Domani è battaglia per l'anima dell'Opec, per tenere basso il prezzo del petrolio e rovinare l'Iran

Daniele Raineri

Arrivano a Vienna i rappresentanti dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio per l’incontro di domani. Dentro al cartello c’è una guerra in corso tra due fronti: da una parte Arabia Saudita, Emirati arabi uniti e Kuwait, dall’altra i cosiddetti “falchi del prezzo”, capeggiati dall’Iran, di cui fanno parte come sempre il Venezuela di Hugo Chávez, l’Algeria e ora anche l’Iraq del dopo Saddam Hussein.

    Arrivano a Vienna i rappresentanti dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio per l’incontro di domani. Dentro al cartello c’è una guerra in corso tra due fronti: da una parte Arabia Saudita, Emirati arabi uniti e Kuwait, dall’altra i cosiddetti “falchi del prezzo”, capeggiati dall’Iran, di cui fanno parte come sempre il Venezuela di Hugo Chávez, l’Algeria e ora anche l’Iraq del dopo Saddam Hussein.
    Il primo fronte, un “cartello dentro il cartello” guidato dall’Arabia Saudita, vuole tenere produzione alta e prezzo basso. “I nostri analisti suggeriscono che avremo bisogno di un tetto più alto rispetto a quello di adesso”, dice il ministro del Petrolio saudita, Ali Naimi, un elegante 76enne inseguito nella camminatina mattutina austriaca da gruppi di giornalisti che considerano l’esercizio – a ragione – un’occasione ineguagliata per capire cosa succede dentro i meccanismi del mercato del greggio.
    Il tetto massimo a cui si riferisce il ministro è quello della produzione massima Opec, fissato di anno in anno e sempre superato (il cartello, comunque, non produce più del 40 per cento del petrolio venduto nel mondo). Per il 2012 è – dovrebbe essere – di trenta milioni di barili al giorno. L’Arabia Saudita vorrebbe alzarlo e sostiene con baldanza che i paesi sforano già la quota produzione (ad aprile quasi 33 milioni di barili al giorno), perché non alzarla allora? La conseguenza naturale, per la legge della domanda e dell’offerta, sarà un calo del prezzo, ed è quello che avviene già. A maggio i sauditi hanno gettato sul mercato 9,9 milioni di barili al giorno, la quantità più grande quest’anno, e, assieme ad altri fattori come il rallentamento della crescita in Cina, l’economia horror in Europa, il ritorno sul mercato del petrolio della Libia post Gheddafi, la performance spettacolare dell’Iraq che estrae a ritmi intensissimi, hanno schiacciato il prezzo verso il basso: da marzo è sceso in caduta libera di 30 dollari. Il Brent ora fluttua attorno ai cento dollari. A New York, secondo gli osservatori l’indice “sta corteggiando” la soglia degli ottanta dollari al barile.

    Il palazzo reale di Riad offre una spiegazione neutra a tanta manna energetica: il mondo è in crisi, ha bisogno di energia a basso costo e se non la offrissimo faremmo il nostro male perché abbiamo bisogno di economie pimpanti e assetate di petrolio, non di compratori svogliati, senza soldi e senza sete, in certi casi agonizzanti. La nostra non è munificenza: è che non ha senso strangolare i clienti in difficoltà.
    La realtà è che la generosità saudita nasconde la guerra. L’Iran avrebbe bisogno di prezzi alti, perché soffre sotto i colpi delle sanzioni internazionali e riesce a vendere sempre meno petrolio. Non ne aveva mai venduto così poco negli ultimi vent’anni. E stanno per arrivare le sanzioni definitive del primo luglio: a partire da quella data, gli Stati Uniti e l’Europa non faranno più affari con chi manterrà rapporti commerciali nel settore petrolifero dell’Iran. Gli immensi depositi di greggio di Teheran sull’isola di Kharg sono pieni, scoppiano, tanto che metà della flotta di superpetroliere di stato è stata trasformata in un deposito galleggiante. I clienti non comprano come prima, parte del greggio resta invenduta. A maggio la produzione è scesa ancora, 15 per cento in meno rispetto al 2010. La sola salvezza sarebbe se quel che è venduto lo fosse almeno a caro prezzo: ma sulla strada del rialzo dei prezzi s’è messo il cartello del Golfo. E’ un guaio per Teheran, che finanzia le casse dello stato grazie ai proventi petroliferi e che ha già scritto il budget per il 2013: 49 miliardi di dollari sono già inseriti come proventi futuri dal petrolio, a patto che il prezzo stia sopra la soglia degli 85 dollari al barile. Sotto, ci sarà un buco di bilancio. Secondo Reuters, Teheran ha bisogno di un prezzo del greggio ancora più alto per pareggiare il bilancio, superiore ai 110 dollari al barile.

    L’Arabia Saudita vuole persuadere l’Opec a tenere basso il prezzo del greggio proprio quando l’Iran boccheggia e avrebbe bisogno dell’opposto. Il Venezuela del rivale Chávez ha già detto che arriva all’incontro con l’obbiettivo di tagliare la produzione complessiva e aumentare i prezzi. Ma il grande alleato inaspettato per l’Iran è l’Iraq, l’ex nemico di una guerra da un milione di morti che durò per tutti gli anni Ottanta. Ora Baghdad – che è tornata a livelli di estrazione precedenti alla guerra e ha piani grandiosi per il futuro – è allineata a Teheran. Fonti irachene di Reuters dicono che la settimana scorsa il primo ministro Nouri al Maliki, che è nel mezzo di una tempesta politica, ha ordinato al suo ministero del Petrolio di adottare una “posizione unificata” con l’Iran dopo la visita del ministro del Petrolio iraniano Rostam Qasemi (visita caduta una settimana prima del vertice Opec). “E’ un segno dei tempi – dice Raad Alkadiri, consulente della PFC di Washington per entrambi i paesi – sulle questioni petrolifere c’è cooperazione tra loro da anni, anche se mai prima d’ora all’Opec. In termini politici, tutto quadra. L’Iraq ha una crisi politica interna e ha bisogno del sostegno dell’Iran. Se Teheran chiede aiuto, Baghdad obbedisce”.

    All’incontro di domani, che però potrebbe finire con un nulla di fatto, lo scontro tra il cartello del Golfo e i “falchi del prezzo” prenderà le forme di una sfida per l’elezione del nuovo segretario. Il ruolo in genere è poco più che simbolico, ma quest’anno lo scontro è caricato di un simbolismo molto più vasto. I sauditi, si sa, appoggerebbero una guerra contro l’Iran. Quattro sono i candidati. Riad propone Majid al Moneef. L’Ecuador presenta Wilson Pastor, che potrebbe essere l’outsider su cui i paesi trovano un compromesso. L’Iran ha Gholam Hossein Nozari, ma ha poche speranze di vincere. Per questo appoggia l’uomo dell’Iraq, Thamir Ghadhban.
    L’alleanza petrolifera tra Iraq e Iran, in ogni caso, non durerà molto. Baghdad è l’astro nascente sul mercato, si prepara a rimpiazzare gli iraniani tra i grandi produttori. Teheran va incontro al declino economico indotto dalle sanzioni. Ieri persino Sinpec, la compagnia petrolifera della Cina che è tra i clientipiù grandi e redditizi, ha promesso agli Stati Uniti che non aumentare gli acquisti di greggio iraniano sanzionato anche in caso di forti sconti.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)