Europa senza onore

Marina Valensise

Harvey Mansfield, il politologo di Harvard, l’ultimo discepolo di Leo Strauss, lo studioso di Machiavelli e di Tocqueville, l’autore di un bestseller, “Manliness”, sulla crisi della virilità occidentale, guarda da lontano al conflitto in corso in Europa in tema di moneta unica, sviluppo e debiti sovrani sotto attacco dei mercati. Guai a parlargli di guerra, però.

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    Harvey Mansfield, il politologo di Harvard, l’ultimo discepolo di Leo Strauss, lo studioso di Machiavelli e di Tocqueville, l’autore di un bestseller, “Manliness”, sulla crisi della virilità occidentale, guarda da lontano al conflitto in corso in Europa in tema di moneta unica, sviluppo e debiti sovrani sotto attacco dei mercati. Guai a parlargli di guerra, però. “E’ una parola che suona drammatica, e poi i paesi europei non hanno armi a sufficienza per combattere una guerra, che resta commerciale e politica, prima che militare”. Dunque semmai parliamo di conflitto. E il conflitto per Mansfield risale alle radici stessa dell’Europa. “I padri fondatori dell’Europa pensavano di cominciare dall’economia per arrivare all’unità politica, convinti com’erano che la gente sarebbe stata obbligata all’unità politica dal mercato stesso. Così, sono diventati economicamente dipendenti gli uni dagli altri. Ma questa posizione alla lunga si è rivelata un errore, dettato forse da troppo ottimismo. La politica, infatti, non riesce a essere sovrana rispetto all’economia. Di per sé il fatto di avere un interesse economico in comune non basta a fare diventare un popolo più europeo. La storia infatti dimostra come ogni nazione d’Europa voglia mantenere la propria identità e coltivare un senso di libertà spesso opposto a quello degli altri paesi”.

    Dunque è fallita l’idea “marxista” che ha sorretto la nascita e lo sviluppo della comunità prima e poi dell’Unione europea? “E’ fallita la capacità dell’economia di produrre un’unità politica”, insiste Mansfield rispondendo al Foglio. “I tedeschi forse spingono ancora in questa direzione, cercando di avere più Europa o meno Europa, ma di fatto è difficile che il minimo di Europa oggi esistente, un minimo che sostiene l’euro come moneta comune, riesca a decidere di mettere in comune più politica, o di lasciare più libertà economica ai singoli stati. Il corno del dilemma è chiaro: se ogni paese cerca di difendere la propria indipendenza fiscale, dovrà moderare la sua partecipazione alla moneta unica. E se un paese deciderà di delegare più potere a Bruxelles, soffrirà in termini di indipendenza e di libertà”.
    Dal suo osservatorio americano, dove continua a tenere corsi di Filosofia politica da Platone a Nietzsche, Harvey Mansfield nota un’analogia tra l’Italia duale, divisa tra nord e sud, e l’Europa. “L’Italia del nord è sovrana come lo è la Germania nella Ue. C’è un nord produttivo che rilutta a pagare per il resto dell’Italia, esattamente come la Germania rilutta a pagare per il resto degli stati della Ue, considerandolo un lusso. E io vedo un’affinità tra la Lega nord e un certo risentimento verso la dipendenza nei confronti della sovranità europea. Di fatto nessuno può dire quali saranno le conseguenze economiche di una possibile federazione, per quanto lasca, in cui ogni paese potrà eleggere i suoi rappresentanti. D’altra parte, chi ci dice che Bruxelles sarà più saggia di Roma e di Berlino? E quale politica sceglierà la Ue, la socialdemocrazia o il libero mercato? Oggi ogni stato membro della Ue è preoccupato che un altro possa prendere il sopravvento sull’insieme, senza troppi riguardi per l’elettorato nazionale”.

    Molti osservatori lamentano l’assenza di un Alexander Hamilton in grado di dare una sterzata decisiva che porti alla costituzione federale. “E’ vero, Hamilton fu un uomo attento innanzitutto alle necessità della politica, senza però trascurare quelle dell’economia. I tedeschi non sembrano disporre di un personaggio simile. Qualsiasi cosa facciano, sembrano farla bene. Hanno avuto la fortuna di vivere sessant’anni di pace, ma non sembrano aver sviluppato o prodotto una figura politica in grado di dirigere l’Europa verso una direzione o un’altra. La cancelliera Merkel sta facendo un buon lavoro, ma non mi pare dotata di una immaginazione trascendente che le consenta di mettere insieme il nord e il sud dell’Europa”. Quanto alle divergenze franco-tedesche drammaticamente esplose di fronte al presidente americano Obama, Harvey Mansfield è troppo scettico per non vederne i limiti riflessi nella stessa amministrazione. “Siamo sulla stessa barca. Noi americani non possiamo aiutare l’Europa, perché grazie a Obama abbiamo i vostri stessi problemi, e cioè troppo debito pubblico, troppe promesse di welfare troppa socialdemocrazia. Il dramma è che l’Europa distrae noi americani dall’affrontare il vero problema, la crescita esponenziale della spesa pubblica. E il dramma dell’Europa è di non avere abbastanza repubblicani americani, e cioè liberali che, pur praticando la socialdemocrazia, credono sostanzialmente nella libertà di mercato e contano solo su se stessi. Detto questo, l’Europa uscirà dalla crisi con maggiore flessibilità, piuttosto che con l’abbandono dell’euro, a condizione però che ogni paese possa continuare ad avere il controllo sui propri soldi, tenendo i conti in ordine, e creda ancora nel futuro, cosa di cui il calo demografico indurrebbe a dubitare”.

    Eppure il crollo di fiducia nel futuro non dà luogo a espressioni di pessimismo radicale come all’indomani della Grande Guerra, quando Oswald Spengler parlava di declino dell’occidente. “E’ vero, noi non abbiamo paura, ma ognuno di noi guarda al suo particolare, anziché assumere responsabilità collettive, cercando di migliorare le cose per le generazioni future. Anche in America ormai è forte la tentazione di dipendere dal governo per il nostro benessere privato. Il fatto è che anche noi americani stiamo vivendo una fase di dissoluzione dell’individualismo democratico: la gente vota, ma non è più disposta a pagare, eppure dovrebbe risultare chiaro che non possiamo più sostenere i livelli di spesa pubblica ai quali eravamo abituati. Se non cambiamo, andremo incontro a conflitti infiniti o a una forma di risentimento sociale foriero di violenza. Ricordiamo cos’è successo in Germania nel 1933, quando il regime parlamentare di Weimar perse il controllo sull’elettorato. Oggi ci sono forme di fascismo più comuni e rischi che nemmeno immaginiamo, come il fanatismo religioso: perché i nemici della democrazia vivono sempre sottotraccia e spuntano fuori all’improvviso”.

    Ma l’Europa, dove oggi molti riscoprono l’appeal della violenza, riuscirà a reagire? “L’Europa non manca di risorse morali, anche se quando un americano arriva da voi avverte una mancanza di ambizione personale, non sa cosa vogliono e possono fare gli europei per il loro paese. L’Europa resta un continente civile, intelligente, vitale, anche se ha perso un po’ della sua anima. La vecchia Europa che aspirava a diventare unita è scomparsa nello stesso momento in cui ha realizzato il suo sogno, come dimostrano ora i cechi, i polacchi, gli ungheresi che si sono completamente integrati alle istituzioni comuni. Così facendo, ha dimenticato il suo orgoglio, il suo senso di sé e ha perso il senso di leadership. Volendo ritornare a fare politica, anziché limitarsi alla sola economia, l’Europa dovrebbe ritrovare la sua ragion d’essere, il suo proprio orgoglio, la sua propria storia, puntando innanzitutto sull’autostima, come un campione sportivo che voglia non solo gareggiare ma vincere”. Ma in concreto che significa? “Significa innanzitutto che la politica dovrebbe interessarsi meno al profitto e più all’onore, guardare meno all’utile e all’interesse e economico e più al rapporto tra persone, perché la politica è relazione, ritrovando i valori fondanti di una comunità e riattivando un’alta idea di sé. Bisognerebbe ritornare a ragionare su cosa è meglio dal punto di vista politico, piuttosto che continuare a prendere decisioni nel campo circoscritto dell’economia e dello sviluppo. Ma l’Europa, insisto, soffre ancora del suo peccato originale che la condiziona, e cioè l’idea, rivelatasi errata, che l’unità economica avrebbe portato all’unità politica. Bisognava fare esattamente il contrario, arrivare all’unità economica a partire dall’unità politica. Per questo, bisognerebbe tornare a insistere su ciò che per un paese è politicamente vantaggioso, cercando di piegare l’ambizione economica in quel senso, anziché perseguire l’obiettivo opposto. La crisi della Grecia dimostra che non si può risolvere un problema politico attraverso l’economia. L’Europa e pure l’America oggi hanno bisogno di più politica, e anche se i greci si sono messi nei guai per i loro politici, perché hanno eletto quei politici, vanno trattati come un popolo indipendente. Mi dispiace che siano i primi a pagare e gravemente per gli errori che hanno compiuto, ma il loro caso è una perfetta illustrazione del disastro che ci aspetta se non cambiamo rotta”.

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