Il Pd e la guerra delle ombre

Claudio Cerasa

Sì, è vero: non si sa ancora quando si voterà, non si sa ancora come si voterà, non si sa ancora per cosa si voterà, non si sa ancora con chi si voterà, non si sa ancora dove si voterà e non si sa ancora soprattutto per chi diavolo si voterà; ma nell’attesa di conoscere nei prossimi mesi, a proposito del dossier “primarie del centrosinistra”, qualche dettaglio in più rispetto alle parole “sono belle”, “si faranno”, “saranno aperte” e “sarà una grande festa”, si può dire che nel Partito democratico ci sono almeno due formidabili contadini, o forse due grandi giardinieri, che da qualche tempo a questa parte hanno cominciato, come dire, a farsi più o meno un mazzo così.

Leggi E’ possibile un giudizio equanime su Bersani? di Giuliano Ferrara

    Sì, è vero: non si sa ancora quando si voterà, non si sa ancora come si voterà, non si sa ancora per cosa si voterà, non si sa ancora con chi si voterà, non si sa ancora dove si voterà e non si sa ancora soprattutto per chi diavolo si voterà; ma nell’attesa di conoscere nei prossimi mesi, a proposito del dossier “primarie del centrosinistra”, qualche dettaglio in più rispetto alle parole “sono belle”, “si faranno”, “saranno aperte” e “sarà una grande festa”, si può dire che nel Partito democratico ci sono almeno due formidabili contadini, o forse due grandi giardinieri, che da qualche tempo a questa parte hanno cominciato, come dire, a farsi più o meno un mazzo così. Chissà: forse i loro nomi a qualcuno diranno tutto e forse a qualcun altro non diranno niente, ma di sicuro chiunque voglia studiare i percorsi di quelli che in questo momento sono gli unici due veri candidati forti alle primarie del centrosinistra non potrà non prendere un minimo di dimestichezza con le storie parallele di due personaggi chiave nella sfida tra Matteo Renzi e Pier Luigi Bersani. I loro nomi, forse l’avrete capito, sono quelli di Maurizio Migliavacca e di Giorgio Gori, e, seppur con sfumature molto diverse, entrambi, per ragioni differenti, sono diventati i volti simbolo della gestione di una creatura misteriosa che nel mondo della politica ha ormai da secoli una funzione sacra, quasi mitologica: la macchina organizzativa.

    Solitamente, si sa, gli “uomini macchina”, nei partiti così come nelle aziende e spesso anche nei giornali, hanno il compito di tenere unita la squadra, di motivare i colleghi, di risolvere i problemi, di fare gruppo, di svolgere il lavoro sporco, di tenere i contatti con il mondo esterno e più semplicemente, a volte, di evitare eccessive rotture di maroni al proprio capo o al proprio segretario o al proprio direttore di turno. Nel mondo della politica, però, l’uomo macchina (o, come sarebbe più opportuno dire in questi casi, con tono grave e insieme ossequioso: il “responsabile organizzazione”) è da sempre qualcosa in più di un generico e indefinito uomo ombra; e in qualche modo, oggi più che mai, chi ha in mano le chiavi della struttura organizzativa di un partito è la persona che più di ogni altra svolge all’interno di quel partito la stessa funzione che all’interno di un violino, per esempio, svolge quel piccolo listello cilindrico che trasmette le vibrazioni sul fondo della cassa armonica, e che trasforma in musica la pressione impressa dall’archetto sulle corde dello strumento: l’“anima”, appunto. Senza voler esagerare con le metafore, si può dire però con una certa sicurezza che Maurizio Migliavacca (61 anni) e Giorgio Gori (52 anni) sono le persone giuste, o forse in questo caso le “anime” giuste, per decifrare al meglio il senso delle differenti vibrazioni impresse da Pier Luigi Bersani e da Matteo Renzi sulla cassa armonica del Pd.

    Il primo, Giorgio Gori, front runner della campagna elettorale di Renzi e catapultato con il suo gessato e il suo zainetto Eastpak nella macchina da guerra messa in campo dal sindaco di Firenze, simboleggia, forse meglio di ogni Big Bang e di ogni Leopolda, il modello di partito immaginato dal Rottamatore per sfidare il segretario alle primarie del centrosinistra: un partito leggero, ibrido, spigliato, disinvolto, molto pop, molto giovane e naturalmente molto americano che non crede nella rigida solidità dei vecchi modelli novecenteschi e che piuttosto sogna di fare entrare il Pd in una assai evocata “modernità”. Il secondo, invece, ovvero Maurizio Migliavacca, sommo sacerdote della macchina organizzativa del partito e rappresentante supremo di ciò che resta nel Pd del vecchio apparatnik comunista, è invece il riflesso dello spirito politico del partito bersaniano: un partito tradizionale, robusto, resistente, solido, a tratti molto pesante, che non ama anteporre un nome a un progetto, che considera insopportabilmente volatili i partiti troppo leggeri e che sogna di potersi affermare sulla scena come il simbolo confortante di un affidabile usato garantito.

    Tra i due, naturalmente, non c’è dubbio che l’uomo macchina meno celebre e meno popolare sia l’anonimo e quasi sconosciuto Maurizio Migliavacca. Ma nonostante l’anonimato (o forse proprio per questo) Migliavacca – che svolge l’indecifrabile ruolo di “coordinatore della segreteria del partito” (che tradotto, come ci spiega con un sorriso il tesoriere del Pd Antonio Misiani, “significa responsabile dell’Urca: Ufficio risoluzione cazzate altrui”) – insieme con Vasco Errani (governatore dell’Emilia Romagna) è uno dei pochi dirigenti del Pd che ha accesso al ristrettissimo cerchio magico bersaniano. Con il segretario, Migliavacca ha infatti una frequentazione di lunga data (viene da Fiorenzuola D’Arda, un comune in provincia di Piacenza, la stessa provincia da cui proviene il segretario) e proprio come Bersani il responsabile “Urca” del Pd (che poi di fatto è l’uomo che nel partito ha il compito di compilare le liste elettorali, di risolvere i problemi nei territori e di mantenere e coltivare i rapporti con i segretari cittadini, con quelli provinciali, con quelli regionali e a volte anche con i semplici militanti) si è fatto le ossa percorrendo tutta la classica filiera che deve seguire un robusto, solido e tradizionale dirigente di un partito: prima la Fgci, poi la segreteria provinciale, quindi la presidenza della provincia di Piacenza, l’elezione nel 1996 a deputato (nel collegio di Fiorenzuola), l’incarico da responsabile dell’organizzazione del partito nella segreteria dei Ds guidati da Piero Fassino, la nomina nel comitato dei 45 democratici che nel 2007 scrisse il primo “patto del Pd”, infine il nuovo incarico nel Partito democratico come responsabile delle campagne elettorali del partito e quindi – subentrato in questo ruolo all’ex braccio destro di Bersani, Filippo Penati – coordinatore della segreteria nazionale del Pd. Pur avendo apparentemente solo un ruolo da “tecnico della burocrazia”, Migliavacca è il dirigente che più degli altri, in questi anni, ha mosso da dietro le quinte i fili del consenso bersaniano, sforzandosi, per quanto possibile, di rimarginare tutte le piccole e grandi ferite presenti nell’ex galassia diessina, pidiessina e postcomunista (e non solo con quella già ben rappresentata all’interno del Pd ma anche con tutte le schegge impazzite della vecchia nebulosa comunista – da Diliberto a Ferrero, per capirci – che ogni tanto si riaffacciano dalle parti del Pd per cercare un accordo, proporre un’intesa, studiare un apparentamento e mettere a fuoco una futura alleanza politica).

    E così, se oggi nel Pd attorno alla corsa di Pier Luigi Bersani si registra un clima di consenso tale da aver unito nella lotta contro la Rottamazione anche personalità politiche che culturalmente sarebbero più vicine a Renzi che a Bersani (pensiamo per esempio al mondo degli ex Popolari e al mondo dei veltroniani, che nonostante l’evidente feeling ideologico con il Rottamatore al momento non hanno dato alcun segnale di incoraggiamento alla candidatura di Renzi, e anzi, tranne alcuni casi, si sono ben guardati dall’esultare per la convocazione delle primarie) si può dire che una buona parte del merito va attribuita a quello che oggi è il vero braccio operativo del segretario del Pd.

    Nella corsa per le primarie del centrosinistra, poi, il ruolo di Migliavacca sarà destinato ad avere un peso ancora più di rilievo se verrà confermata quella figura geometrica a quattro punte (formata, oltre che dal segretario, da Migliavacca, appunto, Vasco Errani, e il responsabile comunicazione del Pd, Stefano Di Traglia) con cui Bersani organizzerà la sua controffensiva per resistere al tentativo di opa renziana. Migliavacca, infatti, almeno così sembra, è destinato a ricoprire nella campagna di Bersani lo stesso ruolo operativo – da “coordinatore della mozione” – che nel 2007 l’allora aspirante segretario affidò all’ex presidente della provincia Filippo Penati. A differenza del 2007, però, se l’indiscrezione dovesse essere confermata, nella corsa alle primarie del centrosinistra si verrebbe a creare lo stesso problema che si ritrovò ad affrontare il Pd durante la sfortunata campagna elettorale per le primarie palermitane: quando il candidato renziano (Davide Faraone) scatenò l’inferno accusando il Pd di non essere neutrale di fronte ai vari candidati del partito e quando il Pd (e in particolare il suo tesoriere) dovettero arrivare allo scontro con il candidato renziano per dimostrare che il partito non aveva discriminato e tantomeno favorito alcun tipo di candidato.

    Nel Pd, inoltre, chi lo ama vede in Maurizio Migliavacca – e nel suo sguardo severo e consumato da vecchio dirigente che sembra essere costantemente uscito da una lunga e costruttiva riunione del Politburo di Breznev – il simbolo di un motore perfetto che riesce a garantire alla macchina del partito una più che affidabile autonomia senza avere neppure bisogno di misurare la giustezza delle proprie decisioni osservando gli umori dei trend tweet. Chi non lo ama, invece, e chi nel Pd osserva con spirito critico i simboli del tradizionale partito pesante, vede al contrario in Migliavacca il custode ultimo di un’insostenibile immagine conservativa del mondo del Pd, e il simbolo più evidente di un paradosso politico ben analizzato alcuni anni fa da Paolo Bellucci, Marco Maraffi e Paolo Segatti nel libro “Pci, Pds e Ds: la trasformazione dell’identità politica della sinistra di governo”.
    “Per molto tempo – scrivono gli autori – un apparato esteso di funzionari è stato un efficiente strumento per conservare e mobilitare il consenso di un partito. Tuttavia ormai il compito principale di quell’apparato rischia di essere quello di conservare e mobilitare un consenso già catturato, quindi di curare il proprio orto elettorale più che mettere a profitto aree politicamente distanti. Inoltre, nel loro lavoro di onesti ed efficienti giardinieri, i funzionari mettevano un grande impegno di tipo pedagogico verso i propri elettori e militanti di base, tanto più grande quanto più radicata era l’idea che essi fossero investiti di compiti più simili a quello di un intellettuale sacerdote di una chiesa che a quello di un sergente di truppa. E’ quindi inevitabile che un’organizzazione caratterizzata da un apparato forte sviluppi un’immagine conservativa del proprio ambiente operativo, ed è allo stesso tempo altamente probabile che una siffatta organizzazione tenda a seguire routine decisionali che mettono al primo posto la sopravvivenza del gruppo più che la necessità di arrivare in modo rapido ed efficace a una decisione. Insomma – concludono gli autori – il vero problema che oggi hanno i grandi partiti è che a un apparato forte di solito corrisponde un’immagine conservativa del partito e del suo ambiente”.

    Dall’altra parte della barricata – e con una discordanza rispetto al mondo bersaniano verso la vecchia ortodossia della forma partito non troppo diversa dalla lieve disarmonia che esiste nel mondo dell’islam tra sunniti e sciiti in merito alla discendenza del profeta Maometto – si trova invece quello che è diventato il vero ambasciatore del sindaco rottamatore: Giorgio Gori. L’ex direttore della Magnolia – in questi mesi accusato dagli anti renziani di essere, in quanto ex dipendente di Mediaset, la dimostrazione vivente del difficile inquadramento di Renzi nell’universo della sinistra – è entrato a far parte dello staff renziano qualche settimana prima del Big Bang organizzato lo scorso ottobre a Firenze dal sindaco Rottamatore: e da quel giorno in poi (fu Luca Sofri, direttore del Post, a presentare l’ex direttore di Canale 5 al sindaco di Firenze) Gori ha cominciato ad appassionarsi alla causa renziana (fu addirittura dal suo Mac che vennero scritte le cento proposte della Leopolda) e non ha smesso più. In questi mesi, Gori ha girato l’Italia per arricchire il “database” (parola a cui Gori è molto affezionato) della macchina renziana, per aggiornare la lista dei contatti della struttura organizzativa del sindaco di Firenze, per tentare di rimarginare alcune ferite aperte nel mondo della rottamazione (se Renzi e Civati torneranno a correre insieme il merito sarà anche di Gori) e per provare a capire se anche lontano dal capoluogo toscano il sogno renziano ha o no una possibile base elettorale.

    Il risultato di questi sette mesi – sette mesi passati a seguire da vicino alcune campagne elettorali come quella di Davide Faraone in Sicilia e Salvatore Scalzo a Catanzaro e sette mesi passati a seguire Renzi in quasi tutte le città in cui il sindaco ha presentato il suo ultimo libro (Novara, Alessandria, Asti, Milano, Lodi, Pesaro, Bari, Empoli, Pisa, Torino, Arezzo, Reggio Emilia, Lecco, Bergamo, Napoli, Salerno e Roma, e poi Nichelino in provincia di Torino, Rignano in provincia di Firenze e Umbertide in provincia di Perugia) – è un progetto preciso che Gori ha elaborato insieme con il ristretto inner circle renziano. Un inner circle, come forse è noto, formato da Marco Carrai (imprenditore fiorentino, gran consigliere di Renzi e colomba del gruppo), Giuliano da Empoli (scrittore, capo del think tank renziano e ideologo delrenzismo), Antonio Campo Dall’Orto (ex numero uno di Mtv, spin doctor del sindaco e anima pop dell’inner circle), Gigi De Siervo (capo della direzione commerciale della Rai, uomo di buone relazioni della macchina renziana e luogotenente romano del sindaco di Firenze) e dal più defilato Matteo Richetti (presidente del Consiglio regionale emiliano e animatore insieme con Renzi dell’ultima Leopolda) e che con Gori lavora da tempo per offrire alla squadra del sindaco un’idea precisa su come arrivare alle primarie del prossimo autunno con po’ di vento in poppa. Il progetto – di cui fa parte anche l’appuntamento di venerdì e sabato con tutti gli amministratori locali convocati a Firenze dal sindaco – prevede la raccolta per le primarie di un numero di voti vicino a quota 1,7 milioni; e questi voti Renzi (o chi per lui, se poi davvero il sindaco di Firenze dovesse cedere il passo a un candidato più forte) dovrebbe andare a raccoglierli sia attraverso la formazione di 700 comitati elettorali in 700 comuni con più di 15 mila abitanti sia attraverso una campagna elettorale a tappeto organizzata da metà luglio fino a metà ottobre in cento giorni in cento precise province italiane.

    In questo senso, e anche studiando lo stile della campagna organizzata dalla squadra renziana, si può dire che la metafora dei due contadini calza decisamente a pennello per le storie di Giorgio Gori e Maurizio Migliavacca. Come ricorda un dirigente del partito vicino a Veltroni, che con l’ex segretario ha seguito da vicino le elezioni del 2008, nel mondo della politica esistono due tecniche diverse per racimolare voti durante una campagna elettorale: da un lato esiste il metodo del vecchio contadino, convinto che il modo migliore per raccogliere buoni frutti dal proprio orto sia quello di coltivare sempre lo stesso spicchio di terreno con una rigidissima procedura standardizzata finalizzata a non perdere per strada alcun tipo di ortaggio e ad avere alla fine più o meno sempre la stessa raccolta all’interno del paniere; dall’altro lato esiste invece il metodo del contadino più spericolato, quello cioè convinto che sia importante impegnarsi ogni giorno per trovare delle nuove tecniche e delle nuove soluzioni e dei nuovi concimi utili a stimolare il terreno e provare – anche a costo di prendersi qualche rischio – ad avere un paniere ripieno non sempre con la stessa frutta e con gli stessi ortaggi ma anche con qualcosa di nuovo.

    La traduzione politica del ragionamento del contadino numero due è la cifra della campagna elettorale ideata da Gori e dall’inner circle renziano: puntare sui famosi “newcomers”, raccogliere gli elettori mobili e cercare di intercettare sul territorio i voti di tutti coloro che generalmente finiscono con una certa difficoltà nel tradizionale paniere elettorale del Pd.
    Abbiamo detto che si cercano voti, certo, ma, naturalmente, al centro delle due campagne parallele degli sciiti e dei sunniti democratici ci sarà anche la raccolta di qualcosa di più concreto di un semplice voto: i quattrini. Nelle prossime settimane, infatti, la segreteria del Pd dovrebbe definire, oltre alla data delle primarie, anche le regole di ingaggio che dovranno adottare i candidati nella raccolta dei finanziamenti per le rispettive campagne elettorali. Su questo punto, al momento si sa soltanto che per evitare pasticci come quelli palermitani (ricorderete: durante le primarie per la scelta del sindaco di Palermo il tesoriere del Pd venne accusato dai renziani di non aver suddiviso in egual misura i finanziamenti del partito tra i vari candidati del Pd) Bersani darà presto vita a un suo comitato elettorale (che potrebbe essere appunto guidato da Migliavacca) con il quale il segretario raccoglierà autonomamente i fondi per la sua campagna per le primarie. Nell’attesa però che la segreteria del Pd stabilisca le regole (si dice che potrebbero essere proibiti gli spot televisivi e limitati al massimo, se non del tutto aboliti, anche i manifesti elettorali dei vari candidati) a ben guardare anche la raccolta fondi della squadra di Renzi avrà un’anima diversa rispetto a quella più tradizionale scelta dagli uomini chiave della macchina organizzativa del segretario del Pd. E mentre Bersani punterà molto sui vecchi canali di raccolta (dalle feste dell’Unità ai grandi finanziatori) il gruppo renziano (e su questo dossier c’è sempre lo zampino di Gori) si concentrerà molto sulla raccolta fondi attraverso il così detto crowdfunding: ovvero quella particolare tecnica di finanziamento collettivo, sul modello naturalmente americano, che si basa sullo stesso sistema di microfinanziamenti che nel 2008 ha consentito a Obama di raccogliere circa 500 milioni di dollari per la sua campagna elettorale.

    Funzionerà? Chi lo sa. Di sicuro però già oggi si può dire che nel Pd ci sono due contadini che con tecniche diverse si sono messi all’opera per preparare il terreno alla sfida tra i due veri candidati leader del centrosinistra: e se in uno dei due orticelli del Partito democratico dovessero spuntare all’improvviso dei frutti particolarmente rigogliosi il merito oltre che dei due sfidanti sarà senza dubbio anche di quelle due anime del Pd che da qualche mese a questa parte, oltre che dare un’occhiata al loro orticello, stanno cercando in tutti i modi di trovare il ritmo giusto per trasformare finalmente in buona musica la pressione impressa dagli archetti di Renzi e Bersani sulle corde del Pd.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.