Aspettando Italia-Germania di giovedì
Una vita tra l'amaca e il gatto
Come per Gaber bisognava far finta di essere sani, adesso far finta di essere lavoratori bisogna: lavoratori senza lavoro, lavoratori di lavori indefiniti, lavoratori della gleba – nella prepotenza della precarietà sbriciolata fino a farsi precarietà di giorni, mica di anni, principio di raccolta e contabilità di “anime morte”. Altro che sogna, ragazzo, sogna!, crepa, ragazzo, crepa!
Fidarsi dei politici? Difficile. Degli economisti – che sempre sanno benissimo, dopo, spiegare quello che prima è accaduto? Improbabile. Dei giornalisti? Mai successo. Dei vescovi? L’ultimo l’hanno trovato al mare abbracciato a una bionda tettonica in bikini, pensa tu – comunque, rispetto ai cherichetti, già un passo avanti. Dei banchieri (i banchieri!)? Grrrrrr… Ah, santo Brecht! Dei grandi finanzieri? L’esorcista ci vorrebbe, al loro apparire. Di un poeta? Forse sì, ecco da un poeta ci si può aspettare qualcosa di sensato. I pischelli che stanno facendo l’esame di maturità (per come è messa la faccenda, l’ultima cosa che potranno fare da qui a molti anni), sono incappati in un pensiero di Eugenio Montale (attenzione: Montale, mica un anarchico-frocio-sfaccendato-tossico-puzzone della beat generation). Pensiero di quasi cinquant’anni fa, ma suona ancora bene: “Perché si lavora? Certo per produrre cose e servizi utili alla società umana, ma anche, e soprattutto, per accrescere i bisogni dell’uomo, cioè per ridurre al minimo le ore in cui è più facile che si presenti a noi questo odioso fantasma del tempo. Accrescendo i bisogni inutili, si tiene l’uomo occupato anche quando egli suppone di essere libero”.
Lavorare sempre e comunque, persino per fugare la vertigine che si prova davanti alle ore di ozio, ai vaghi pensieri, all’incartocciarsi come foglia riarsa dello stanco mito del fare – mito che pure si ripropone e anzi s’ingigantisce, minacciosa nube sulle teste di tutti gli oziosi continentali: dalle pagine dei giornali, dai proclami governativi, dalle adunate televisive: lavorare, non oziare! lavorare di più, non di meno! produrre, pantofolai! Il micidiale paradosso – l’insulto, la presa per il culo, lo sfregio all’intelligenza, proprio quando son tutti lì a dire che il lavoro non c’è, che va a sapere quando ci sarà (i famosi economisti), che i soldi sono finiti (i finanzieri che li hanno intascati), che i mutui, chi si fida? (i banchieri di rapidissimo razzolamento: qui tra poco pure i democratici si faranno ispirati declamatori di Ezra Pound), esodati e rassodati e piallati in massa, e allora di che cavolo parlano?, che se sei uno screanzato della Fiom magari stringi il culo e devi sperare che ci sia un pretore da qualche parte. Come per Gaber bisognava far finta di essere sani, adesso far finta di essere lavoratori bisogna: lavoratori senza lavoro, lavoratori di lavori indefiniti, lavoratori della gleba – nella prepotenza della precarietà sbriciolata fino a farsi precarietà di giorni, mica di anni, principio di raccolta e contabilità di “anime morte”. Altro che sogna, ragazzo, sogna!, crepa, ragazzo, crepa!, con ilpoco fiato per due o tre mesi e la sensazione di perenne umiliazione: sempre merce il lavoro (giustamente: la poetica del lavoro è robaccia che va bene solo con l’elettrificazione e i soviet), ma il lavoro di certi è diventato merce di scarto, quel che si butta nei cassonetti quando il mercato chiude e va via; mentre il lavoro di altri – che pure lasciano dietro desolazioni da passaggio di eserciti unnici – viene salutato con inverosimili paccate di milioni e scappellamenti mediatici e sociali. E in molto disprezzo si fa scena di tenere l’ozio – ah, quei greci che bevono ouzo sotto le viti ateniesi! sempre s’ayapo, quelli lì, come l’armata s’agapo, sfaccendati, piuttosto!, ah, quegli italiani col culo al mare! ah, quegli spagnoli, che si credono tutti Garcìa Lorca, sangria e te quiero!, c’hanno ancora voglia di romancero gitano, vi piace vivere facile, eh? In gran disprezzo – pur se il lavoro evapora, farsi produttivi anziché oziosi par giusto vanto e nessun danno (come non bastasse chiedere in giro, là dove l’esercito unnico dei finanzieri-speculatori-mercatisti è passato).
E adesso, e così messi, merkeliani tutti bisognerebbe farsi – teutonici drenatori di euro, ingozzatori di crauti, mangiatori di pane di segale, avvitatori di bulloni alla Volkswagen, forgiar pezzi in fonderia come Sigfrido la sua spada, fingersi intelligenti guardando Derrick come se fosse il tenente Colombo? Wer den Pfennig nicht ehrt, ist den talers nicht wert! Capito! Farsi operosi! Arbeit adelt! – ed è meglio quando nobilita, da quelle parti, il lavoro, piuttosto che quando rende liberi… Difficile, persino davanti alla minaccia delle giacchette senape (taglio e modello ritratto di Cavour) di Angela/Anghela, tedesca di Germania, noi al massimo ci siamo spinti al Professor Kranz di Villaggio, tedesco di Germania anch’esso – si capisce, mentre Angela/Anghela più felicemente ha trovato ragionata sua identificazione nel marchese del Grillo (che pure, come ozioso batteva tutti): io so’ io e voi non siete un cazzo! Il fatto, con tutta la buona volontà, è che l’ozio ci riesce bene, mentre lo spirito tedesco – di cespuglioso sguardo, di marziale intercalare, di sandalo Birkenstock adorno di corto pedalino – ci fa un po’ senso. Il filo d’ozio che attraversa le nostre giornate è un filo d’ozio produttivo: non che qualcuno mediti d’inerpicarsi fin su un ermo colle a rimuginare d’infinito o che si facciano indebiti paragoni tra il fancazzismo nostro quotidiano e il Seneca di “De otio”, questo no, per carità – ma si tratta di cosa che ha da spartire con una certa qualità della vita, con una diversa visione dell’esistenza, con il modo in cui immaginiamo il nostro essere – eroica indolenza che si fa resistenza. La pur tosta cancelliera si puo far nera come la sua foresta, ma tanto non la spunterà: con i greci forse, con gli spagnoli potrà mutarsi in matador brandeburghese, ma nella penisola italica perde giorni e spreca fiato. A parte certi incresciosi precedenti – e al tedesco filmico che evocava e sventolava il suo detenere “carta bianca” sul destino altrui, il conterraneo nostro Totò replicò, con logica e dignità, di andare, con la stessa, a pulirsi il culo. Sarà esortativa, farà arrapare frotte di liberali (frotte, poi; arrapare, poi), si tirerà dietro il forziere stracolmo – e la parlata di Monti avrà un fluire da Goethe risorto, ma la faccenda non si sposterà di un millimetro: sempre meglio la grattachecca sul Lungotevere che sistemare il fanalino di dietro della nuova Golf. Stiamo messi un po’ come Pio VII davanti alle pretese delle armate napoleoniche: “Non possiamo. Non dobbiamo. Non vogliamo”.
Essendo d’acciaio – da quelle parti fanno tutto d’acciaio – la posizione di Angela/Anghela niente potrà contro l’arioso ozio che gli sembra di vedere, operoso e inafferrabile e irritante, a sud di Baviera. Un po’ di calma, per piacere. Il sempre essenziale “niente zelo” di quell’intelligentissima carogna di Talleyrand, meditate. Oppure, da teutonica a teutonico, niente potrebbe valere più di quello – a richiamo del lento ritmo, a scorno della perenne rottura di palle dei trilussiani “ladri delle borse”, a maggior fascinazione del già fascinoso ozio – che ha scritto Papa Ratzinger sul fatto che “l’uomo d’oggi concepisce il servizio al mondo con una specie di fervore religioso. Egli non tiene in alcun conto la fuga dal mondo, e ancor meno stima l’ozio; reputa come possibilità positiva per l’uomo il fatto che questo possa cambiare la fisionomia di questo mondo, far venire a galla le sue potenzialità, migliorare la sua abitabilità (…) Ci si rende conto che il tempo libero non sostituisce la calma e che la calma deve essere nuovamente appresa, se il lavoro vuol conservare un senso. Inoltre ci si rende conto che l’uomo che voglia prendere il mondo totalmente in sé finisce in realtà per distruggere il mondo stesso e il suo proprio spazio vitale…”. Ma dice di più, con esempio benissimo calzante (soprattutto a lui benissimo calzante), Benedetto XVI: “Mentre gli apostoli si fanno addirittura in quattro, e tralasciano persino di mangiare tanto è il loro zelo e la loro serietà. Gesù li fa scendere dalle nuvole: ora riposatevi un poco! Si avverte l’umorismo discreto e l’amichevole ironia con cui Egli li rimette con i piedi per terra”. Ecco, rimettere i piedi per terre per rimettere un po’ la testa tra le nuvole – non burocraticamente operativi, non ragionieristicamente operanti. Spiega ancora, in questo scritto di alcuni anni fa, sul tema del riposo e delle vacanze: “La frenesia di qualunque tipo – anche lo zelo e la frenesia ‘religiosi’ – è del tutto estranea all’immagine dell’uomo del Nuovo Testamento. Sempre, ogni volta che noi crediamo di essere assolutamente indispensabili; ogni volta che pensiamo che il mondo e la Chiesa dipendano dalla nostra indefessa attività, noi ci sopravvalutiamo. Spesso allora sarà un atto di giusta volontà e di onestà creaturale essere capaci di smettere; riconoscere i nostri limiti; prenderci del tempo libero per respirare e riposare, com’è stabilito per la creatura ‘uomo’…”. Perciò quasi teologicamente promosso (“onestà creaturale”: bellissima definizione) quel diritto all’ozio, al riposo, al lasciarsi andare così sbeffeggiato e così fuori corso – da quelli che, rallentando un po’ la loro ipertrofica attività, un po’ più di bene, certo meno danno, avrebbero fatto all’umanità. Ancora Papa Benedetto: “Qui non vorrei tessere un elogio della pigrizia, quanto piuttosto suggerire una certa revisione della tavola delle virtù, così com’è stata sviluppata nel mondo occidentale, per il quale solo l’agire vale come atteggiamento legittimo e concepibile, mentre la contemplazione, la meraviglia, il raccoglimento e il silenzio appaiono come comportamenti insostenibili, o perlomeno bisognosi di giustificazione. Così, però, si atrofizzano delle energie umane in verità essenziali”.
E siccome carta canta e Papa parla, la faccenda potrebbe essere dignitosamente e autorevolmente chiusa qui – magari con il piccolo rinforzo di una citazione di De André e del suo struggente perdigiorno – “al fannullone sa battere il cuore / il cane randagio ha trovato il suo amore”. Ma si capisce che ai mercati, luoghi probabilmente perfetti per far pascere l’anticristo, manco il Papa basta e lo spread va più veloce del pensiero (sarà questo il problema?). Perciò, la superiorità della lentezza sull’iperattività da cavallette egizie non è in discussione. Lo stakanovismo è roba da regimi comunisti o fascisti, da capitalismo di stampo coreano o cinese: quelli che misurano a tonnellaggio, che si forgiano d’acciaio, che trebbiano a raffica. Così che oggi, passeggiatori tra le rovine della loro frenesia ingorda (di lucro, ingorda), ancora insistono e ribattono e si fanno competenti mentre intorno franano le scenografie delle loro incompetenze – a riprova dell’avvedutezza di Mino Maccari: “L’attività del cretino è molto più dannosa dell’ozio dell’intelligente”. Perché poi c’è questa costanza di frenesia lavorativa, potendo “dall’alba chiara finché il giorno muore”, come nel canto dei vecchi amanti di Brel, che mai stacca, che mai fa soste, che impunente si propone (si ripropone, casomai: come una cattiva digestione, come peperoni mal cotti). Così, non potendosi più ragionevolmente provare affidamento per i veloci pragmatici in ogni umana attività (sarebbe il disastro spiegato dai devastatori), conviene rifarsi all’antica saggezza della fisiognomica – sennò gli occhi, sant’Iddio, a che servono: solo a scrutare i rendiconti a fine mese, che pure quelli sono adesso un pessimo scrutare? Ci vogliono le facce adatte, ecco. Un fannullone è un fannullone è un fannullone – questo è tutto, va a zonzo col cane, ma certi hanno tirato fuori dei poemi andando a zonzo con un cane; e certi altri hanno invece drogato con soldi falsi (quelli raccontati da Tolstoj: il soldo falso che tutto conduce a rovina) i soldi buoni, pisciato nella ciotola dell’acqua di tutti, vomitato nel piatto altrui. Fossero stati fermi, oziosi, tra l’amaca e il gatto, l’orzata e il tramonto, non avrebbe adesso motivo di gratitudine, invece che di rabbia incandescente, il mondo? Non l’ozioso deve giustificarsi, ma il frenetico deve incenerirsi il capo – mentre tronfio e tacchinesco si aggira, tenendo alta la testa come nelle processioni fanno con il Santissimo, per convegni e televisioni.
Le facce, si diceva. Per ogni cosa che si deve dire ci vuole una faccia adatta. Ora, prendete il sottosegretario Polillo (di solo cognome mutato in nome, che così basta e avanza a identificarlo: come Tiramolla, come Pluto, come Zagor). Senza nulla togliere tanto al suo estro quanto alla sua sapienza (dico: ex consigliere economico di Cicchitto…) ma vi pare che abbia la faccia – lui che sempre appare, a rifarsi alla saggezza delle nonne, “fresco come un quarto di pollo”, rosa di mattutina rugiada ricoperta: tale con invidiabile incarnato s’appalesa – di uno che possa dire a qualcun altro di lavorare una settimana di più? Ma manco un giorno, un’ora, un secondo. Per logica, per giustizia, per tigna. Ma cos’è, uno scherzo, come quando propose (battuta! battuta!, disse poi – nessuno aveva pensato che fosse altro, diciamo) di far pagare la tassa per cani e gatti. Fermi, oziosi, immobili come i Prigioni di Michelangelo, mezzi fuori e mezzi dentro, e tutti zitti dovrebbero stare. Marmorizzati. E’ dalla visione della situazione che ci circonda, e del peso sulle vite altrui, che si capisce quanto bene un po’ di ozio avrebbe fatto. Questi che stanno incollati ai terminali con il culo a Milano e l’occhio a Singapore, inestirpabili come gli acari dal divano, dovrebbero staccare i fili del computer e quelli del cervello (ammesso che). Poeticamente trovare, se non possono la vita che desiderano, ispirazione in Kavafis (uno che di tutto il viaggio verso Itaca vedeva solo la bellezza infinita del viaggio, “il bel viaggio”, mica l’insignificante approdo: poeta, non mercatista), e dunque “cerca almeno questo / per quanto sta in te / non sciuparla / nel troppo commercio con la gente / con troppe parole in un via vai frenetico”. C’è un momento – quando sono i fatti (dura replica, si sarebbe detto una volta) a incaricarsi dello svelamento della coglionaggine degli eventi – in cui l’iperattivo si accorge della sua dimensione di rotellina, di irrilevante comparsa, di manopola senza alcun comando. Caccoletta solo sdegnosa. Gli oziosi non hanno di questi momenti – magari altri, magari peggiori: ma di questi no. Nel disordine della vita, trovano proprio nel vagare in un apparente vuoto di sguardo e di meta, il necessario intervallo di lucidità (Ambrose Bierce). Magari su a Nord, con giustificato orgoglio, i prussiani suoi daranno ragione ad Angela/Anghela – anche perché, lasciati inoperosi, quelli possono sempre rivolgere inopinatamente lo sguardo verso i confini polacchi. Ma qui – forse come in Spagna, forse come in Grecia: con la non lieve differenza che corre tra l’ouzo e il Brunello – spende vane giornate, vane dichiarazioni, vane giacche tendenti al pistacchio. Si potrebbe pure rifare alle leggi di Dracone – “e della gravezza de’ gastighi, che esse ordinavano; imperciocchè la morte era pena prescritta quasi a tutti i delinquenti, di modo che fatti eran morire per fin coloro che colti fossero in ozio” (Plutarco), ma farebbe solo due fatiche: di cattivissima impressione e di nessuna soggezione. E adesso che hanno scoperto, pare all’Università di Salamanca, che “il tempo sta rallentando, finirà del tutto” – e quindi giorno verrà, alla Fra Cristoforo, dove cazzo è che corrono tutti, invece di stare in campana, allertati e pensosi? Scriveva Luigi Grande, magistrato e scrittore morto una ventina di anni fa: “Io vagheggio il ‘diritto all’ozio’, mentre c’è chi si affanna a cercare con la lanterna, il diritto al lavoro nella carta costituzionale”. Meglio fottersene dei mercati e degli omini che li arano e depredano: di sterco del diavolo si credevano coperti, solo dentro l’umanissima merda si sono scoperti affogati – o rinsaviscono o nobilitano, maoisticamente, pure quella. Distendersi sul divano, accendersi un sigaro, farsi un’orzata, mangiare il cocomero, leggere Kavafis e giocare col gatto. Peggio di loro nessuno di noi oziosi potrà mai fare.
Il Foglio sportivo - in corpore sano