I vent'anni sprecati

Paola Peduzzi

Il sogno americano s’è sfracellato contro i numeri pubblicati lunedì dalla Federal Reserve, numeri tremendi, in confronto lo stillicidio dei posti di lavoro, mese per mese, sembra un esercizio noioso di contabili della recessione. Questi numeri sono il risultato della Survey of Consumer Finances, una rilevazione colossale che la Banca centrale americana fa ogni tre anni per valutare le entrate delle famiglie, i loro consumi, i cambiamenti da un triennio all’altro.

    Il sogno americano s’è sfracellato contro i numeri pubblicati lunedì dalla Federal Reserve, numeri tremendi, in confronto lo stillicidio dei posti di lavoro, mese per mese, sembra un esercizio noioso di contabili della recessione. Questi numeri sono il risultato della Survey of Consumer Finances, una rilevazione colossale che la Banca centrale americana fa ogni tre anni per valutare le entrate delle famiglie, i loro consumi, i cambiamenti da un triennio all’altro. Le rilevazioni riguardano i tre anni che vanno dal 2007 al 2010, quindi sono vecchi di 18 mesi (ci mettono un anno e mezzo a processarli!), ma un coro di commentatori ieri sosteneva che oggi i dati non sono migliorati, sempre ammesso che non siano peggiorati. In realtà la settimana scorsa sempre la Fed ha fatto sapere che nel primo trimestre del 2012 c’è stato un aumento dei redditi netti dei cittadini pari al 4,7 per cento, ma secondo gli esperti si tratta di ricavi dettati dall’andamento dei mercati finanziari, che sono di natura volubili e poco affidabili nel tempo.
    La sintesi è: gli americani stanno come stavano all’inizio degli anni Novanta, 1992 circa (dopo l’aggiustamento inflattivo), cioè vent’anni di lavoro, produzione, innovazione, sforzo, investimento, consumo non sono serviti a molto. Il benessere creato in vent’anni s’è vaporizzato. Anzi, il benessere creato in vent’anni dalla middle class s’è vaporizzato, perché si sta sempre a prendersela con i troppo ricchi e a proteggere i troppo poveri quando a perderci davvero è chi sta nel mezzo.

    Nel grafico qui a fianco, a sinistra ci sono le famiglie più povere che hanno avuto un piccolo incremento del reddito (income) ma hanno perso il 35 per cento in ricchezza (net worth). A destra ci sono le famiglie più ricche che hanno avuto redditi stabili con un aumento della ricchezza pari al 16 per cento. In mezzo? Tutto negativo, reddito e ricchezza. Il reddito netto medio è sceso da 126 mila e quattrocento dollari del 2007 ai 77 mila e trecento del 2010 (è il reddito che comprende case, conti bancari e azioni al netto dei debiti come mutui e carte di credito), il più basso registrato dal 1992. Tra le famiglie che possegono una casa, c’è stata una perdita pari al 42,3 per cento (l’home equity, cioè il valore della casa meno il valore del mutuo, è passato da una media di 95 mila e trecento dollari del 2007 a 55 mila dollari) e la prima indiziata di questo collasso è ovviamente la bolla immobiliare scoppiata nel 2008. Parallelamente è crollato il risparmio: la proporzione di famiglie che ha messo via risparmi è passata nel triennio in questione dal 56,4 per cento al 52, il dato più basso da quando la Fed ha iniziato a fare questo studio (che è partito nel 1989). La fiducia nel futuro è diminuita: nel 2007 il 31,4 per cento delle famiglie sosteneva di non avere “una buona percezione sul reddito dell’anno successivo”, nel 2010 la percentuale è passata al 35.

    Le ottanta pagine di relazione sulla Survey pubblicate dalla Fed sono piene di dettagli e approfondimenti che restituiscono l’immagine di una società impaurita, sempre meno convinta che le cose possano davvero migliorare (e con un’ossessione internettiana inquietante: la maggior parte delle informazioni e delle decisioni finanziarie viene raccolta online, i blog e i tweet sono diventati consulenti finanziari). Lo choc immobiliare non è ancora stato riassorbito, ma il problema rigurda il presente e il futuro, più che il passato – ed è qui che il sogno americano si imbatte nella politica, e ne esce sanguinante.

    La battaglia elettorale tra Barack Obama e lo sfidante repubblicano Mitt Romney si muove lungo due linee: le accuse sulla mancata ripartenza e le proposte per un futuro radioso. Sul primo fronte la guerra è aperta: gli obamiani, che pure sono stati al governo per quattro anni, riescono più o meno a far passare l’idea che hanno ereditato disgrazie ingestibili, e che anzi con quelle premesse è già tanto che l’America non sia implosa. Romney ha gioco facile nel rispondere che la lamentela “io non c’entro, sono stati gli altri troppo cattivi” non può reggere un mandato presidenziale, figurarsi una rielezione. Ma a oggi non è possibile dire quale dei due messaggi – entrambi poco costruttivi – stia prevalendo. Il problema è il futuro. Il problema non è dire “ce la faremo”, ma piuttosto “come ce la faremo”. I sondaggisti Stan Greenberg ed Erica Seifert assieme all’intramontabile stratega democratico James Carville (è uno dei volti americani più riconoscibili, senza capelli con gli occhiali, condusse alla vittoria Bill Clinton, è sempre in televisione, è sposato con una guru repubblicana, da mesi dice ai democratici: occhio, qui perdiamo) hanno pubblicato ieri un documento importante in cui spiegano, sulla base di focus group in Ohio e Pennsylvania, che gli elettori non sono affatto convinti che l’economia si stia muovendo nella giusta direzione ed è un errore cercare di dire loro altrimenti. In altre parole, il documento di Democray Corps dice a Obama: “Ridurre al minimo la discussione sulla ripresa e sui posti di lavoro creati, ma insistere sull’empatia per le sfide che la gente deve affrontare”. Cioè l’economia non può migliorare nel breve termine, certamente non prima di novembre, ed è inutile perdere tempo nel cercare i colpevoli – gli europei stanno in prima fila, guidati dalla Merkel, nel “blame game” – piuttosto è meglio puntare sul fatto che il presidente capisce le difficoltà, starà vicino agli americani e li accompagnerà verso un futuro migliore (non si sa come, non si sa quando). E gli americani cui si fa riferimento, target decisivo per la vittoria a novembre, sono la middle class, la più impoverita, la più infastidita dalla retorica, la più volubile.

    Il consiglio non è rassicurante, fa capire che la ripresa non è vicina, è inutile sperarci. Se alla rassegnazione strategica si aggiungono vent’anni perduti, gli articoli (come quello di due giorni fa sul Wall Street Journal) sui nonni che ci stanno mangiando via tutta la nostra ricchezza spendendo i nostri risparmi, le copertine sulle mamme morte (in due settimane New York Magazine e Time, come ha anche raccontato sul Foglio Nicoletta Tiliacos) e i sospiri di sollievo, ché gli anziani costano e consumano e non producono, l’allungamento della vita media è il più grande flagello economico del secolo – ecco se si aggiungono tutti questi elementi, pare che il sogno americano non se la passi tanto bene. Stessero bene i leader politici, almeno. Ma pure loro sono poco in forma.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi