoratori che giocavano contro la propria squadra e la propria città. L’inchiesta sulle scommesse rivela al mondo la dignità perduta di una comunità: a Bari, come altrove. A Genova le ultime foto raccontano i meeting tra organizzatori di scommesse, giocatori e ultras. Non significano nulla, certo. Ma vogliono dire un’altra sovrapposizione culturale. L’assenza del confine tra giusto e sbagliato. E’ così che s’arriva all’ultimo capitolo: Mauri della Lazio e Milanetto del Genoa, compreso l’indagato Conte e gli altri. C’è differenza tra mettersi d’accordo per un pareggio che non faccia male a nessuno e lucrare sulle partite con le scommesse. Qui l’inchiesta deve togliersi le vesti da spettacolo e mettere bene in fila le cose. Però c’è troppo che puzza. Le società? Sono vittime, forse. O forse no. Alcune sapevano, secondo i magistrati qualcuna addirittura incentivava. E’ una cloaca che si riempie delle bassezze collettive. Non si salvano in molti: i giocatori, i presidenti, gli allenatori, i tifosi. Pure i magistrati che se trovano un nome buono, alimentano il loro lavoro anche al di là del necessario. C’è molto dentro questa storia. C’è troppo per starne fuori e però anche per avere la certezza che sia tutto marcio: quando butti ogni cosa in una pentola il minestrone copre ogni odore. Non fa differenza, mentre qui il gioco delle differenze è fondamentale. Non c’è ora, forse ci sarà quando la giustizia sportiva comincerà i suoi processi. Sommari per definizione e per necessità. Non troveremo la verità, ma avremo una realtà verosimile che ci racconterà il grande marcio che c’è in noi, nel nostro calcio, nelle nostre teste. Ci vergogniamo, più di un po’.

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