Tutte le trame all'ombra del Quirinale, da Scalfaro a Napolitano
Se si cerca di trovare uno tra i fili (e quello che si descriverà appare uno dei più robusti) delle vicende della Seconda Repubblica, è bene tenere in mente queste date: 28 maggio 1992, 18 maggio 1999, 15 maggio 2006.
Subito prima del 28 maggio del 1992 viene ucciso Giovanni Falcone, subito dopo si scatena senza più freni l’inchiesta di Mani pulite. Il Parlamento in attività nel maggio del 1999 è quello eletto dalle politiche del 1996, elezioni ritardate con manovre oltre qualsiasi decenza istituzionale per determinarne l’esito politico poi raggiunto.
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Se si cerca di trovare uno tra i fili (e quello che si descriverà appare uno dei più robusti) delle vicende della Seconda Repubblica, è bene tenere in mente queste date: 28 maggio 1992, 18 maggio 1999, 15 maggio 2006.
Subito prima del 28 maggio del 1992 viene ucciso Giovanni Falcone, subito dopo si scatena senza più freni l’inchiesta di Mani pulite. Il Parlamento in attività nel maggio del 1999 è quello eletto dalle politiche del 1996, elezioni ritardate con manovre oltre qualsiasi decenza istituzionale per determinarne l’esito politico poi raggiunto. Prima del maggio del 2006 c’è stato un voto di sostanziale pareggio tra centrosinistra e centrodestra, l’Italia ha bisogno disperato di una pacificazione ma l’offerta di un governo di unità nazionale avanzata da Berlusconi, dopo qualche titubanza innanzi tutto di D’Alema, viene rifiutata.
Ultimo interrogativo: perché vengono impostate improvvise e concomitanti inchieste contro il Guardasigilli Mastella (quelle minime calabresi e quelle scatenate in Campania sulla moglie), così da far saltare la maggioranza dell’esecutivo Prodi da parte di una magistratura che, pur avendo dissapori con Mastella, non può non guardare con ben maggiore preoccupazione al ritorno alla guida della nazione di un leader come Berlusconi, impegnato in costanti polemiche con ampi settori togati? Che cosa sarebbe successo se invece che nell’aprile si fosse votato dopo il 18 maggio del 2008?
Quel che avviene nel 1992 è in parte decisiva determinato da fatti imprevedibili, in particolare da una mafia che, senza grandi disegni strategici, non vuole Andreotti al Quirinale: le cosiddette sponde nello Stato, i complotti magari con l’intervento del Kgb, appaiono fantasie. L’elezione di Scalfaro è figlia dell’affaticamento di Craxi e Forlani, della gioiosa voglia insieme di protagonismo e provocazione di Pannella, della perdita di coscienza del Pci-Pds. Non corrisponde ad alcuna manovra preventiva, al massimo è aiutata da singoli uomini dello Stato come Vincenzo Parisi, che cercano di frenare il caos. Diversi tutti gli altri casi ci- tati: una sorta di sistema riprende a funzionare e cerca di tenere sotto controllo una variante decisiva come l’elezione del presidente della Repubblica. Certo in modi ben più confusi e ineleganti di come avveniva nella Prima Repubblica, dove però l’anno dell’elezione del presidente era sempre periodo di aspre tensioni. Così quando nomenclature di centrosinistra e ampi settori dello Stato si rendono conto che Berlusconi non è solo un fenomeno passeggero, liquidabile con qualche avviso di garanzia, spingono a paralizzare la situazione politica finché la Lega (e vengono coperti gli scarti secessionistici in cui si deve esibire Bossi per recuperare popolarità) che ha fatto il ribaltone riprende un po’ di voti e Prodi può vincere le elezioni.
Il Parlamento del 1996 è quello che deve eleggere il nuovo uomo del Colle e non si possono correre rischi. La scelta cadrà su un uomo, Ciampi, non dedito a intrighi contro il centrodestra quale era stato Scalfaro: si possono trovare molti motivi per criticare Carlo Azeglio ma non si può negarne l’indole conciliatoria. Il blocco conservatore che vuole impedire vere riforme istituzionali e proteggere i corpi dello Stato che si sono separati da un leale rapporto con la sovranità popolare sa di dovere scegliere personalità non di rottura. Ma è questo blocco, naturalmente virtuale (non c’è alcuna sede segreta dove si riunisce) ma non per ciò meno efficace, che vuole decidere. Così avvie- ne anche nel 2006 quando un governo di unità nazionale – con possibili accordi tra diverse anime di questa unità – renderebbe più difficile una scelta di garanzia del blocco conservatore. Si preferisce, invece, tenersi le tensioni che squassano e squasseranno la nostra società, pur di evitare qualsiasi rischio. Anche in questo caso poi la scelta è quella di un galantuomo, Napolitano, dotato di una ben più mirabile sensibilità politica rispetto all’ex governatore di Bankitalia, in grado di dare preziosi contributi per tenere insieme l’Italia. Ma certamente collocato all’interno di equilibri conservatori (si consideri l’operato non solo della magistratura ma anche quello del Csm e della Corte costituzionale su cui un’influenza del Quirinale è naturale e in parte sarebbe obbligatoria) che di fatto saranno insuperabili. In questo senso vanno considerate anche le vicende del finis Prodi: quando si comprende che il nuovo governo di centrosinistra si squaglierà nel disastro, partono le mosse per evitare che si voti oltre il 18 maggio del 2008, per impedire che si eleggano le Camere che dopo il 18 maggio del 2013 sceglieranno il nuovo presidente della Repubblica, così da scongiurare un Parlamento dove Berlusconi possa scambiare Palazzo Chigi con il Quirinale, governando così le mosse di un Fini da sempre dominato solo dai propri stretti interessi di bottega.
Mai senza gli Stati Uniti e il Vaticano
Il blocco conservatore così come lo abbiamo descritto si propone da sempre dunque essenzialmente di proteggere l’anima dello Stato. Era naturalmente influenzato dall’establishment quando questo era grande. Adesso le influenze paiono andare in senso inverso: così il Corriere della Sera talvolta definito, ingenerosamente ma ingegnosamente e con affettuoso realismo, una prefettura quirinalizia. La presidenza della Repubblica, poi, funziona anche da cassa di compensazione con i due grandi soggetti che hanno accompagnato la nostra storia post Seconda guerra mondiale: gli Stati Uniti e il Vaticano. Al di là della nostra tempestosa vita politica, sia Washington sia Oltretevere hanno sempre cercato di aiutare la salita di figure sul Colle che consolidassero i loro rapporti fondamentali con l’Italia. A parte Giovanni Gronchi (frutto di scontri nella Dc, di incursioni di Msi e Pci, delle mosse di Enrico Mattei e Amintore Fanfani) e, in parte Sandro Pertini, scelto soprattutto per riannodare i rapporti con una società turbata dall’assassinio di Aldo Moro e dal brutale linciaggio politico inferto a Giovanni Leone, tutti i presidenti sono innanzi tutto interlocutori della Casa Bianca e del Sacro Soglio. Anche quelli laici si distinguono quasi tutti per la specchiata vita famigliare. Da Oltretevere si preferisce un laico responsabile a un cattolico disobbediente: così a occhio Franco Marini si è giocato le sue carte per qualche appello di troppo firmato negli anni Settanta e Pier Ferdinando Casini non è considerato veramente in corsa per avere sposato una divorziata da cui poi ha divorziato. E’ evidente come questo equilibrio materiale, non privo di saggezza quando decollò nelle condizioni determinate dalla Guerra fredda, finisca per aggiungersi ai guasti di una Costituzione pensata nei suoi assetti istituzionali (a partire dalla magistratura) non solo per governare uno Stato moderno bensì anche per non lacerare una nazione uscita da una guerra civile e a cui si voleva evitare di entrare in un’altra. Non è, dunque, facile individuare una via di uscita da questa situazione impantanata. Si considerino gli scenari per il post Napolitano: intorno al 2011 si è costituito l’asse Prodi-De Benedetti per preparare la corsa del primo al Quirinale. Tra l’altro il presidente onorario di Cir vorrebbe anche superare la protezione quirinalizia di via Solferino che impedisce a Repubblica di occupare il centro della società e diventare così il più importante quotidiano nazionale. Da parte del suddetto duo si sono valutati gli spostamenti dell’opinione pubblica (voti di Napoli, Milano, referendum su acqua, nucleare e varie altre frattaglie: la previsione di un crescente incattivimento della società darebbe chance pure a una sinistra più radicale ma anche messa in linea dalla frusta di Largo Fochetti). Più o meno i calcoli che faceva Fanfani nel 1964 quando venne invece eletto Giuseppe Saragat. Però siamo nella Seconda Repubblica e tutto è molto più in movimento.
Spaventate da un’opzione Prodi – preparata dai pm amici con il solito massacro di dalemiani come avvenne tra il 2005 e il 2006 – diverse forze riflettono sulla rielezione di Napolitano, un conservatore ma senza alcuna attitudine alle avventure. Nel centrodestra si è più o meno sperato in una possibile corsa di Berlusconi, con rischi visto lo scarso autocontrollo dei suoi comportamenti privati ma anche in grado di concludere l’innovazione del sistema politico italiano sinora solamente abbozzata. Gli eccessi di festini paiono avere chiuso questa opportunità. Né sembra realistica la proposta di mandare al Quirinale Gianni Letta: si è già visto quanto spaventi il peso di Roma anche quando il candidato è un politico sopraffino come Andreotti. Una personalità sicuramente intelligente, moderata e gentile, molto legata ad ambienti potenti ma non particolarmente esperta nella sintesi politica necessaria per superare le diffidenze verso questi legami, non ha chance per passare. Il centrodestra, se volesse fare una proposta riformista, dovrebbe ragionare su una sorta di Enrico De Nicola (primo presidente della Repubblica dal 1946 al 1948), un uomo fuori dai giochi ma capace di proteggere un percorso riformista. Però, forse, ci vorrebbe più spirito di iniziativa di quello che pare in circolazione oggi tra berlusconiani e postberlusconiani.
*Il testo pubblicato è un estratto dal libro “Ascesa e declino della Seconda Repubblica”, appena uscito per le edizioni Ares (pagine 240, 14 euro).
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