Ragazzi (obamiani) interrotti

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La crisi si mangia i leader, uno alla volta, con la pazienza dei saggi e la voracità dei folli. Buona parte della leadership europea è stata fagocitata da questi anni di collasso imminente (e non sarà la Grecia a determinare il break up dell’euro, se è vero quel che dice Tsipras e se è vero che il suo partito Syriza ha chance di governo), ma l’America si considerava immune. Invece.

    La crisi si mangia i leader, uno alla volta, con la pazienza dei saggi e la voracità dei folli. Buona parte della leadership europea è stata fagocitata da questi anni di collasso imminente (e non sarà la Grecia a determinare il break up dell’euro, se è vero quel che dice Tsipras e se è vero che il suo partito Syriza ha chance di governo), ma l’America si considerava immune. Invece. Non è una questione di sondaggi, ma di visione. Se Romney guadagna in concretezza di messaggio è perché la sua candidatura appare meno scombiccherata di quanto sembrasse durante le primarie repubblicane, ma soprattutto è perché Obama è un presidente interrotto. Non soltanto ha perso il tocco magico – e quello si sa, l’ha perso quasi subito, già nel 2010 non c’era più – ma non ha più una visione. Leggete Ryan Lizza sul New Yorker di questa settimana. L’articolo è bellissimo, Lizza racconta la politica americana come pochi altri, la interpreta come pochi altri (è lui che ha imposto nel dibattito la dottrina del “leading from behind”, è sempre lui che ci ha spiegato attraverso i “memo” obamiani come il presidente prende le decisioni, le note a margine dei documenti, il “multiple choice” che i collaboratori di Obama infilano alla fine dei paper più ostici per offrire alternative semplici, tutto quanto, anche come si sono abbassate le aspettative, quando il cambiamento è uscito dalla testa del presidente e non è mai più rientrato).

    Ma quel che colpisce nel tentativo degli uomini del presidente di non apparire troppo presuntuosi (parlare di un’agenda per il secondo mandato è presuntuoso, ma anche inevitabile se non vuoi solo promettere) ma di dare una definizione un po’ chiara agli obiettivi di un secondo mandato è questa frase: “Whatever goal Obama decides on, his opportunities for effecting change are slight”. Cioè: non cambia niente un’altra volta? Lizza la mette sulle difficoltà oggettive, ma non appare rassicurante: “Term limits are cruel to Presidents. If he wins, Obama will have less than eighteen months to pass a second wave of his domestic agenda, which has been stalled since late 2010 and has no chance of moving this year. His best opportunity for a breakthrough on energy policy, immigration, or tax reform would come in 2013. By the middle of 2014, congressional elections will force another hiatus in Washington policymaking”.

    Riassumendo le ultime settimane di campagna elettorale (sulla base di quel che abbiamo letto e che è stato raccontato dai giornali americani): il messaggio “Hope” è stato sostituito dal messaggio “Fear”; quel che i dati economici non daranno lo daranno le questioni demografiche (cioè quelli che hanno votato Obama nel 2008 sono diventati numericamente di più e se rivotano anche quest’anno a novembre garantiscono un bel margine); i democratici stessi (come si racconta nell’ultima parte di questo articolo, quelli “tendenza clintoniana”, i più bizzosi, dicono a Obama: non cercare di convincere gli americani che le cose miglioreranno, non ci credono, di’ loro che gli sei molto vicino; il secondo mandato sarà come il primo, forse ancora più pragmatico (cioè poco emozionante). Può essere vincente un candidato-presidente con queste premesse?