Bando ai tabù

E' giusto che l'Italia discuta e negozi in Europa.

Stefano Cingolani

Quanto ci costa uscire dall’euro? Angelo Panebianco ieri sul Corriere della Sera ha posto la questione senza giri di parole. Per il politologo i costi sono eccessivi e soprattutto politici: cadendo il vincolo esterno, “l’Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo”. Anche il cemento nazionale, quello che ha tenuto insieme nord e sud, s’allenterebbe fino alla frattura finale. Senza contare il pericolo per la stessa democrazia.

    Quanto ci costa uscire dall’euro? Angelo Panebianco ieri sul Corriere della Sera ha posto la questione senza giri di parole. Per il politologo i costi sono eccessivi e soprattutto politici: cadendo il vincolo esterno, “l’Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo”. Anche il cemento nazionale, quello che ha tenuto insieme nord e sud, s’allenterebbe fino alla frattura finale. Senza contare il pericolo per la stessa democrazia: “Basta leggere le cronache quotidiane: classe politica delegittimata, disaffezione di porzioni ampie dell’opinione pubblica nei confronti del Parlamento e di altri fondamentali istituti democratici, rischi gravi di ingovernabilità una volta che si sia chiusa la parentesi del governo detto tecnico”. C’è un problema di orizzonte futuro: “Oggi, il rapporto con un’America sempre più lontana non funziona più come vincolo, non può più proteggerci da noi stessi. E’ rimasta solo l’Europa”. Si potrebbe aggiungere che senza un’Europa unita diventeremmo irrilevanti di fronte alla Cina, alla Russia, all’India, senza parlare delle due Americhe. In un mondo in cui lo scontro è tra grandi aree continentali o superstati, cosa contano piccoli soggetti nazionali?

    Anche i costi economici sarebbero terribili. La lira di fatto è finita nel settembre 1992 con il collasso del sistema monetario europeo. Poi è stata svalutata. In tre mesi perse allora il 40 per cento rispetto al marco tedesco che balzò da 750 a 1.300 lire. Nel 1994, un altro taglio del 15 per cento. Siamo entrati nell’euro a 1.936,27 lire, valore stabilito il 31 dicembre 1998, un cambio non favorevole, conseguenza di una moneta debolissima. Se tornassimo indietro dovremmo svalutare almeno come facemmo negli anni 90. Basterebbero tremila lire per un euro? Che fine farebbe il nostro potere d’acquisto? E i risparmi? Quanto varrebbero Telecom, Eni, Enel, Mediaset? Potrebbero essere comprate con pochi spiccioli. Certo, bisogna calcolare il beneficio per l’export anche se non immediato, perché per alcuni mesi si dovrà chiudere le frontiere. Ma in ogni caso l’industria esportatrice contribuisce per un quarto al prodotto lordo. Dunque il vantaggio sarebbe parziale a fronte di una distruzione della ricchezza monetaria interna che oggi è ancora pari a tre volte e mezzo il pil.
    Meglio un trauma subito che una lenta agonia, dicono autorevoli economisti come Paolo Savona e Antonio Martino. Sempre che lo choc non diventi letale. Fanno bene a porre la questione, anche perché entrambi, sia pur di scuola diversa, sollevarono già dieci anni fa il problema di una costruzione monetaria incompleta, senza un bilancio comune e con una Banca centrale priva di una parte importante della propria funzione di ultimo garante (oggi lo è per le banche, per i governi solo in via indiretta e contro il parere del suo azionista di maggioranza relativa, la Bundesbank).
    La crisi dell’euro è gravissima. E il modo in cui è stata finora gestita ha oggettivamente posto all’ordine del giorno la sua sopravvivenza. Lo hanno detto al G20 di Los Cabos un po’ tutti: americani, cinesi, persino i messicani che vennero salvati nel 1994 dagli Stati Uniti i quali in quell’occasione fecero da prestatori di ultima istanza.

    Il voto greco ha allontanato il panico, ma non ha risolto i problemi. Dunque l’Italia deve discutere e negoziare. Del resto, non è la sola. Il Parlamento tedesco non ha ancora approvato il Fiscal compact. I socialdemocratici chiedono misure per la crescita, visto che la crisi sta cominciando a colpire la stessa Germania e non hanno intenzione di regalare i loro voti alla Merkel. Per la vecchia Spd è anche una questione di orgoglio, la bandiera del socialismo non batte solo in Francia.
    L’Italia ha molti punti di forza da far valere: la sua potenza industriale (secondo paese manifatturiero in Europa) e la ricchezza con un patrimonio netto superiore a quello tedesco, ma anche un bilancio pubblico già vicino al pareggio. La trattativa, però, deve uscire da un orizzonte economicistico. Roma ha recuperato un ruolo strategico oggi che il Mediterraneo è diventato il centro di minacce alla sicurezza internazionale. Un aspetto che Panebianco sottovaluta. Altro che vincolo esterno. C’è una risorsa geopolitica da non sprecare. Gli americani lo sanno, anche per questo mostrano un occhio di riguardo e hanno montato i missili sui droni nelle basi italiane.

    Stare nell’Unione economica e monetaria non è solo una opzione ragionieristica, e tanto meno va impostata come un prendere o lasciare. Dalla crisi non si esce con i vecchi pregiudizi, bisogna essere onesti e far tesoro degli errori. Nessun paese può sopravvivere immolando per vent’anni tre, quattro punti di pil l’anno sull’altare di un falso idolo. Il debito pubblico va ridotto, è una tassa lasciata sulla testa dei nostri figli come sosteneva David Ricardo. Ma di quanto e con che ritmo? Dai tempi di Maastricht si sono diffuse analisi sempre più sofisticate. Se è vero che un debito superiore al 90 per cento del prodotto lordo abbassa la crescita di un punto, secondo le stime di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, che senso ha il feticcio del 60 per cento scelto arbitrariamente nel 1991, ben prima della grande crisi? Farne un dogma è del tutto irrazionale, del resto nessuno lo rispetta. Dunque, uscire dall’euro è catastrofico, ma la moneta unica può collassare se non si completa la sua costruzione in base alle esigenze che i tempi nuovi richiedono, badando ai legittimi interessi non per cieco patriottismo, come sostiene Panebianco, ma per dignità. La moneta non è solo un segno o un numerario. Scriveva Marc Bloch: “I fenomeni monetari, a un tempo barometri di movimenti profondi e cause di non meno formidabili conversioni delle masse, sono i più rivelatori, i più carichi di vita”. Meglio la passione del grande storico che il gelo mortale di tanti contabili.