Romanzo breve di un golpe estivo

Giugno 2012, attacco al Quirinale

Salvatore Merlo

“Qui si tenta di indebolire il Quirinale per creare una situazione di marasma al vertice delle istituzioni dalla quale deriverebbe inevitabilmente la caduta del governo Monti”. La sentenza è di Eugenio Scalfari e potrebbe essere l’epigrafe di un film nerissimo, un prodotto della fantasia più violenta di John Carpenter, “assalto al distretto 13” come “Giugno 2012 attacco al Quirinale”: una storia di ambiguità, complicità e complessità evidenti ma imprendibili.

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    Qui si tenta di indebolire il Quirinale per creare una situazione di marasma al vertice delle istituzioni dalla quale deriverebbe inevitabilmente la caduta del governo Monti”. La sentenza è di Eugenio Scalfari e potrebbe essere l’epigrafe di un film nerissimo, un prodotto della fantasia più violenta di John Carpenter, “assalto al distretto 13” come “Giugno 2012 attacco al Quirinale”: una storia di ambiguità, complicità e complessità evidenti ma imprendibili; il tentativo surrettizio e bestiale di far leggere la storia dell’Italia istituzionale come una storia di delinquenza, ma anche il progetto cupido di accelerare la consunzione della stagione tecnocratica, di conquistare a morsi il potere e di costringere Pier Luigi Bersani ad allearsi con il giustizialismo di Antonio Di Pietro sciogliendo nell’acido la sottile discriminante che ancora tiene insieme quel che resta del sistema istituzionale di un paese bombardato dalla speculazione internazionale e tragicamente sprovvisto di cultura politica: il presidente è al di sopra del disdoro che si è abbattuto sui partiti.

    “Il governo Monti è il governo del presidente”, dice Stefano Ceccanti, senatore del Pd molto legato a Napolitano. E’ il Quirinale il nemico di chiunque oggi tenti dall’esterno una forzatura, un’opa ostile, sul sistema liquefatto della politica italiana. “Il presidente è la colonna che regge tutta l’impalcatura istituzionale in questa disgraziata fase della nostra storia”, Napolitano – si sa – è il vero inventore dell’ABC, l’ispiratore della foto pubblicata su Twitter, quella dei tre leader di partito, di Alfano, Bersani e Casini con Monti; il tessitore di un’ipotesi grancoalizionista, il teorico di una soluzione alternativa alle possibili, pericolose (e grecizzanti) divisioni che potrebbero seguire alle incerte elezioni del 2013: un governo di salvezza nazionale che tenga insieme i due maggiori partiti d’Italia – o la parte più responsabile di questi – il Pd e il Pdl. Lo stesso paracadute di unità nazionale che, pur al secondo drammatico tentativo, alla fine è stato anche l’approdo del non meno clientelare e sfasciatissimo sistema politico di una Grecia in default tecnico: via le ali estreme dal governo, quelle forze politiche che a Roma si chiamerebbero Vendola, Di Pietro, Grillo, Storace, Diliberto, Maroni, Ferrero… Unità intorno a una legislatura riformista e dal carattere costituente. “Ci vuole una rifondazione della Repubblica e per farlo è ancora necessario un governo ‘tipo Monti’, un disegno di ricostruzione che, nelle sue linee essenziali, non è né di destra, né di sinistra, che non riguarda la democrazia, ma le precondizioni della democrazia”, ha scritto mesi fa Michele Salvati, editorialista del Corriere della Sera.

    Dunque “le ragioni per le quali il capo dello stato è diventato un obiettivo da abbattere sono chiare”, insiste Ceccanti. Ed è politica, saldata all’azione giudiziaria secondo uno schema ormai classico. Le intercettazioni appaiono per contagiare, per infettare Giorgio Napolitano; e come dice anche Enrico Letta, il vicepresidente del Partito democratico, “il comandante sul campo di queste operazioni irresponsabili, in Parlamento, è Di Pietro. Il guaio è che trova alleanze esterne in alcuni giornali e in altri centri di potere”, Casini le chiama “schegge di magistratura” e dice pure che “forse hanno un obiettivo intimidatorio”. E si riferisce, evidentemente, a quei sostituti procuratori che a Palermo hanno disposto le intercettazioni dell’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino, e poi, pare, persino del consigliere giuridico del Quirinale, quel Loris D’Ambrosio che secondo fonti palermitane ha permesso ai magistrati di registrare e trascrivere – così dicono e sarebbe gravissimo – persino la viva voce del presidente della Repubblica e del procuratore generale antimafia Piero Grasso. Chi ha organizzato questa manovra? Esistono davvero delle intercettazioni telefoniche del capo dello stato trascritte su un brogliaccio di polizia giudiziaria? Chi ne trae vantaggio?

    Ieri il pm Nino Di Matteo ha detto a Repubblica che “negli atti depositati” non c’è traccia di conversazioni del capo dello stato, “e questo significa che non sono minimamente rilevanti”. Quindi non sono state depositate, ma sono, sì, state ascoltate e trascritte alcune conversazioni del presidente della Repubblica. Saranno distrutte? “Applicheremo la legge in vigore. Quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti”, ha risposto il magistrato, con un linguaggio che alle orecchie degli interessati, dell’opinione pubblica più avvertita, e degli osservatori specializzati suona maledettamente allusivo ed elusivo; una lingua della non verità. E il pensiero corre indietro nel tempo, alle parole oggi terribili che Leoluca Orlando scagliò addosso a Giovanni Falcone da lui accusato, era il 1991, di tenere “chiusi nei cassetti” una serie di documenti riguardanti i legami tra la criminalità organizzata e la politica. “Non esistono forme negative che si fermano da una parte. Sono sempre espansive, per definizione. La verità è che non puoi pretendere di dominare una tromba d’aria”, dice con fatalismo Andrea Augello, senatore del Pdl, romano per contaminazione ma siciliano per nascita e per indole. Eppure non era mai accaduto prima, non era nemmeno immaginabile che qualcuno intercettasse la presidenza della Repubblica, e a niente serve appendersi al contenuto forse ambiguo, certamente parziale, e troppo allarmato (per non essere sospetto) della telefonata di Mancino al consigliere giuridico del Quirinale (“Napolitano ha fatto nient’altro che esercitare i suoi poteri e doveri”, dice sempre Scalfari), perché l’unico fatto certo sta da un’altra parte: ed è la macchinetta del fango che si è messa in moto contro Napolitano per colpire in lui la più salda delle difese di cui ancora Mario Monti dispone (disponeva?); ovvero l’integrità del presidente della Repubblica, nume tutelare del governo e della strana maggioranza che lo sostiene con crescente fatica. “Napolitano non è al di sopra della legge”, urla Di Pietro; “ma nemmeno al di sotto come vorresti tu”, gli ha risposto Pier Ferdinando Casini. Solo la storia, chissà, un giorno, potrà cercare una via d’uscita da quel labirinto delle verità italiane che, ormai lo sappiamo, è fatto di mafia e di antimafia, di sangue e collusione, ma anche di tante, troppe, patacche e ricatti politici, infinita materia sulla quale pesa sempre il dubbio che il Diritto sia stagionale come la frutta, e che le sentenze troppo risentano del vento ideologico, delle convenienze e degli umori di giudici ridotti, a volte, ad ancelle della politica, come fossero dirigenti Rai. Dalle intercettazioni disposte dai pm Ingroia e Di Matteo si è dissociato, di fatto, il procuratore della Repubblica di Palermo e forse non vuol dire niente, ma invece, forse, vuol dire tutto, perché secondo i mafiologi più garantisti d’Italia il pm Ingroia si è già fatto “cannibale”, come scrisse Giuseppe D’Avanzo in un suo famoso titolo (“I giudici cannibali”); cioè il procuratore prima accusa e poi assimila le spoglie, indossa i paramenti e infine si appropria del ruolo sociale dell’imputato, cioè del politico. Una candidatura? “Mai dire mai”, fu la risposta data a Giuseppe Cruciani, in diretta, su Radio 24 a marzo di quest’anno. Il magistrato mette a nudo e distrugge l’accusato ma poi gli mangia il cuore e trapassa in lui, lo sostituisce in Parlamento, se ha fortuna diventa ministro e ne riecheggia perfino le proposte. Il 30 ottobre del 2011 Antonio Ingroia partecipò, dal palco, a una manifestazione del Partito dei comunisti italiani di Oliviero Diliberto, e spiegò di sentirsi un “partigiano della Costituzione”, ovvero si è definito mosso da valori costituzionali che non lo rendono del tutto neutrale nei confronti di chi a parer suo quei valori li interpreta diversamente. Il Csm aprì un fascicolo e lo sottopose a procedimento disciplinare, è stata la seconda iniziativa disciplinare nei suoi confronti.

    E qui c’è un fatto interessante, che non può essere omesso, in entrambi i casi il vero motore dell’iniziativa del Csm – e questo lo sanno tutti, specialmente Ingroia – è stato il capo del Consiglio superiore della magistratura, ovvero quel Giorgio Napolitano che anche a Palermo, negli ambienti giudiziari, in alcuni corridoi della procura, non è esattamente percepito come un amico. In uno dei suoi ultimi interventi al plenum del Csm, il capo dello stato ha pronunciato queste parole: “Non desidero né rivolgere appelli, né moniti né richiami, ma cerco di porre dei problemi, uno di questi sono certamente le esternazioni da parte di alcuni togati esorbitanti i criteri di misura”. Ecco. Ogni manovra giudiziaria postula un’economia, una strategia, un modello culturale. In un suo articolo del 25 ottobre 2007 su Repubblica, D’Avanzo sintetizzò così la natura dell’iniziativa penale della scuola di Gian Carlo Caselli, di cui Ingroia è erede: “Il tentativo di rappresentare una coincidenza tra la gerarchia del potere ufficiale e la piramide del potere criminale… Un mondo di moltissimi burattini e di pochi burattinai artefici di una storia fatta essenzialmente di complotti, assassinii, trame, affari illeciti… Un monstrum che imponeva radicalismo interpretativo del fenomeno mafioso, forte intensità etico politica, una diffusa indignazione popolare, quasi l’assegnazione di una delega a sbarazzarsi del fondo fangoso della Prima Repubblica”. Per chi legge il mondo e la natura profonda delle relazioni sociali con queste lenti deformate è evidente che tutto sia possibile, il fine giustifica i mezzi, e allora ci si chiede anche se sia soltanto una coincidenza che la chiusura delle indagini di Palermo, con la contestuale pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, sia avvenuta adesso, proprio alla fine di giugno, cioè – guarda caso – nel momento più propizio per dare una spallata al periclitante Mario Monti. Se ne avvantaggia un partito trasversale, rappresentato in Parlamento, senza bandiera, eppure ben riconoscibile a un occhio attento. Lo sanno anche nel Pdl: “Per votare a ottobre bisogna fare la crisi di governo entro luglio. Chi ha fatto i calcoli sa che è l’ultima finestra possibile per le elezioni anticipate”, dice Maurizio Gasparri, il capogruppo di un partito che annaspa e che il trend negativo nei sondaggi e la tentazione movimentista del Cavaliere spingono a trasformarsi in un inconsapevole alleato di quelli che Ceccanti definisce “pazzi” e Letta “irresponsabili”. Daniela Santanchè tifa per la caduta di Monti a luglio, una delle ragioni è chiara: “Altro che 15 per cento, se Monti continua a governare il Pdl arriverà alla primavera del 2013 con il 9 per cento dei consensi. Praticamente già non esiste più”. C’è chi vuole votare subito, e chi no, sia dentro il Pdl sbandato e in crisi nerissima sia dentro il Partito democratico, che pencola tra la tentazione di fiondarsi e subito lui al governo e il timore per l’arrembanza di Nichi Vendola e la ribalderia di Antonio Di Pietro, al momento inevitabili alleati.

    A questo proposito giova raccontare una malizia di Palazzo e ricostruire il clima nel quale era maturata la proposta di elezioni anticipate a ottobre avanzata dal responsabile economico del Pd Stefano Fassina il 4 giugno scorso. “In questo contesto politico e con questo Parlamento, Monti non ha la forza di portare avanti altre riforme”, diceva Fassina, solido socialdemocratico molto vicino al segretario Bersani: “Dovremmo verificare rapidamente se esiste la possibilità di riformare la legge elettorale e, se questa non c’è, dovremmo considerare la possibilità di anticipare la legge finanziaria per il 2013 e votare in autunno”. Sarà un caso, ma forse non lo è, che proprio in quei giorni cominciava l’iter di quel pacchetto anticorruzione promosso dal Guardasigilli Paola Severino che tanto – tanto – ha fatto inalberare Silvio Berlusconi. In quelle ore un pezzo del gruppo parlamentare del Pdl entra in stato di agitazione, tutti cercano di orientare Berlusconi e sanno che il Cavaliere soprattutto capisce il linguaggio dei fatti: segue gli eventi, quasi mai prende lui una decisione netta. Così si susseguono riunioni del gruppo più limpidamente antimontiano che circonda Berlusconi: Renato Brunetta, Denis Verdini, Ignazio La Russa. Alla Camera comincia a diffondersi una voce, insistente: si preparano incidenti parlamentari sul pacchetto anticorruzione, mentre il governo fa già capire di essere intenzionato a porre la fiducia sul provvedimento. Ed è proprio in quel momento, in seguito a un confuso ma preciso scambio di informazioni tattiche tra pezzi del Pdl e del Pd all’interno dei gruppi parlamentari, che Stefano Fassina fa detonare la sua proposta: elezioni a ottobre. Suona l’allarme rosso a tutti i livelli, soprattutto nel cuore del governo tecnico, al Quirinale. Difatti non è un caso, che, due giorni dopo, il 6 giugno, il presidente del Senato Renato Schifani consegna al Foglio una lettera aperta, schiettamente politica, dai toni molto franchi e indirizzata a Berlusconi: “Non giocare con il caos, bisogna sostenere una linea di responsabilità”. L’operazione riesce, Berlusconi capisce, accetta (o forse si piega), Angelino Alfano recupera un po’ di ossigeno e nel corso di un ufficio di presidenza del Pdl convocato sulla lettera di Schifani impone – ma forse solo momentaneamente – una linea più cauta e tutta diversa. Sintesi: “Non aiuteremo il Pd, che non ha il coraggio, a staccare la spina”. In quei giorni, come oggi, il principale ostacolo al voto anticipato è sempre lui, Napolitano, contrario a riportare l’Italia alle urne senza una nuova legge elettorale e preoccupatissimo dalla possibilità che l’azione del governo tecnico possa essere interrotta in una fase critica dell’economia mondiale e delle trattative europee. “Per qualcuno è un obiettivo militare da abbattere”, dice Roberto Rao, il deputato dell’Udc più vicino a Casini.

    A fine mese, il 28 e 29 giugno, Mario Monti parteciperà al Consiglio dell’Unione europea, con François Hollande e Angela Merkel, un vertice definito “cruciale” dalle cancellerie del continente, un lavorìo di trattative e negoziati che non prevede pause estive. Chissà. Di sicuro c’è che adesso il “radicalismo interpretativo” di cui scriveva D’Avanzo ha travolto i corazzieri a cavallo e sfondato il portone della presidenza della Repubblica per schizzare una fitta pioggia di fango sull’unico Palazzo che restava ancora in piedi, e pulito, tra le macerie della Seconda Repubblica che volge al declino; fango su cui si è tuffato, coltello tra i denti, l’interesse politico di parte: à la guerre comme à la guerre. Quando non si riesce a espugnare il castello, lo si assedia, si scavano e si minano gallerie e cunicoli per indebolirne la struttura, si fa affidamento sull’astuzia, si introducono cavalli di Troia. Ed è cosi che dall’interno del Parlamento, con la grancassa degli inesausti Vernacolieri delle procure, Di Pietro è praticamente arrivato a chiedere la messa in stato d’accusa (ma con quale accusa?) del Quirinale con l’unico obiettivo di sfregiare Napolitano per abbattere Monti entro luglio, conquistare le elezioni anticipate a ottobre, portare in Parlamento magari anche i comunisti di Diliberto (il partito alle cui manifestazioni partecipa il pm Ingroia) e riuscendo pure a far prigioniero così il povero Bersani, inchiodato alla foto di Vasto con lui e Vendola; Bersani che per la verità da quell’abbraccio di alleanza manettara ha tentato, e tenta ancora, di divincolarsi. Così si inseguono i tentativi di riforme condivise tra Pd, Pdl e Udc in questa legislatura, ma fatalmente, nell’inettitudine tremula della casta,  tutto si intreccia e si aggroviglia fino a confondersi e dunque a perdersi per sempre; Bersani cerca di sciogliere (ma non lo dice) il patto di Vasto, e proprio in queste ore, le ultime possibili, tenta di giocare al tavolo di una nuova legge elettorale, quella che invoca Napolitano, e persino di una complicatissima riforma del sistema istituzionale che gli permetterebbe di limare le unghie dell’arrembante dipietrista, una riforma che potrebbe anche placare gli spiriti più agitati del mondo berlusconiano.

    Ma Di Pietro, che è un Calandrino, il furbo del contado, ha ovviamente capito tutto, vede le carte del segretario Bersani in controluce, gli legge nel pensiero, conosce i magistrati, e si muove di conseguenza: sabota, infiamma, cerca nel travaglismo quella decisiva saldatura che gli manca con il mondo inafferrabile ma vincente di Beppe Grillo, e intanto ha gioco facile sulle debolezze di una classe politica che sembra votata all’autodissoluzione. Facilità di manovra l’hanno anche nel Pdl i teorici del tanto peggio tanto meglio, “fuori dall’euro”. Il Parlamento si comporta come se già fosse sciolto, si è ammanettato da solo: la Camera ha approvato il decreto anticorruzione, sapendo che la norma non passerà mai in Senato; e il Senato, mercoledì, ha approvato senza crederci una riforma costituzionale, compresa la riduzione del numero dei parlamentari, che tutti sanno, in cuor loro, essere però destinata a impaludarsi nei tempi lunghi, lunghissimi, della doppia lettura. Solo il Quirinale poteva resistere e acciuffarli tutti per il collo, contringerli e contemporaneamente garantirli e salvarli, come già li aveva costretti, garantiti e salvati tessendo la trama che ha portato Monti a Palazzo Chigi. Ma guarda caso, come si dice in Sicilia quando si allude alle bombe e alle tragedie di mafia, a Napolitano adesso “ gli hanno fatto capire di che erba è fatta la scopa”.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.