Per i liberal John Roberts era un giudice-mostro. Poi lui ha scelto il compromesso, e il più nervoso è Scalia

Matteo Matzuzzi

Quando tutti gli occhi erano puntati sul giudice associato Anthony Kennedy (conservatore moderato dato per incerto fino all’ultimo), la sorpresa è arrivata dal Chief Justice, il capo della Corte suprema degli Stati Uniti. E’ stato infatti John Glover Roberts jr., cinquantasettenne giudice di Buffalo, a indossare i panni dello swing justice, schierandosi con l’ala liberal della Corte per la costituzionalità dell’Affordable Care Act (universalmente nota come Obamacare) e mandando su tutte le furie i due pesi massimi dell’ala conservatrice, Clarence Thomas e, soprattutto, Antonin Scalia.

    Quando tutti gli occhi erano puntati sul giudice associato Anthony Kennedy (conservatore moderato dato per incerto fino all’ultimo), la sorpresa è arrivata dal Chief Justice, il capo della Corte suprema degli Stati Uniti. E’ stato infatti John Glover Roberts jr., cinquantasettenne giudice di Buffalo, a indossare i panni dello swing justice, schierandosi con l’ala liberal della Corte per la costituzionalità dell’Affordable Care Act (universalmente nota come Obamacare) e mandando su tutte le furie i due pesi massimi dell’ala conservatrice, Clarence Thomas e, soprattutto, Antonin Scalia. Nessuno se l’aspettava né poteva immaginarlo: dopotutto, quando sul finire dell’estate di sette anni fa l’allora presidente George W. Bush lo scelse prima come successore di Sandra Day O’Connor (prima donna a far parte della più alta magistratura americana ritiratasi nel luglio 2005 per accudire il marito malato) e poi come   successore del Chief Justice William Rehnquist (morto dopo lunga malattia senza aver mai voluto dimettersi), i democratici insorsero. “Per me sarebbe molto difficile votare a favore di un uomo che pensa che la sentenza Roe contro Wade sull’aborto vada riscritta”, diceva indignata la senatrice Dianne Feinstein, alla vigilia delle audizioni del designato Roberts davanti ai membri del comitato giuridico del Senato. E che dire di Joe Biden, all’epoca semplice senatore del Delaware, pronto ad accusare il futuro Chief Justice di “far parte di quella cosiddetta destra che considera la discriminazione di genere un problema di secondaria importanza”.

    I democratici, reduci dalla sconfitta di John Kerry alle presidenziali dell’anno prima, cercavano la rivincita su Bush ed erano disposti a tutto pur di affossare la nomina dell’uomo da lui prescelto. Ogni argomento era utile alla causa: cattolico, consigliere di Reagan alla Casa Bianca, vice avvocato di stato con George H.W. Bush e clerk di Rehnquist nella sessione del 1980. Insomma, il profilo di un perfetto conservatore, per di più giovanissimo con la possibilità di guidare la Corte per (almeno) un trentennio. In tre ore di dibattito, i senatori democratici si mostrarono preoccupati, terrorizzati all’idea che Roberts avrebbe portato la barra del più esclusivo club giuridico americano sempre più a destra. E le mezze risposte di Roberts su aborto e diritti civili (“i giudici devono avere l’umilità di riconoscere che operano all’interno di un sistema di precedenti”) non contribuirono a calmare i liberal.

    Roberts era il mostro, l’uomo della destra iperconservatrice che se fosse andato a guidare la Corte suprema per le donne, i disabili e le minoranze sarebbe stata una tragedia: avrebbero perso diritti fondamentali acquisiti nel corso di più di un secolo. Addirittura, nel corso delle audizioni, qualche senatore chiese all’ex giudice della Corte d’appello nel Distretto di Columbia cosa ne pensasse della tutela della privacy: “E’ o no un diritto costituzionale?”, domandò a Roberts il repubblicano (già democratico e poi filoobamiano) Arlen Specter, della Pennsylvania. Terrorizzato dal falco che aveva lavorato a stretto contatto con Rehnquist era anche Ted Kennedy, secondo cui “gli scritti di Roberts in materia di diritti civili indicano che ci sono motivi seri e reali per essere profondamente preoccupati”. Anche per questo, aggiungeva Kennedy, il giudice designato avrebbe dovuto garantire di impegnarsi per il rispetto delle pari opportunità. D’altronde, chiariva il senatore democratico Chuck Schumer, “non basta dire che sarà equo una volta insediato. Deve dimostrarlo prima”. Un dibattito lungo ed esasperante, tanto che qualche repubblicano stremato ricordò ai colleghi democratici che anche “il giudice associato Ruth Bader Ginsburg, nel 1993, si rifiutò di rispondere su aborto, diritto penale e discriminazioni”.
    John Roberts era il perfetto candidato conservatore: “Mi ha commosso fino alle lacrime”, confessò il senatore Jeff Sessions, dell’Alabama, dopo aver ascoltato i sette minuti dell’intervento del Chief Justice designato. Poi, però, una volta confermata la nomina, Roberts si è mostrato pragmatico, pignolo e fiero custode dell’indipendenza della Corte da ogni tipo di pressione: “Io non ho alcuna piattaforma politica”, aveva detto davanti al Senato che ne stava valutando i requisiti per succedere a Rehnquist. “I giudici non sono come i politici che promettono di fare certe cose in cambio di voti”. Piuttosto, aggiunse, “i giudici sono come gli arbitri: non fanno le regole. Le applicano”. E i primi sette anni in cui ha gestito una Corte sempre meno liberal (Elena Kagan e Sonia Sotomayor non hanno lo stesso pedigree progressista di John Paul Stevens e David Souter) e sempre più spostata a destra (con gli agguerritissimi Scalia e Thomas a mostrare l’insofferenza verso le politiche presidenziali) si sono caratterizzati per un’inattesa moderazione. Poco più della metà delle sentenze, infatti, ha visto vittoriosa l’ala conservatrice, mentre spesso si è assistito a decisioni prese all’unanimità e quindi, giocoforza, compromissorie.  Accordi, mediazioni, salti a sinistra per mettere tutti d’accordo. John Roberts ha quindi voluto smentire, in quella che Jeffrey Rosen ha definito “la causa regina del suo mandato alla guida della Corte suprema”, tutti i suoi detrattori che ora si trovano costretti a lodarlo. Attirandosi, al contempo, le ire di Scalia, che già commentando le opinioni dei giudici dissenzienti sull’immigrazione si era mostrato polemico e irascibile, arrivando perfino ad accusare la Casa Bianca di ragionare per soli calcoli elettorali. Probabilmente, in quello sfogo, c’era tutta la rabbia per aver visto il proprio capo, entrato nella Corte con i gradi di ultraconservatore, servire a Barack Obama una delle sue più grandi vittorie politiche.

    • Matteo Matzuzzi
    • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.