Libia-Nigeria, passando dal Mali. Benvenuti nel Gheddafistan

Carlo Panella

“Va a finire che rimpiangeremo di avere catturato Seif al Islam, il figlio di Gheddafi: fosse libero nel suo ‘Gheddafistan’, almeno avremmo di fronte una leadership politica; così invece è un caos, una esplosione di focolai di guerra e di terroristi incontrollabile, ingestibile”. Questa profezia volutamente paradossale è di un alto ufficiale Nato di nazionalità francese reduce da una riunione in cui a Bruxelles si è tentato – invano – di fare il punto sulla esplosione del Sahel provocata dalla caduta di Gheddafi.

    “Va a finire che rimpiangeremo di avere catturato Seif al Islam, il figlio di Gheddafi: fosse libero nel suo ‘Gheddafistan’, almeno avremmo di fronte una leadership politica; così invece è un caos, una esplosione di focolai di guerra e di terroristi incontrollabile, ingestibile”. Questa profezia volutamente paradossale è di un alto ufficiale Nato di nazionalità francese reduce da una riunione in cui a Bruxelles si è tentato – invano – di fare il punto sulla esplosione del Sahel provocata dalla caduta di Gheddafi. Questa valutazione è condivisa da un leader politico del Mali, Bajan Ag Hamatou: “Gli occidentali non volevano Gheddafi e hanno creato problemi per tutti noi. Lo hanno cacciato in quel modo barbaro e hanno fatto nascere altri dieci Gheddafi. L’intera regione del Sahel sahariano è diventata invivibile”.

    Tanti microeserciti ingovernabili
    Una miriade di bande – composte da ex militari di etnia tuareg al soldo di Gheddafi, con eccellente preparazione professionale e un consistente bottino di guerra di armi leggere e pesanti – comandate da piccoli e grandi “signori della guerra ha già disintegrato il fragile Mali, in un disordinato muoversi, allearsi e combattersi che contagia tutto il Sahel. Una spirale di micro eserciti in movimento ingovernata e ingovernabile: è una situazione speculare al quadro politico interno della Libia. L’unica sostanziale differenza è il solido impianto a Tripoli, sotto l’ombrello della Nato, di un governo centrale (tutti ex fedelissimi di Gheddafi) che gode sostanzialmente del “potere di firma” sui contratti petroliferi ed energetici. Da Abdel Jalil in giù sono infatti loro, e soltanto loro, gli interlocutori riconosciuti sul piano internazionale. Ma sotto questo vertice politico che governa il paese in apparenza si muove in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan un’altra spirale di nuovi “signori della guerra”, speculare a quella dei “gheddafiani” che scorrazzano per il Sahel. Questi signori della guerra hanno distrutto il secolare equilibrio dei capi tribù e capi clan libici, che oggi ben poco possono nei confronti dei loro stessi uomini in armi.
    Questa situazione dà spazio alle tensioni centrifughe: oltre alla Cirenaica, anche il Fezzan (ricchissimo di petrolio), secondo quanto riportato dai giornali algerini, preme per la sua indipendenza da Tripoli. La secessione è favorita dal governo algerino  – che contrasta la disgregazione del Mali – tanto che Abdel Jalil ha denunciato “l’inizio di una cospirazione alimentata in Fezzan da alcuni paesi arabi” e si dice pronto a difendere l’unità della Libia con le armi. Il premier libico, Rahim al Kib, ha chiesto al Consiglio di sicurezza di revocare l’embargo sulle armi, per poter “riarmare l’esercito e la polizia e consentire loro di svolgere i propri compiti”. L’allarme è tale – e tale è l’impreparazione del governo di Tripoli – che il capo di stato maggiore libico, Ahmed el Mankush, ha incontrato un mese fa al Cairo il capo del Consiglio militare egiziano, Hussein Tantawi, per discutere della “sicurezza delle frontiere e degli sforzi per rafforzare l’unità del popolo libico” con l’indispensabile aiuto dell’esercito egiziano.

    Le brigate libiche mercanteggiano
    La pratica di occupare manu militari l’aeroporto di Tripoli, bloccando a suon di mitragliate in aria i voli, è diventata una tradizione. Il 20 aprile le Brigate di Zintan (che detengono Seif al Islam, si rifiutano di consegnarlo al governo e trattano sul suo prezzo) hanno lasciato lo scalo soltanto dopo avere ottenuto dal governo un “pizzo” di svariati milioni di euro. Lunedì è stata la volta della Brigata di al Tharouna, che ha occupato le piste con i suoi blindati, ha fatto scendere armi alla mano i passeggeri già imbarcati e ha liberato il campo dopo avere ottenuto un consistente riscatto. Negli ultimi mesi è lungo l’elenco degli scontri  delle varie Brigate tra di loro e con l’esercito regolare (una quarantina di episodi con decine di morti), ma è fuori di dubbio che – in ogni caso – la Nato non permetterà che questo caos oltrepassi i livelli di guardia. Sono pronti da mesi particolareggiati piani militari per il dispiegamento di decine di migliaia di militari dell’Alleanza atlantica (pare che gli Stati Uniti siano disposti a inviarne diecimila) in tutti i campi di pozzi di petrolio, lungo tutte le pipeline, a presidio di tutti i terminali e naturalmente di Tripoli e Bengasi.

    Il santuario terroristico di Gao
    Nessuno in occidente mostra di avere la minima idea di come aggredire la spirale di caos che ha sgretolato il Mali, che minaccia di contagiare il Niger e il Burkina Faso in cui una sola cosa è chiara: nel Sahel al Qaida ha trovato un nuovo santuario in cui impiantarsi, crescere e diramarsi. Questo santuario è arroccato nella regione del Mali dell’Azawed (“la terra dove c’è il pascolo”, in tamasheq, la lingua tuareg) che recentemente ha proclamato una sua fantomatica secessione e autonomia. Le tre province dell’Azawed sono state spartite tra Mokhtar Belmokhtar, il leader locale di al Qaida che si è impadronito con i suoi combattenti della città di Gao, mentre Timbuctù è stata occupata dal movimento Ansar Eddin e il Mnla si è impadronito della provincia di Kidal. A marzo l’esercito maliano si è ritirato in disordine da queste province, è rientrato nella capitale Bamako, ha effettuato un golpe deponendo il presidente Amadou Toumani Tourè e ancora oggi la comunità internazionale non ha chiaro chi controlli capitale e paese.
    Dal nuovo santuario di Gao, conquistato col determinante appoggio degli islamisti impiantati sin dal febbraio 2011 nel “califfato islamico di Derna”, i qaidisti del Mali hanno ora eccellenti prospettive di riuscire a espandersi verso ovest e verso sud. A ovest, sono già operativi i contatti e i rapporti (anche logistici) con i gruppi di al Qaida del Maghreb che agiscono nelle confinanti Mauritania e Algeria (che hanno ricevuto negli ultimi mesi nuove leve dai giovani scontenti della leadership storica del Polisario di Tindouf). A sud, molti indizi indicano che i qaidisti tuareg del Mali abbiano ormai stabilito in Nigeria (attraverso il Niger) contatti più che intensi col movimento islamista Boko Haram (“l’educazione occidentale – a partire dal cristianesimo, quindi – è impura e peccaminosa”) che impazzano nelle regioni settentrionali islamiche.
    E’ facile intravvedere la formazione di una “faglia di frattura tellurica” dalla spiccata matrice islamista e qaidista, che parte della Mauritania e dal sud dell’Algeria, attraversa il Mali, si protende verso la Nigeria. Per ora è isolata verso est dal fragile schermo del Niger e del Ciad, ma trova un nuovo campo d’azione e d’impianto nel Darfour e soprattutto nel Sud Sudan, ormai in stato di guerra col Sudan. La profezia di Gheddafi, che preconizzava, in caso di sua caduta, la formazione di un vortice qaidista nel Maghreb e nel Sahel, inizia dunque a realizzarsi, senza che l’occidente sappia come farvi fronte.