La diplomazia vaticana tentata dalla via dei ribelli anti Assad
La diplomazia vaticana lavora di cesello. Spesso è nelle sfumature che mostra i propri obiettivi. Così anche rispetto al medio oriente, e in particolare rispetto alla Siria, paese teatro di un conflitto intestino sempre più sanguinoso. Se inizialmente, all’esordio della rivolta contro il regime del presidente Bashar el Assad, la Santa Sede è rimasta sostanzialmente in silenzio assecondando la linea dei rappresentanti delle chiese cristiane con sede a Damasco favorevoli al regime, ora qualcosa sembra cambiare.
La diplomazia vaticana lavora di cesello. Spesso è nelle sfumature che mostra i propri obiettivi. Così anche rispetto al medio oriente, e in particolare rispetto alla Siria, paese teatro di un conflitto intestino sempre più sanguinoso. Se inizialmente, all’esordio della rivolta contro il regime del presidente Bashar el Assad, la Santa Sede è rimasta sostanzialmente in silenzio assecondando la linea dei rappresentanti delle chiese cristiane con sede a Damasco favorevoli al regime, ora qualcosa sembra cambiare. Lì dove il meglio della diplomazia vaticana è all’opera – i migliori nunzi risiedono oggi in medio oriente – la Santa Sede prova a imbastire una nuova strategia. Tanto che a meno di tre mesi da quel viaggio del Papa in Libano nel quale tutti i movimenti e le dichiarazioni saranno letti anche in chiave siriana – il programma è stato confermato. Il viaggio avrà luogo dal 14 al 16 settembre anche se fino all’ultimo la Santa Sede si riserva di valutarne la fattibilità – è stato Benedetto XVI a chiedere, incontrando i partecipanti all’assemblea della Riunione delle opere in aiuto alle chiese orientali, che “cessi ogni spargimento di sangue e la violenza, che porta solo dolore e morte”. Il Papa ha parlato di “un conflitto che dura da troppo tempo” e ha chiesto a tutti, regime compreso, di scrivere la parola fine sul conflitto in atto.
Sembra poco ma non lo è. Dietro questo impalpabile ma reale cambiamento di rotta c’è anche la testimonianza resa al New York Times (nel quasi silenzio dei media europei) da padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita fondatore della comunità monastica siro-cattolica di Deir Mar Musa, il quale dopo trent’anni di permanenza nel paese è stato cacciato via, costretto al ritorno in Italia. L’accusa di Dall’Oglio è forte e smentisce la vulgata che vuole i cristiani di Siria assaltati dagli estremisti islamici oppositori del regime. La sua visione delle cose è l’opposto: “Le chiese cristiane sono state bombardate e distrutte dai cannoni dell’esercito di Assad”, ha detto al Nyt. Parole confermate anche da fonti sul campo dell’agenzia Asianews: “In Siria è prematuro parlare di odio religioso contro i cristiani. In un anno di conflitto gli estremisti islamici non hanno attaccato nemmeno una chiesa”. E ancora: “A tutt’oggi gli unici danni ai luoghi di culto sono frutto di bombardamenti e scontri fra esercito e miliziani e non di attacchi mirati. Per le fonti, in questo clima di caos e violenza, chiunque potrebbe attaccare un monastero, un convento, una chiesa o un religioso senza essere punito. Situazioni ben peggiori si registrano in Iraq, Turchia, Egitto e anche in Giordania, dove si assiste a uno strisciante sentimento anticristiano radicato nella società e spesso fomentato dalle stesse istituzioni”. Secondo al-Sarjoun Akkadi, capo del comitato di coordinamento cristiano a Latakia, una delle poche organizzazioni cristiane che apertamente si oppongono al governo, “i cristiani sono stati spaventati per quarant’anni ed è stato fatto loro credere che il regime protegge le minoranze, ma si tratta di una menzogna”. Dice ancora: “Quanto a Dall’Oglio, se non fosse italiano sarebbe stato arrestato, se non ucciso”.
La tesi di Dall’Oglio è una: “Le chiese sono state distrutte dai bombardamenti indiscriminati dell’esercito siriano, questa assoluta evidenza è negata solo da coloro che in malafede perseguono un progetto politico”. Dall’Oglio, che ha più volte chiesto l’invio massiccio di osservatori delle Nazioni Unite, dice di aver visto “uno dei leader della rivoluzione di fronte a quindici salme del suo paese, suoi parenti, sunniti per altro, gridare e far gridare: ‘una sola Siria per i sunniti, per i cristiani, per tutti’”. E ancora: “Ci sono molti cristiani che usano la paura dell’islamismo musulmano per giustificare un allineamento totale con la repressione a prescindere da ogni considerazione sui diritti dell’uomo”. In tale drammatica situazione “la comunità internazionale è percepita come irresponsabile”.
Che il Papa visiti il Libano con un occhio alla Siria è evidente. Sul campo Benedetto XVI cercherà il massimo dell’imparzialità anche per volare più alto dell’appoggio di alcuni leader religiosi cristiani al regime. “Egli viene per dare un indirizzo ai cristiani, che sono divisi sulla politica e sul da fare nella gravissima crisi siriana” ha detto recentemente padre Samir Khalil Samir, gesuita, esperto di islam e professore a Beirut. Anche per Samir una parte delle comunità cristiane siriane, in particolare le loro gerarchie, “preferiscono il regime non democratico, assolutista di Assad, perché sembra garantire sicurezza e una larga libertà religiosa”. Ma oltre le gerarchie, oltre la classe di popolo più agiata, c’è la base. Dice Samir: “Chi cerca un po’ di giustizia e democrazia non può essere con il governo, soprattutto, chi in politica la pensa diversamente dal governo non può esprimersi a rischio di prigione e torture”.
Il Papa cercherà di mantenere una linea equilibrata. Ma senz’altro spenderà parole per i cristiani. E per la popolazione che soffre la repressione del regime. Il viaggio del Papa è anche un invito alla comunità internazionale perché agisca. Recentemente è stato il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, a spiegare che “la Santa Sede esorta le parti interessate” ma anche “tutta la comunità internazionale a non risparmiare alcuno sforzo per risolvere la crisi attraverso il dialogo e la riconciliazione”. Parole rilanciate anche dal nunzio apostolico a Damasco, monsignor Mario Zenari, che parlando alla Radio Vaticana ha detto che “bisogna tenere in vita a tutti i costi il piano di Kofi Annan perché altrimenti non si riesce a vedere un’alternativa”. Ha ricordato in merito padre Dall’Oglio: “Ci aggrappiamo a questa iniziativa Onu come naufraghi a una zattera. Qui si prova forse per la prima volta ad interrompere un ciclo violento di guerra civile con la non violenza”.
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