Zeman e le conseguenze economiche del ritorno di un mister non rigorista

Ernesto Felli

E’ tornato. Siccome sono passati quasi 15 anni, il ritorno di Zdenek Zeman alla As Roma, dalla cui guida tecnica fu estromesso nell’estate del 1999, appartiene più al genere dei “nuovi inizi” che a quello delle “ripetizioni”. Anzi è passato così tanto tempo, e tutti noi, lui compreso, siamo così cambiati, che ci sarebbero le condizioni per proporre il racconto di un mito di un’epoca passata e persino di un’utopia retrospettiva.

    E’ tornato. Siccome sono passati quasi 15 anni, il ritorno di Zdenek Zeman alla As Roma, dalla cui guida tecnica fu estromesso nell’estate del 1999, appartiene più al genere dei “nuovi inizi” che a quello delle “ripetizioni”. Anzi è passato così tanto tempo, e tutti noi, lui compreso, siamo così cambiati, che ci sarebbero le condizioni per proporre il racconto di un mito di un’epoca passata e persino di un’utopia retrospettiva. In realtà, 15 anni sono sì un lungo termine ma non tanto quanto servirebbe ad impedire il timore della maledizione delle “minestre riscaldate”. Per questo i tifosi romanisti si affannano a ricercare nella storia esempi di ritorni fortunati da opporre al caso contrario. E, fortunatamente, ne trovano persino in casa loro, essendo stato il ritorno nel 1979 di Nils Liedholm (che aveva allenato la Roma sino a due anni prima), la premessa dello scudetto del 1983 (e della finale di Coppa Campioni “sanguinosamente” persa ai rigori nello stadio di casa). Rimane però tutto il resto. Ossia, i pochi successi di Zdenek Zeman – una vittoria nel campionato di C2 (a Licata nel 1985), e due nel campionato di B (col Foggia nel ’91 e con il Pescara quest’anno) – e i tanti fallimenti. Ma proprio questi fallimenti, che comprendono anche due esperienze internazionali “minori” (in Turchia e in Serbia) ma sono stati essenzialmente domestici, fanno di Zeman quello che è.

    Un perdente di successo. Una personalità carismatica. Una capacità di fascinazione enigmatica ma con alcuni tratti evidenti. Di certo, il gioco offensivo e spettacolare delle sue squadre. Ma senza dubbio anche il suo pensiero astratto, a cominciare dal “risultato separato dalla prestazione”. E poi il coraggio delle sue critiche all’establishment. E infine, quel suo essere un esule, che, sì, ha abbracciato senza disagi la cultura del paese ospitante, che si è italianizzato al punto da fare osservazioni alla Sciascia sulla mafia, ma che resta un forestiero, un boemo, anzi “il boemo”. Un tipo non incline al conformismo, anzi fondamentalmente un bastian contrario, sempre sul filo dell’ironia, delle pause di riflessione, della sfida all’oggettività, del rifiuto dell’apparenza, della ribellione all’ovvio. Insomma, un tipo che non ti annoia, sia quando guardi le sue squadre giocare al calcio sia quando lo ascolti o ne leggi le dichiarazioni.
    Si dice che le critiche all’establishment, e in particolare alla Juve (alla quale pure sembrava destinato dallo zio Cestmír Vycpálek, ex allenatore di casa Agnelli), siano costate a Zeman l’emarginazione dal calcio che conta, dunque non solo dalla Roma. Zeman ha avallato in un’intervista recente questa interpretazione (a proposito della Roma) e lo stesso Franco Sensi a suo tempo aveva dichiarato che c’era chi gli aveva fatto capire che per vincere qualcosa avrebbe dovuto fare a meno di lui (e per questo aveva ingaggiato Capello con il quale effettivamente aveva vinto lo scudetto del 2001). In altre parole, non solo un profeta ma quasi un martire. In effetti, così lo ha immaginato il decano della nostra letteratura, Manlio Cancogni (1916). Ne “Il Mister”, un romanzo breve del 2000 (ma in gestazione dai primi anni Novanta, cioè dai tempi del Foggia), Cancogni è stato ispirato da Zeman (e soprattutto dai ricordi della sua adolescenza), nel costruire una storia di fantasia che si svolge nella Roma del 1932. Il protagonista è Vecto Zoran, un esule sloveno che fa l’allenatore-giocatore di una squadretta di quartiere. Il mister, che forse ha un passato antifascista, che di certo è un forestiero, ma che soprattutto batte le squadre amate dal regime, alla vigilia della partita decisiva scompare, o meglio, viene fatto sparire. Fantasia. La letteratura a volte anticipa la storia, e qualche volta l’interpreta meglio degli studiosi stessi. Ma in questo caso e per ora, la realtà è davvero differente.

    Zeman non è scomparso, non è un martire, ed è tornato. Alla Roma – la sua ultima chance, ha detto. Ovvero, la sua ultima possibilità di smettere i panni del “perdente di successo” (è inutile dire che su questo i tifosi della As Roma contano in modo speciale). E siccome  nel frattempo, dopo il calvario della B e tre campionati anonimi in A, è tornata anche la Juve, si riapre la sfida.
    Tutto questo farà bene al calcio italiano. Se i tifosi della Roma si aspettano che soprattutto faccia bene alla loro squadra, è il calcio italiano in generale, nel pieno di una crisi profonda, che ha bisogno di cambiamenti. Lasciamo da parte il bisogno di emozioni nuove, che è un genere che inclina alla retorica fasulla, e limitiamoci a constatare che basterebbe un’alternativa alla noia attuale. Zeman alla Roma può essere questo, e non solo. Come minimo, può ridare interesse a una realtà sempre meno attraente. Lo scenario è noto e a modo suo riflette quello depresso e deprimente della situazione politica ed economica del paese. Il Milan deve fronteggiare l’esaurimento del ciclo berlusconiano, e prepararsi alla separazione dai suoi pezzi pregiati (Ibra, T. Silva). L’Inter, da tempo demourinhizzata, è alle prese con una ricostruzione problematica, e al momento appare più una dependance di Trigoria (dall’allenatore alle scelte di mercato) che lo squadrone del triplete. Le altre squadre maggiori non risultano interessanti fuori del cortile domestico e la Nazionale ha prospettive incerte. Contemporaneamente, l’ennesimo scandalo ha intaccato la credibilità di un movimento calcistico in declino. Si discute di fair play finanziario, di vivai, di diritti televisivi, in un contesto in cui il più “bel campionato del mondo” è divenuto una provincia dalla quale si tengono lontano sia i capitali finanziari sia quelli tecnici. Si parla di stadi, mentre appare evidente che prima di porsi il (giusto) problema di costruire nuovi stadi, ci si dovrebbe preoccupare di riempire quelli esistenti, che risultano i più vuoti d’Europa. La Roma con Zeman può essere una risposta a questa situazione. E’ quello che deve aver pensato la dirigenza della Roma, espressa dalla nuova società laboriosamente creata un anno fa, che è essa stessa un’eccezione vista la presenza maggioritaria di capitale statunitense (al momento l’unico investimento estero diretto nell’industria italiana del calcio). L’anno scorso la Roma era stata glamour con la scelta di Luis Enrique, l’allenatore di scuola blaugrana che veniva dal Barcellona B. Non ha funzionato. Pensare di importare il mainstream non era una cattiva idea. Forse non potendo avere l’artefice del mainstream, ossia Guardiola, sarebbe stato meglio non provarci. Ma questo lo possiamo dire solo dopo che il tentativo è stato fatto ed è fallito. Nonostante gli sforzi tecnici e la simpatia umana, alla fine l’unica novità duratura di Luis Enrique è stata il non parlare di arbitri (mentre tutti gli altri lo facevano).

    Ora, con un artefice diverso, la Roma ci riprova. La cosa bella è che pure se l’artefice è ben noto e ci si può immaginare facilmente alcune delle cose che farà e dirà, l’aspettativa è del tipo di quelle che accompagnano le novità (annunciate). E basterebbe la curiosità generale suscitata dal rinnovato binomio Zeman-Roma a giustificare la scelta del management della società. Anche se l’arrivo di Zeman non interromperà in maniera stabile la caduta del valore del titolo della società, che ha autorizzato qualche tempo fa il vicedirettore generale di Unicredit Fiorentino a parlare di delisting.
    Ma è chiaro, la vera novità sarebbe se la Roma e Zdenek Zeman vincessero lo scudetto.