Addio a Elinor Ostrom, la Nobel che piace alle persone che non si piacciono

Carlo Stagnaro

Elinor Ostrom se n'è andata non senza togliersi qualche soddisfazione. Ha fatto in tempo a leggere la rivista "Time" che la consacrava, nell'aprile di quest'anno, come uno dei cento esseri umani più influenti del pianeta. Tre anni fa, nel 2009, stabiliva un doppio record: prima donna a vincere il premio Nobel per l'economia, arrivava ai vertici della disciplina avendo seguito un itinerario eretico e singolare, essendo guardata con sospetto e distacco un po' per la sua formazione (tutta nel solco delle scienze politiche), un po' per il crinale su cui si declinava la sua analisi.

    Elinor Ostrom se n'è andata non senza togliersi qualche soddisfazione. Ha fatto in tempo a leggere la rivista "Time" che la consacrava, nell'aprile di quest'anno, come uno dei cento esseri umani più influenti del pianeta. Tre anni fa, nel 2009, stabiliva un doppio record: prima donna a vincere il premio Nobel per l'economia, arrivava ai vertici della disciplina avendo seguito un itinerario eretico e singolare, essendo guardata con sospetto e distacco un po' per la sua formazione (tutta nel solco delle scienze politiche), un po' per il crinale su cui si declinava la sua analisi (qui ricostruita da Alex Tabarrok nel giorno del premio). Ostrom piace a persone che non si piacciono: lo si è visto alla consegna del Nobel, e Alberto Mingardi lo ha raccontato nel suo ricordo su Chicago-blog, ricordando una conferenza londinese recente dove i fedeli del thatcherismo si mischiavano agli abbraccia-alberi. Come si spiega questa contraddizione?

    Ostrom ha dedicato la sua attività di ricerca a una delle zone più grigie del mondo reale - che proprio per questo, per il suo essere difficilmente incasellabile nelle categorie consuete, ha generalmente respinto i tentativi d'indagine. L'oggetto del suo lavoro sono i "commons", i beni comuni, cioè quelle risorse che, pur non essendo beni pubblici (nel senso tecnico del termine: cioè beni non escludibili e non rivali nel consumo), ne condividono alcune caratteristiche. In particolare sono non escludibili, o in senso assoluto, o perché l'esclusione avrebbe costi troppo alti. Per esempio, le acque del mare o dei fiumi, ma anche, in diversi contesti sociali, i pascoli o altre risorse naturali. In questi casi, il libero accesso produce sovraconsumo (i pescatori troppo avidi mettono sotto stress le risorse idriche e determinano la scomparsa del pesce, mandrie troppo numerose diserbano i prati). Lo stesso termine "commons" venne impiegato, per la prima volta, da un biologo, non da un economista. Garrett Hardin lo legò indissolubilmente alla parola "tragedy": per prevenire la loro distruzione (era la sua tesi) è necessario un intervento autoritativo. Per esempio, che lo Stato ponga dei limiti all'accesso, definisca delle regole di consumo, eriga dei recinti. Altri hanno raccolto la sfida di Hardin percorrendo vie opposte: i "free market environmentalists", che hanno il loro santuario nel Perc di Bozeman, Montana, sostengono che l'unica regola necessaria è la proprietà privata. Sarà l'interesse del proprietario a regolamentare in modo efficiente lo sfruttamento delle risorse.

    Ostrom dà una risposta differente, che però strizza l'occhio, e non poco, ai ragazzi di Bozeman. Per la studiosa dell'Indiana vi sono casi in cui la risposta non è né lo Stato né la proprietà privata (in senso stretto). La soluzione va cercata in una gestione "comunitaria", cioè nella costruzione dal basso di forme di "privatizzazione collettiva". I pescatori che regolamentano l'accesso a bacini di pesca, o i pastori che concordano l'utilizzo dei pascoli, ne sono esempi. In quest'ottica, Ostrom si pone sulla scia di una tradizione d'indagine "sul campo", che si può far risalire a Ronald Coase - anch'egli premio Nobel "eretico" - e, prima di lui, agli studiosi inglesi d'organizzazione industriale. Ostrom non ha l'ambizione di modellare matematicamente (cioè, in qualche modo, prevedere) il comportamento umano; il suo obiettivo è osservare e trarre lezioni dalla creatività degli individui e dei gruppi. Il suo approccio è, allora, profondamente hayekiano, perché poggia sulla presa d'atto di un fattore spesso negletto: più una questione è complessa, più diventano cruciali quelle informazioni, per quanto minime, che risiedono informalmente "sul campo", e che non possono in alcun modo essere raccolte da un decisore centrale. Spesso, non possono neppure essere formalizzate.
    Ostrom, insomma, appartiene alla tradizione di quanti si concentrano sul dito, non sulla luna: perché è il dito, cioè le istituzioni, a determinare la direzione in cui il mondo evolve. I risultati sono un accidente del caso e una conseguenza delle regole, ma hanno poco a che fare con le intenzioni.

    La malattia professionale di Ostrom è l'umiltà. Le parole più importanti della sua lezione per il Nobel sono "there is not yet a single well-developed theory that explains all of the diverse outcomes obtained in microsettings". Non c'è una teoria. Pudicamente, dice "yet". Dentro di sé, sa che non può esserci, perché il mondo è una cosa complicata dove, incredibilmente, gli utenti delle risorse a libero accesso tendono a capire la natura dei problemi e sviluppare soluzioni differenti ma efficaci. L'eredità che Ostrom ci lascia è il dovere di "costruire fiducia reciproca" e assegnare alla politica un obiettivo molto specifico: "sviluppare istituzioni che portino alla luce il meglio degli esseri umani. Dobbiamo chiederci come diverse istituzioni policentriche aiutino o ostacolino l'innovazione, l'apprendimento, l'adattamento, la fiducia, i livelli di cooperazione dei partecipanti, e il raggiungimento di esiti più efficaci, equi e sostenibili su diverse scale".

    Addio, professoressa Ostrom. Forse il paradiso degli studiosi è fatto proprio così.