Il G20 visto dai padroni di casa

Maurizio Stefanini

“In qualunque caso, credo che il nostro contributo al G20 debba consistere nel creare le condizioni adeguate perché il destino o il futuro economico d’Europa non dipendano dal solo caso. Ciò implica in primo luogo progredire nella costruzione dell’Unione Europea”.  Non si tratta solo di correggere la situazione odierna, ma anche di assicurare, in futuro, meccanismi bancari, monetari, di governo e di bilancio, che impediscano il verificarsi di crisi come questa”. Non sono Angela Merkel, Francois Hollande o Mario Monti a parlare così all’apertura del G20 di Los Cabos, ma il padrone di casa Felipe de Jesús Calderón Hinojosa.

    “In qualunque caso, credo che il nostro contributo al G20 debba consistere nel creare le condizioni adeguate perché il destino o il futuro economico d’Europa non dipendano dal solo caso. Ciò implica in primo luogo progredire nella costruzione dell’Unione Europea”.  “L’Europa sta discutendo l’introduzione di strumenti che rendano l’Unione più robusta, più forte e capace di progredire. Non si tratta solo di correggere la situazione odierna, ma anche di assicurare, in futuro, meccanismi bancari, monetari, di governo e di bilancio, che impediscano il verificarsi di crisi come questa”. Non sono Angela Merkel, Francois Hollande o Mario Monti a parlare così all’apertura del G20 di Los Cabos, ma il padrone di casa Felipe de Jesús Calderón Hinojosa. E sì: tanto l’evoluzione della situazione in zona euro ha calamitato l’attenzione che non si è fatto caso che il vertice si sta svolgendo in Messico. Dal punto di vista dei messicani la circostanza è importante: con le elezioni generali in agenda per il primo luglio e il sistema costituzionale ereditato dalla Rivoluzione messicana che impone il divieto assoluto di rielezione, questo è in pratica il grande addio di Calderón alla scena della politica dopo sei anni.

    Calderón appartiene al Partito d’Azione Nazionale (Pan): il partito di centrodestra che nel 2000 riuscì a realizzare una storica alternanza al governo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri) che era al potere dal 1929, e che era espressione di un’élite in realtà governante fin dai tempi della Rivoluzione messicana. Ma dopo dodici anni e due mandati, i sondaggi indicano che la candidata del Pan Josefina Vásquez Mota, ex-capogruppo del Pan alla Camera e ex-ministro dell’Istruzione, arranca ormai desolatamente terza nei sondaggi, con le ultime percentuali tra il 20 e il 23. Insomma, anche la parentesi del Pan sembra alla fine, e nei sondaggi è invece in testa sin dall’inizio della campagna il candidato del Pri Enrique Peña Nieto, ex-governatore dello Stato del Messico (che è una cosa diversa sia dal Distretto Federale di Città del Messico che dagli Stati Uniti Messicani nel loro complesso). Un ritorno, quello del Pri, clamorosamente benedetto perfino dall’ex presidente Vicente Fox Quesada, l’uomo che nel 2000 portò il Pan alla storica vittoria. Con l’affondare di Josefina Vásquez Mota negli ultimi mesi è di fatto risalito alla ribalta il candidato della sinistra del Partito della Rivoluzione Democratica (Prd) Andrés Manuel López Obrador: ex-capo di governo del Distretto Federale, e candidato sconfitto alle ultime presidenziali da Calderón, in un clima di durissime accuse di brogli. Alcuni scandali di esponenti del Pri e un movimento di studenti “indignati” a suo favore hanno consentito a López Obrador di accorciare le distanze, al punto da indurre appunto Fox a chiamare al “voto utile”: meglio un ritorno del Pri che l’esponente di una sinistra populista e ambigua che possa rischiare di rovinare il boom economico messicano. Carlos Slim Helú, l’uomo più ricco del mondo che in prossimità del voto investe nella Ypf appena rinazionalizzata dal governo Kirchner oltre che in Telekom Austria, potrebbe appunto esprimere un timore del genere. Dopo dodici anni di tentativi del Pan di farlo ridimensionare dall’antitrust, Slim sarebbe lieto di un ritorno al potere dei suoi vecchi amici del Pri. Rendersi amico un altro governo di sinistra latinoamericano equivarrebbe per lui a un’assicurazione nel caso fosse Lòpez Obraor a spuntarla.

    Nel momento in cui Calderón esibisce al mondo l’ideale bilancio dei suoi sei anni e dei dodici del suo partito, ci si interroga su questo boom. Stando ai media mondiali, che in genere tendono a ripetere il punto di vista di quelli degli Stati Uniti, il Messico di Calderón è stato soprattutto il paese di una tremenda ondata di violenza che si scatenò quando, appena insediato, il nuovo Presidente decise di mandare le forze armate contro i narcos, al posto di una polizia che sembrava intimidita e spesso anche collusa. Una vera e propria “Guerra Messicana della Droga”, come è stata ribattezzata, che in sei anni ha fatto almeno 55.000 morti, anche se alcune stime arrivano addirittura a 71.000. I media latinoamericani e ispanici, e con loro gli analisti economici, tendono invece a ricordare come questa violenza sia circoscritta ad alcune aree del paese: essenzialmente il nord e gli stati di Guerrero e Michoacán, con il 70 per cento dei delitti collegati alla mafia che avvengono nel 3 per cento delle località. E che la stessa violenza non impedisce all’economia di andare a gonfie vele. Il relativo ministro, Bruno Ferrari García de Alba, ha detto addirittura che “si trova nel suo momento migliore da molti anni”, Moody’s ha appena stimato il livello di crescita del Pil messicano al 4,9 per cento, Kpmg afferma che il Messico sta andando meglio dei Brics, lo stesso ideatore del concetto di Bric Jim O’Neill dice che sarebbe ora che il Messico ne entrasse a far parte, e varie e importanti multinazionali in questi anni hanno delocalizzato in Messico. 

    Eppure, non mancano osservatori che rovescino completamente il giudizio corrente su Calderón. Joaquín Villalobos, il capo militare della guerriglia salvadoregna degli anni Ottanta che poi a Oxford è divenuto un noto politologo e esperto di risoluzione dei conflitti di impostazione liberal-democratica, sostiene ad esempio che Calderón nella guerra contro i narcos ha ottenuto “tre successi strategici: ha indebolito le strutture criminali come mai era accaduto nella storia del Paese; ha ridotto il livello di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle strutture dello Stato; ha rafforzato le istituzioni grazie soprattutto alla riqualificazione e alla professionalizzazione della polizia federale”. Secondo Villalobos, anche la violenza sarebbe ormai in discesa anche se, visti i picchi raggiunti, è ancora impressionante. Al contrario, dati della Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) dell’Onu dimostrano che la crescita del Messico sotto Calderón sarebbe stata la minore dai tempi della presidenza di Miguel de la Madrid (1982-88). Un 7,8 per cento nei primi 5 anni più un 4 nel 2012 che rappresenta un 11,8 complessivo, pari all’1,96 per anno: il penultimo della regione dopo l’El Salvador.  Nello stesso periodo, per il boom della regione, il Pil del Messico sarebbe passato dal 29,94 al 20,72 per cento di quello latino-americano.

    Forse in entrambi i casi è un problema di bicchieri mezzi pieni o mezzi vuoti. C’è però un terzo aspetto nel quale il bilancio di Calderón appare senza ombre, ed è appunto quello internazionale. Premiato a Davos con il Premio Statista Globale inventato per Lula, Calderón ha ottenuto nel 2008 l’invito del Messico a partecipare da subito al G20: un forum da cui invece l’ex madrepatria Spagna è stata esclusa. Insomma, è giusto che il suo addio avvenga come anfitrione di un evento mondiale. Anche se la crisi di cui questo evento deve discutere ricorda allo stesso tempo i tempi travagliati in cui gli è toccato di governare.