Terremoto e terrorismo

Il dolore misurato degli emiliani e la dismisura della stampa italiana

Giulia Pompili

Quando in Emilia cominciavano ad arrivare i giornalisti da ogni parte del mondo, gli emiliani convivevano con il terremoto già da dieci giorni. Basta restare fermi per poco più di cinque minuti in una piazza, una strada, un centro sfollati, per distinguere i giornalisti – gli unici a fare la conta delle scosse, a sobbalzare per ogni clacson suonato o passaggio di treno – dai residenti e dai volontari. Gli emiliani hanno paura sempre, che è come non averla più.

    Quando in Emilia cominciavano ad arrivare i giornalisti da ogni parte del mondo, gli emiliani convivevano con il terremoto già da dieci giorni. Basta restare fermi per poco più di cinque minuti in una piazza, una strada, un centro sfollati, per distinguere i giornalisti – gli unici a fare la conta delle scosse, a sobbalzare per ogni clacson suonato o passaggio di treno – dai residenti e dai volontari. Gli emiliani hanno paura sempre, che è come non averla più. E infatti mentre la terra trema di continuo, cercano la normalità nell’assistenza, nel lavoro, in un dolore misurato che è il contrario della dismisura della stampa. Quasi nessuno ricorda gli orari delle scosse più percettibili, quelle oltre il quarto grado della scala Richter, che non sono più una unità di tempo se non per la stampa.

    Il circo mediatico intorno al terremoto emiliano stenta a decollare. Non attacca nemmeno il canovaccio classico dell’emergenza. E’ che questa volta non ci sono politici da incolpare per i piani abitativi – basta fare un giro sul Canaletto per vedere che la maggior parte delle abitazioni, specie quelle più moderne, sono in piedi. Anche la polemica nata sul Web sulla possibilità di annullare la parata del due giugno per devolvere le spese ai terremotati si è spenta dopo nemmeno ventiquattro ore. “Polemiche strumentali e assolutamente secondarie”, ha detto il capo dello stato Giorgio Napolitano, e allora su Twitter e Facebook era tutto un condividere le immagini dell’avviso con cui il presidente Forlani, nel 1976, annullò la parata dopo il terremoto del Friuli. Ma Forlani (e il Friuli) aveva bisogno dell’esercito, fu una scelta dettata dalla necessità la sua, nessuna anima bella aveva pensato di sentirsi più vicina alla popolazione terremotata sospendendo una celebrazione patriottica.

    Così l’attenzione dei giornali è passata ai capannoni, ai ricchi avidi industriali che avrebbero “obbligato” i dipendenti a lavorare nelle fabbriche dopo la prima scossa del 20 maggio, poi uccisi dalla seconda scossa più forte, quella del 29. Secondo il teorema dei giustizialisti, la responsabilità dei morti ricadrebbe direttamente sugli imprenditori. Ma i giornalisti dimenticano che in Emilia l’azienda è molto spesso a conduzione famigliare e che a scappare dal capannone che crollava, quel maledetto martedì mattina, erano famiglie intere. Come la donna che ha perso la vita mentre lavorava nella fabbrica di mobili di Cavezzo di proprietà di suo suocero. E ha detto bene il presidente della provincia di Modena, Emilio Sabattini, parlando di uomini e donne che stavano ricominciando a vivere, sorpresi da una nuova scossa imprevedibile.

    “Bisogna stare attenti quando si vuole addossare a qualcuno la colpa di un omicidio di questo tipo – dice al Foglio il sismologo del Cnr Alberto Marcellini – il terremoto emiliano si sta comportando come un terremoto normale. Una seconda scossa al limite dei sei gradi Richter è infrequente, ma non anormale. I pareri sono vari, ma secondo me il terremoto andrà avanti per alcuni mesi con un’energia sprigionata sempre minore”. A oggi l’energia complessiva del sisma in Emilia è comunque minore di quella sprigionata da quello dell’Aquila. Marcellini spiega al Foglio che non sarà facile per la magistratura capire le responsabilità di quei morti sotto ai capannoni: “La vicenda è complessa: tutto inizia con il terremoto di San Giuliano del 2003 e la proposta di una nuova classificazione nazionale delle zone sismiche. Nel 2003 la regione Emilia ha recepito la classificazione, ma ha lasciato ai comuni la libertà di decidere se applicare o meno le norme sismiche. Tutto cambia nel 2005, quando le norme antisismiche diventano obbligatorie ovunque. Ora, per dare davvero la colpa a qualcuno, è necessario andare a vedere quando sono stati costruiti i capannoni crollati e secondo quali regole”.

    Gli emiliani non piangono, non si disperano, non fanno audience. I crolli in diretta sono pochi. Gli sciacalli ci sono, ma sono di una specie nuova, sono quelli tecnologici delle finte applicazioni per iPhone per prevedere i terremoti. Ad aumentare la drammatizzazione ci ha pensato poi Alessandro Martelli, direttore del centro di ricerche Enea di Bologna, che ha messo all’erta la popolazione del sud Italia “prevedendo”, come fece Giuliani per L’Aquila, un terremoto di 7,5 gradi. E ieri tutti i quotidiani on line avevano la notizia di tre scosse di terremoto in Campania, Basilicata e Calabria. La scossa del Pollino delle 13 e 03 è stata di magnitudo 2.6. “Praticamente impercettibile per l’uomo – dice il sismologo Marcellini – Sappiamo che tutto il sud è zona sismica, e che sarebbe opportuno fare un programma di prevenzione. Ma non mi risulta che Martelli sia un sismologo”.

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.