Regime change, anno 2012

Paola Peduzzi

Il miglior antidoto contro l’Iran è l’Iraq, scriveva domenica il New York Times in uno di quegli articoli che inizi a leggere svogliatamente – a chi interessa più l’Iraq? Invece sobbalzi sulla sedia e scopri che quel paese martoriato, con un premier che fa prove da gran dittatore e le bombe che non si fermano – ancora ieri mattina ne è scoppiata una contro gli sciiti a Baghdad, già colpita giovedì scorso da un attacco coordinato, ma era da metà aprile che la capitale irachena non veniva ferita – costituisce la più grande tutela esistente contro le rappresaglie iraniane.

    Il miglior antidoto contro l’Iran è l’Iraq, scriveva domenica il New York Times in uno di quegli articoli che inizi a leggere svogliatamente – a chi interessa più l’Iraq? Invece sobbalzi sulla sedia e scopri che quel paese martoriato, con un premier che fa prove da gran dittatore e le bombe che non si fermano – ancora ieri mattina ne è scoppiata una contro gli sciiti a Baghdad, già colpita giovedì scorso da un attacco coordinato, ma era da metà aprile che la capitale irachena non veniva ferita – costituisce la più grande tutela esistente contro le rappresaglie iraniane. Si parla di petrolio, naturalmente: le esportazioni dell’Iraq sono cresciute del 20 per cento quest’anno, con una produzione pari a 2,5 milioni di barili al giorno, “che rendono l’Iraq uno dei principali produttori nell’Opec per la prima volta da decenni”. Soprattutto rendono meno pericolose o più governabili le minacce che arrivano da Teheran sulla chiusura di Hormuz e sulla possibilità di un occidente rimasto a secco. “L’Iraq aiuta enormemente”, dice al New York Times David L. Goldwyn, ex coordinatore degli affari energetici internazionali al dipartimento di stato nell’Amministrazione Obama. Anche se l’Iraq aumentasse le sue esportazioni della metà di quanto è previsto per l’anno prossimo, “si può rimpiazzare quasi il 50 per cento dell’offerta iraniana bloccata a causa delle sanzioni più dure”. Il primo di luglio è una data importante nel sempiterno balletto diplomatico con Teheran: inizia un nuovo round di sanzioni e le aziende straniere smetteranno di fare affari con l’Iran, Eni ha già annunciato la rescissione dei contratti in essere. E secondo le stime dell’Opec, l’output iraniano di petrolio è già il 12 per cento in meno nei primi tre mesi del 2012 rispetto al 2011.

    Come si sa, con l’Iraq bisogna andare cauti. Fin dal primissimo “mission accomplished” abbiamo capito che di compiuto a Baghdad c’è sempre troppo poco, ma certo è che se esiste un regime change che ha portato veramente un cambiamento, quello è il regime change in Iraq contro Saddam Hussein. Nove anni di guerra, 160 mila morti tra i civili e 4.800 tra i militari (ma non addentratevi nelle statistiche, secondo Opinion Research Business i morti sono più di un milione): i numeri sono drammatici, ma se si guarda il grafico in continuo aggiornamento su Iraq Body Count si vede una flessione costante, che non tende a zero, ma nemmeno risale. A Baghdad il processo di riconciliazione è in stallo dal dicembre 2011, tanto che nei giorni scorsi le forze avverse al premier, Nouri al Maliki, i sunniti e i curdi, hanno chiesto un voto di sfiducia in Parlamento: Maliki “sta accentrando tutto il potere”, ha detto il capo dei curdi, Massoud Barzani, mentre dal campo sunnita alcuni dicevano senza troppi fronzoli che Maliki “è un dittatore”. Il voto di sfiducia pare rientrato, c’è grande instabilità, dice l’esperto Ihsan al Shammari, “ma sempre all’interno della dialettica democratica”.

    Dialettica democratica – quanto suona strana questa espressione in medio oriente? Ieri il Wall Street Journal commentava la sentenza sul rais egiziano Mubarak dicendo che non si può pretendere un processo giusto prima che inizi un processo verso la democrazia. Sulla storia democratica irachena pesa il cappio attorno al collo di Saddam Hussein, quel corpaccione penzolante a ricordare quanto sia facile riempirsi la bocca con i propositi di riconciliazione e quanto poi invece valgano il sangue versato e il rancore. In Iraq abbiamo anche scoperto – noi increduli, gli iracheni spappolati dalle bombe – che la ricostruzione non è soltanto l’inchiostro viola sulle dita di chi ha votato né la sicurezza garantita da una strategia militar-antropologica come quella del generale Petraeus. Anzi. Oggi Maliki rischia di diventare un minidittatore, amico dell’Iran per di più. Non siamo soltanto noi occidentali a festeggiare il ritorno dell’Iraq sulla scena della produzione petrolifera. Anche l’Iran mette avanti le mani, manda una delegazione a Baghdad accolta con grandi onori per stabilire che “tutto sarà gestito assieme”, a cominciare dalla nomina di un iracheno a segretario generale dell’Opec, contro un candidato invotabile per Teheran: il candidato dell’Arabia Saudita (il 14 giugno a Vienna si avrà il primo scontro, ma c’è tempo fino alla fine dell’anno per decidere).
    Il petrolio è la massima risorsa per il rilancio dell’Iraq – rappresenta il 95 per cento delle entrate dello stato – ma è anche causa di lotte, di corruzione, di faide, come dimostrano i continui scontri con i curdi nel nord. L’obiettivo di produzione per il 2017 è ambiziosissimo, dieci milioni di barili al giorno, e le infrastrutture non sono assolutamente pronte: è anche per questo che la settimana scorsa l’asta sulle licenze trasmessa in diretta tv è andata semideserta. Le aziende straniere che investono in Iraq – Exxon, Bp, China Petroleum, Eni – non hanno grandi guadagni per ora, ma le prospettive sono strabilianti, Baghdad tra dieci anni potrà competere con i megaproduttori, Arabia Saudita e Russia.
    La strada è accidentata, il ritiro degli americani festeggiato con quel sobrio “Welcome home” scandito dal presidente Obama per annunciare la fine delle operazioni pesa sul futuro dell’Iraq. Ma il primo di luglio, quando l’Iran dovrà affrontare le prossime sanzioni, l’esercito iracheno lascerà Baghdad alle forze di polizia, che torneranno a fare il loro mestiere di gestione della sicurezza interna. E’ la normalizzazione che arriva nelle strade della capitale irachena: con grande fatica, ma arriva. Come diceva Petraeus “andrà molto male prima di migliorare”, ma intanto quell’Iraq che è nel pensiero prevalente il simbolo di una dottrina liberticida e guerrafondaia diventa il baluardo contro un regime – quello sì – liberticida e guerrafondaio e un giorno anche atomico. Le armi di distruzione di massa non c’erano, ma l’Iraq democratico oggi c’è. E acquista droni dal presidente Obama (che è il più esperto su piazza) per sorvegliare i suoi impianti petroliferi, la fonte della ricchezza, la porta che fa ritornare l’Iraq grande, e più libero.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi