Un tè col Dalai Lama
Giuliano Pisapia gli ha regalato i sigilli di Milano, riconoscimento non troppo ufficiale che non dovrebbe far arrabbiare la Cina in modo rischioso per l’Expo, Barack Obama l’ha ricevuto lontano dalla Stanza ovale, alla Casa Bianca, e dopo molti sorrisi reciproci l’ha fatto uscire dalla porta di servizio, in mezzo ai sacchi della spazzatura, poi si è affrettato a precisare che il presidente degli Stati Uniti non è esattamente per l’indipendenza del Tibet e che spera che Cina e Tibet appianino le divergenze.
Giuliano Pisapia gli ha regalato i sigilli di Milano, riconoscimento non troppo ufficiale che non dovrebbe far arrabbiare la Cina in modo rischioso per l’Expo, Barack Obama l’ha ricevuto lontano dalla Stanza ovale, alla Casa Bianca, e dopo molti sorrisi reciproci l’ha fatto uscire dalla porta di servizio, in mezzo ai sacchi della spazzatura, poi si è affrettato a precisare che il presidente degli Stati Uniti non è esattamente per l’indipendenza del Tibet e che spera che Cina e Tibet appianino le divergenze. Il Dalai Lama deve esserci abituato, all’abbraccio entusiasta del mondo luccicante e all’uscita dalle porte sul retro, e non può che continuare ad accettare mazzi di fiori ed essere amichevole e spiritoso, mentre nell’ultimo anno trenta tibetani, uomini e donne, monaci e laici, si sono dati fuoco. Deve accontentarsi di questa sconfinata ammirazione un po’ fatua, di questa fascinazione hollywoodiana, come se a essere fotografati con il Dalai Lama diventassimo un po’ Richard Gere, un po’ Angelina Jolie, con l’aura spirituale che ci manca.
Lui, Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, presidente uscente, è una figura tragica, in esilio da cinquant’anni, il simbolo di una repressione sanguinosa che si fa beffe dei diritti umani e che non riconosce l’idea di libertà, ma per l’occidente è soprattutto altamente decorativo, pieno di fascino esotico. Carlo d’Inghilterra gli fa innaffiare i fiori di uno dei suoi giardini, poi lo abbraccia con la ridarella (in Tibet ridono meno), qualcun altro gli mette in testa un cappellino da baseball durante una conferenza sulla pace, Carla Bruni accanto a lui congiunge le mani (enormi, come quelle di Gianni Morandi) nella preghiera buddista e gli copia il modo di annodare la pashmina, tutti cercano di farsi regalare una sciarpa, un braccialetto tibetano, vogliono portare a casa un souvenir del Dalai Lama e collezionare una sua frase saggia e colorata. Lui parla di pace, non violenza, compassione, bambini, speranza, amore e perfino democrazia, noi l’abbiamo adorato, toccato, invocato, fotografato, banalizzato come una rock star, ci piacerebbe andare a un suo concerto, vederlo in un film, averlo come ospite d’onore in salotto, farci invitare in India (lui dice che non invita nessuno, ma se la duchessa di Cornovaglia vuole andare a trovarlo e parlargli delle sue malinconie, lui gentilmente la riceve).
L’idea della reincarnazione, l’educazione monastica, la familiarità con la modernità e il sorriso luminoso, gli occhialoni da vista e la capacità di conversare con chiunque da vecchio amico: è tutto tremendamente affascinante. “Dalai Lama” è diventata anche la risposta perfetta per ogni domanda mondana, quando si vuole fare bella figura, dire una cosa originale. Con chi andresti in vacanza? Chi vorresti intervistare? Qual è l’uomo che ammiri di più? Chi sogni di conoscere un giorno? Lui non può nemmeno tornare in Tibet, noi però lo seguiamo su Twitter per avere una spruzzata di Dalai Lama e sentirci più buoni, migliori, cosmopoliti. Per noi funziona perfettamente, tanto il Tibet è lontano.
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