Procure prigioniere

Salvatore Merlo

Dice Luciano Violante: “Di Pietro, Grillo, Travaglio e parte del suo giornale sono un unico blocco politico-mediatico che gioca con il disagio popolare. Sulla eventuale trattativa stato-mafia si deve indagare; ma alcune utilizzazioni delle indagini giudiziarie sono inquietanti, penso al tentativo di aggredire il Quirinale. Una parte del mondo giudiziario è oggi utilizzata a mo’ di clava all’interno di un progetto distruttivo. Quando andai dal dottor Ingroia a Palermo ebbi l’impressione di un ufficio giudiziario ‘prigioniero’ dei mezzi di informazione”.

Leggi Disinformare, complicare, spiegare, alludere, depistare, e altre stragi di stato di Giuliano Ferrara - Leggi Romanzo di una trattativa di Paolo Cirino Pomicino - Leggi Giugno 2012, attacco al Quirinale di Salvatore Merlo

    Dice Luciano Violante: “Di Pietro, Grillo, Travaglio e parte del suo giornale sono un unico blocco politico-mediatico che gioca con il disagio popolare. Sulla eventuale trattativa stato-mafia si deve indagare; ma alcune utilizzazioni delle indagini giudiziarie sono inquietanti, penso al tentativo di aggredire il Quirinale. Una parte del mondo giudiziario è oggi utilizzata a mo’ di clava all’interno di un progetto distruttivo. Quando andai dal dottor Ingroia a Palermo ebbi l’impressione di un ufficio giudiziario ‘prigioniero’ dei mezzi di informazione”.

    L’anticamera dello studio di Violante, a Montecitorio, è un quadratino ingombro di arredamento anonimo, sobrietà da ufficio giudiziario, appunto, due poltrone larghe, un tavolino da caffè, due librerie vetrinate e fitte di volumi che occupano i tre quarti della stanzetta, un’altare alla mafiologia, in ordine sparso: Ayala con copertina azzurra, Spataro con copertina rossa, Saverio Lodato e Piero Grasso in verde, poi Tranfaglia, Violante stesso, e pure Lino Jannuzzi, “Il processo del secolo, come e perché è stato assolto Andreotti”, due copie addirittura. Citiamo Jannuzzi quasi a memoria. Per lui, quello ad Andreotti fu un processo politico, e quell’assoluzione stava a significare che l’ambiguità, la vischiosità e la complicità non attenevano alla persona ma attenevano alle cose: Andreotti stava dentro quel magma, ma ci stava senza responsabilità penali. I magistrati accertano i fatti, mentre tocca agli storici scrivere e talvolta riscrivere la storia; se i ruoli si invertono è la fine, nel senso che i magistrati non stanno più facendo il loro mestiere. Ci si chiede dunque se quel che scriveva Jannuzzi valga anche per quelle indagini, cronaca di questi giorni, sulla trattativa tra lo stato e la mafia che in un raffinato teorema tirano dentro le più alte cariche istituzionali negli anni tra il 1992 e il 1993. Ieri Marianna Scalfaro, la figlia del presidente Scalfaro, ha scritto una lettera al Corriere della Sera: “Hanno tentato in mille modi di accusare mio padre di cose le più disparate quando era in vita, senza riuscire a trovare nulla di perseguibile. Ci riprovano oggi, puntando a coinvolgerlo nelle polemiche sulla trattativa stato-mafia, perché non può più rispondere”.

    Onorevole Violante, e se l’inchiesta di Antonio Ingroia a Palermo fosse un altro processo politico, una mostruosità di vaghezza all’interno della quale non si afferrano circostanze, fatti, né univoche fattispecie di reato? Violante centra la risposta, e poi allarga il quadro: “L’inchiesta è della procura di Palermo, non di un singolo magistrato. Occorre finirla con questa personalizzazione dei processi. La trattativa, nella forma della coabitazione tra uomini della mafia ed esponenti pubblici, c’e stata, ininterrottamente, fino al 1982, quando la legge Rognoni-La Torre introdusse, con l’art. 416bis, il delitto di mafia. Forse anche dopo. Il problema è capire cosa sia stata esattamente questa trattativa. L’arresto di Riina, ad esempio, è stata una vicenda venata da stranezze, come la mancata perquisizione della sua abitazione”. Ma il fondo dell’accusa è persino più inquietante, aleggia una domanda bestiale se posta in un’aula di giustizia: lo stato, nelle persone dei suoi più alti rappresentanti istituzionali, ha venduto Paolo Borsellino alla mafia? E’ una domanda che riscrive in chiave criminale la storia istituzionale d’Italia, la affida a Badalamenti, Bontade, Riina e Provenzano. “Se Borsellino fosse stato assassinato perché aveva scoperto la trattativa o in connessione alla trattativa, ci sarebbe materia, eccome. E’ sbagliato quindi, a mio avviso, dividersi su questa indagine. Dobbiamo invece esigere che essa sia condotta con il massimo rigore professionale. La mancanza di rigore, visibile nell’intreccio tra indagini penali e mezzi di informazione, che in questa vicenda ha assunto caratteri particolarmente allarmanti, rischia di danneggiare il lavoro stesso della magistratura. Alcuni magistrati sembrano a volte sedotti dal narcisismo e, mentre si rispecchiano nei giornali che raccontano le loro indagini, non si accorgono che il gioco nel quale possono precipitare riguarda il futuro prossimo. Siamo sospesi tra tecnocrazia, populismo e democrazia. Le prossime elezioni, tra meno di un anno, saranno sul carattere del sistema politico e si profilano già come un duello tra politica e antipolitica, tra democrazia e populismo, che è la rappresentanza del disagio dei cittadini attraverso l’ira più o meno teatrale del complesso mediatico-politico che la cavalca. Vedo il tentativo grave da parte del populismo teatralmente rabbioso di Grillo, Travaglio, Di Pietro di usare alcune inchieste, e una parte del mondo giudiziario, per la realizzazione di un progetto distruttivo”.

    I giornali hanno pubblicato le intercettazioni tra l’ex ministro dell’Interno, ed ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino, e il consigliere giuridico del presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio. I magistrati hanno confermato di aver registrato e trascritto anche la viva voce di Giorgio Napolitano. Una fitta, fitta pioggia di fango sull’unico Palazzo rimasto in piedi, e pulito, tra le macerie della Seconda Repubblica. “Il populismo usa il disagio per il suo progetto”, dice Violante. “E per dare sostanza all’ira, per renderla efficace ai fini della conquista del potere, è necessario dimostrare che nessuno degli attori sulla scena è degno di rappresentare in maniera credibile la razionalità e la ragionevolezza della politica. Ho letto l’intervista di Marco Travaglio a Grillo. Sembrava un’intervista di comodo al segretario del suo partito”.
    Giovanni Pellegrino, ex senatore del Pd e per anni presidente della commissione parlamentare Stragi, dalle colonne dell’Unità ha recentemente posto una domanda insinuante: “Quante probabilità effettive sussistono che l’indagine palermitana, a valle dei tre gradi di giudizio, si concluda con giudicati di condanna?”. Domanda insinuante, perché sembra fare riferimento a una vecchia analisi di Giuseppe D’Avanzo sulla scuola di Gian Carlo Caselli, di cui il titolare dell’inchiesta di Palermo sulla trattativa stato-mafia, Antonio Ingroia, si dice erede. D’Avanzo contrapponeva a questa tradizione la scuola di Piero Grasso e Giovanni Falcone, fondata sulla necessità di lavorare sui fatti e non sulle teorie per quanto verosimili o suggestive potessero essere, e scriveva: “Quando la procura di Palermo lavora agli intrecci di Cosa nostra con le aree visibili e formalizzate del potere – l’economia, la politica, le istituzioni – l’interpretazione del fenomeno e l’iniziativa penale mostrano le prime, rilevanti scuciture. Regole fluttuanti e fonti fluide rendono in avvio onnipotenti le azioni della procura di Palermo. Ma alla resa dei conti, in aula, molte accuse si sbriciolano con esiti che dovrebbero imporre un ripensamento”. Che ne pensa Violante? “Le indagini della procura diretta da Caselli hanno avuto risultati di grande rilievo, che sarebbe ingiusto pretermettere. L’analisi di D’Avanzo coglieva una questione nodale. Ci sono due modi di condurre un’inchiesta. Il primo è quello di chi si pone come obiettivo la verifica delle responsabilità intorno a un fatto preciso. Il secondo è quello di chi cerca le prove per ricostruire la storia di un avvenimento che ritiene possa essersi verificato”.

    Ingroia agisce in questo secondo modo? “Questo chiedetelo all’interessato. Ma questo sistema ha una sua logica e una sua giustificazione nelle contorsioni della storia della Repubblica negli anni Settanta che è una storia fatta anche di depistaggi, stragi, connivenze, tradimenti delle funzioni pubbliche”. Si chiama teoria del doppio stato. “E’ una chiave di lettura di quegli anni purtroppo non infondata, che ha poi influenzato una interpretazione giacobina e complottistica di tutta la storia repubblicana. E dunque ha influenzato anche la lettura degli anni successivi, come quelli odierni, quasi si trattasse o si tratti di verificare se la meccanica del doppio stato non fosse ancora viva”.
    Falcone aveva un’idea molto lontana da questa. A Violante citiamo qualche riga che il giudice aveva affidato al quotidiano la Stampa, molti anni prima di essere assassinato: la professionalità dei magistrati, scriveva Falcone, “significa innanzitutto adottare iniziative quando si è sicuri dei risultati ottenibili; perseguire qualcuno senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio”. Violante sorride, e sottoscrive. “E’ proprio così”, dice. “Non solo, Falcone pagò con il suo isolamento il coraggio di non aver mai configurato le sue indagini in chiave di comunicazione giornalistica o propagandistica. Fu pesantemente accusato di coprire i rapporti tra la politica e la piramide criminale. Se non apriva fascicoli, era perché sapeva che certe cose sono indimostrabili e non appartengono al lavoro del magistrato, ma piuttosto a quello dello storico o del polemista. Falcone seppe resistere alle sirene dei giornali, e persino dei politici come Leoluca Orlando, che lo spingevano a ‘osare di più’. Ma non tutti i magistrati hanno quella tempra. Il processo penale non è un fatto di opinione pubblica”. Ingroia ha sviluppato un rapporto molto attivo con i mezzi di informazione e con la polemica politica. “So che è un eccellente magistrato, ma so anche che non sottoscriverei tutte le sue dichiarazioni pubbliche. Una volta mi ha interrogato con un altro pm sulle questioni intorno alle quali indaga e mi è successa una cosa assai strana. Uscito dal suo ufficio sono stato raggiunto da una telefonata della mia segreteria: ‘La tua deposizione è già tutta sulle agenzie’. In quella stanza, in procura, eravamo solo in tre e io non avevo parlato con i giornalisti. Protestai formalmente con il dr. Ingroia e il capo dell’Ufficio. Questo episodio mi ha dato l’impressione della prigionia di un ufficio giudiziario: prigioniero dei mezzi di comunicazione. Non uso casualmente il termine prigioniero perché di questo si tratta. Il rapporto con la stampa è perverso: devi sempre dare un osso, altrimenti ti si rivolta contro o, peggio, ti trascura. E questo segna anche il rischio della perdita di credibilità dell’indagine”.

    La sinistra, il Partito democratico, non è mai voluta intervenire per regolamentare le intercettazioni; perché no? Le riforme non si sono fatte perché c’era Silvio Berlusconi, con il suo enorme e ramificato conflitto di interessi? “Il conflitto d’interessi, questa volta, non c’entra. Berlusconi crede che fare politica significhi esercitare un potere incontrollabile, fare nelle istituzioni quello che fa un capo azienda in fabbrica. Credo che non sia mai stato davvero interessato a riforme equilibrate. Voglio dire che non è mai stato davvero interessato a costruire un nuovo equilibrio che fosse da lui non contestabile perché anche da lui costruito. E’ andata sempre allo stesso modo: la Bicamerale, le riforme istituzionali del mese scorso e tutto il resto. Non è un caso che l’unica riforma da lui condivisa, quella poi cancellata dal referendum del 2006, amplificava al massimo i poteri del premier e massimizzava contemporaneamente anche la confusione sul ruolo del Parlamento. Era una riforma che statuiva di fatto la paralisi dei poteri di controllo. L’equilibrio dei poteri è fuori del suo modo di vedere la politica. Mi sembra che accetti il paternalismo, non il controllo”.
    E’ cronaca di questi giorni la pubblicazione delle intercettazioni tra Mancino e il consigliere giuridico del Quirinale. Dice Violante: “Se un presidente della Repubblica, garante costituzionale dell’equilibrio tra le istituzioni, non avesse chiesto formalmente al procuratore generale di valutare l’opportunità di un coordinamento tra indagini svolte da uffici diversi, in un caso che coinvolgeva un ex ministro dell’Interno in ragione del suo ruolo, sarebbe venuto meno a un suo dovere”. Ma per alcuni quelle telefonate rispondono a una manovra torbida, Mancino appare troppo allarmato per non essere sospetto e secondo molti è inquietante che la presidenza della Repubblica si sia attivata, sotto questo genere di pressioni, con la lettera di Donato Marra al procuratore generale della Cassazione.

    “Le intercettazioni sono di per sé scivolose – ragiona Violante – Sono frammenti di vita spesso incoerenti tra loro, attraverso i quali si deve poi ricostruire il tutto. E poi, le conosciamo tutte o solo quelle che i giornali hanno deciso di pubblicare? Il giornalismo per trascrizione non va confuso con il giornalismo d’inchiesta”. Veramente, spesso sono ciò che i magistrati hanno deciso di far pubblicare ai giornali. “Ho letto che sono gli avvocati a consegnare le intercettazioni ai cronisti. Comunque sia, le intercettazioni sono scivolose perché si guarda dallo spiraglio della porta socchiusa un angolo della stanza e si pensa che sia il tutto. E comunque non c’è stata alcuna deviazione delle indagini. Si è tentato per le ragioni politiche già dette di montare uno scandalo. Mancino è un politico navigato, ma è un uomo ingenuo, nel senso migliore del termine. E infatti ha fatto esattamente il contrario di quello che avrebbe fatto un politico scaltro, capace delle manipolazioni di cui è sospettato. Lui era angosciato dall’idea di essere trascinato in un crimine al quale era estraneo. Ne aveva parlato anche con me. Non si possono confondere i comportamenti di un onesto uomo di stato sotto pressione psicologica con degli indizi di colpevolezza”.

    Mancino è stato intercettato, da semplice testimone, perché la procura temeva una “combine”, cioè temeva che vari rappresentanti delle istituzioni, chiamati a testimoniare, potessero concordare una versione comune da sottoporre ai pm. In seguito alle intercettazioni, la sua posizione si è modificata da semplice testimone a imputato. Si può prima intercettare e solo dopo formulare un’accusa? Non dovrebbe essere il contrario? “Questo è tipico dei processi che nascono da un sospetto di carattere generale e poi si allargano come cerchi concentrici nell’acqua”.
    Con il fiancheggiamento di alcuni mezzi di comunicazione. “E siamo sempre lì, al rapporto tra magistratura e mezzi di comunicazione, un problema che i magistrati dovrebbero sciogliere e cercare di risolvere loro prima che degeneri del tutto. Il rapporto tra certe procure e certi giornali mi ricorda un vecchio e bellissimo film di Joseph Losey, ‘Il servo’: lentamente il rapporto servo-padrone si vena di aspetti morbosi, e infine il servo riduce in suo potere il padrone. Rischia di diventare un serio problema democratico, specie in questo contesto di crisi economica e di debolezza politica. La tenuta economica dell’Italia è a rischio e se vogliamo che il paese si riprenda e torni a prosperare dobbiamo fare in modo che il sistema democratico tenga. In questo senso la magistratura dovrebbe capire che corre il rischio di essere usata come una palla da bowling per abbattere tutti i pilastri istituzionali. E che dopo verrebbe anche il suo turno”. Prima di chiudere, una precisazione. Violante ci tiene. Ha letto la pagina che Cirino Pomicino ha scritto ieri sul Foglio, e dice: “E’ un signore che confonde le proprie frustrazioni con la storia della Repubblica”.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.