Tra il Cav. e il quid
La migliore in assoluto l’ha detta il Cav. quando ha fatto sapere di essere pronto a fare il ministro dell’Economia in un governo guidato da Angelino (e giusto il ben temperato Corriere della Sera, anime care, può sistemare in tal modo la faccenda: “Uscita estemporanea? Non è mai così, quando è Berlusconi a parlare” – che pure quasi sempre così è). Ora, immaginate una qualunque situazione – una tavolata in trattoria, uno sposalizio, la sala del Consiglio dei ministri – in cui il Cav. non creda tanto suo dovere quanto suo potere piazzarsi a capotavola.
“In altre parole, mi stai cacciando fuori?”. “Non in altre parole. Queste sono le parole esatte”. (Jack Lemmon “Felix” e Walter Matthau, “Oscar”, nel film “La strana coppia”, 1968)
La migliore in assoluto l’ha detta il Cav. quando ha fatto sapere di essere pronto a fare il ministro dell’Economia in un governo guidato da Angelino (e giusto il ben temperato Corriere della Sera, anime care, può sistemare in tal modo la faccenda: “Uscita estemporanea? Non è mai così, quando è Berlusconi a parlare” – che pure quasi sempre così è). Ora, immaginate una qualunque situazione – una tavolata in trattoria, uno sposalizio, la sala del Consiglio dei ministri – in cui il Cav. non creda tanto suo dovere quanto suo potere piazzarsi a capotavola. O che aspetti che qualcuno gli dia la parola. O che debba temere, nientemeno, che qualcuno gliela possa togliere. Sono di quelle cose che si dicono, ma che poi non si fanno. Come da babbo a bimbo – dai, poi ti porto a conoscere Geronimo Stilton; da consorte cornificatore a consorte cornificato – caro/a, giuro che ti sarò sempre fedele; da leader carismatico a poverocristo di leader democratico – se serve, vengo a fare il semplice ministro nel tuo governo. Figurarsi. Due più malamente assortiti di Berlusconi e Alfano, sulla scena politica, non si vedevano da anni. E mica, si capisce, per inabilità del secondo, quando per perenne tracimazione del primo. Persino quando si atteggia a Cornelia del pidielle, matronale altroché (Silvio è padre, di più: è madre!), con l’occhio fatto languido per l’occasione, e lo presenta ai capataz del ribollente (troppo ribollente, quasi scotto) esercito suo: ecco Angelino, il mio gioiello più prezioso, mica farfallina di bigiotteria… Persino nel quarto d’ora semestrale in cui giura che farà il padre nobile (o nobil madre) per la nobil causa altrui e soprattutto sua, e che il passo cederà e il potere abbandonerà e un po’ della penombra caraibica di Antigua si andrà a godere, altro che farsi primariare sotto qualche scalcagnato gazebo. Ma allo scoccare del sedicesimo minuto già si sente un Macbeth assediato dal fantasma di Banco, una casta Olivia insidiata da Bruto e senza un Braccio di Ferro all’orizzonte, un Puffo alle prese con Gargamella – e come in un vaudeville di Feydeau esce dalla porta e risale della finestra, si cala dal lucernaio, si afferra alle grondaie, salta sul tetto e inizia a ululare come felino in accalorato amore. E con scatto laterale riprende la scena, fa secondarie le primarie, fissa l’occhio tormentato sull’irriducibile pelata di Angelino – che mezzo capello che è mezzo non ha ripiantato (e anzi, sulla nuca l’alfaniana calvizie ha un’ulteriore ricaduta verso il basso, sorta di fossa delle Marianne del disastro tricologico, con l’effetto finale sulla sommità dello svettante segreterio di una tavola di Rorschach), che il Lodo non ha salvato, che sul quid è scarsamanete quotato, poco poco piano piano, e subito dopo il Cav. mostra finto pubblico pentimento – macché: Angelino di quid abbonda, da vendere ne ha, a chilate ne potrebbe distribuire, “quel quid in più che solo lui ha”, sì, ciao. Sempre così il Cav., della sera come della mattina, checché il Corriere. Persino poco bello,il suo discepolo gli è sembrato – e se ne fa scrupolo e se ne duole, di suo di bellezza rifinito e risuolato, mentre Angelino, con quell’espressione di civile ascolto odontoiatricamente esibita, acquoso e buono sguardo mitemente offerto all’interlocutore, ecco, un cavallino storno di certo gli evoca.
Di là c’è appunto Angelino – che canta e porta la croce, e qualche ex apostolo della libertà fa pure sgambetto durante il cammino e occhietto ai delatori del Sinedrio. Se Silvio è tuono, Angiolino è cielo a pecorelle; se il primo scorazza come un volpacchiotto nel pollaio, il secondo è gallinella che cova; se Alfano ha scritto un libro per raccontare “cosa significa fare il ministro della giustizia in Italia”, quasi la stessa identica cosa gli ha chiesto Berlusconi: “Scusa, Angelino, ma che hai fatto da ministro della giustizia in Italia?”. Angelino è di scuola democristiana, e si vede: nel gesto morbido, inclusivo – mentre parla allarga le mani verso l’interlocutore, per poi subito dopo portarle al petto, avanti e indietro, indietro e avanti, finché anche l’ultimo interlocutore (ostico larussiano, riflessivo quagliarielliano, trasognato cicchittiano) non si sente trasbordato e ancorato dall’incerto presente al saldo cuore alfaniano. Ha una gestualità da vecchio democristiano, Angelino. Visto sul palco, evoca Mariano Rumor e piccole grandezze dorotee: dire per non dire, non dire per dire. Pare perennemente in placido bianco e nero, lo vedi adesso come potevi vederlo negli anni Cinquanta – né paillettes né cocotte né vulcani esplosivi del leader suo. Né barzellettiere né mattatore, manco un filo puttaniere, uomo d’acqua dolce che temerariamente sfidò la prima serata da Bruno Vespa – e non fu un accorrere di folle, a dire il vero, mentre il. Cav. saggiamente ammaestrato quell’ora da svacco dopocena ad Angelino lasciò. “per non creare equivoci”, figurarsi. A fare il bagno nelle sabbie mobile, piuttosto, un soporifero circumnavigare il nulla, non potendo, causa evidenziata su imperiali soprattacchi, circumnavigare altro. Così generosamente Angelino andò, come sempre andò. E portò la croce, e ancora quel che poteva cantò.
Già dal nome, poi, Angelino è segnato – ché Angelino si chiama per non confenderlo con il babbo, a nome Angelo: che razza di complicazioni. Angelino è nome che evoca carezza di monaca sulla testolina nel doposcuola, lodi del prete all’oratorio, Angelino pane e vino! / Angelino pane e vino!, compiacimento di madre superiora, recita scolastica a fine anno, affidabilità sicura di figlia di mamma a bravo figliolo: “Angelino, mi raccomando, me la riporti a casa per le otto”, e sicuro che alle otto meno cinque la creatura viene riconsegnata (e al minimo sindacale smanettata) davanti al portone materno. Angelino è figlio pefetto, genero impeccabile, padre affettuoso, marito amorevole, politico cosciente. Sempre il più giovane di tutti, un tedio da tema di maturità – il più giovane consigliere comunale, il più giovane consigliere provinciale, il più giovane deputato regionale, il più giovane ministro della Giustizia: a vederle, queste benemerenze sbarazzine, così disciplinatamente rievocate nelle autobiografie, proprio di essere giovane a volte vien da pensare che gli sia mancata l’occasione, ormai arenato e rassegnato a metà tra vocazione moderata e rimpianto per aver mancato i Duran Duran, “mi accusano, nonostante la mia giovane età…”. Lui che il primo giorno da ministro attraversa i corridoi di via Arenula, e sente su di sé lo sguardo grave di Togliatti, e sente su di sé lo sguardo grave di Moro, e il commesso premuroso che s’avanza e lo informa compiaciuto, compiacimento a motivo di nuovo grano da inserire nel suo rosario di giovanili destinazioni: “Fino a stamattina l’onorevole Moro è stato il più giovane ministro della Giustizia della storia repubblicana” – fino a quella mattina, appunto. E lacrimò, quando sentì in televisione annunciare il suo incarico da ministro, molto lacrimò, “piansi di un pianto che non avevo mai conosciuto”. Ma al quale, in fondo, doveva essere ben pronto, pur se l’emozione si comprende e la sacca lacrimale è sensibile – se fin da comiziante adolescente gli amici lo avvicinavano dietro al palco e pronosticavano: “Angelino, un giorno diventerai ministro” – non era meglio: Angelino, avrai la gola secca, ci andiamo a fare una birra? Molto più di un ministro è diventato – meritatamente, Angelino. Ma il Cav. che nei giorni buoni si fa Eolo, e soffia imperioso nelle sue vele, ogni tanto capricciosamente serra sdegnato la boccuccia a cuore, caccia Angelino dentro la gran bonaccia, a pane e acqua e dopocena da Vespa. Perché il Cav. sa e ancor non vuole, testa e cuore gli vanno la prima da una parte e il secondo dall’altra – ché padre nobile è gran bella figura, ma Re Lear che padre nobile voleva essere amaramente se ne pentì. Perciò, ai precedenti sta.
Buffissima coppia – a vederli insieme, a pensarli insieme – Berlusconi e Alfano. Che pure di amore si nutrì, appassionato amore a dire il vero, amour fou e catodico, di giovanile perturbamento per il ventitreenne Angelino davanti allo schermo televiso, quando i suoi coetanei ancora ripassavano nella memoria e nella manualità vaghe rimembranze di “Drive In”, e lui rapito assisteva a una prima comparsata di Silvio: “Mi sono unilateralmente innamorato di lui. Un innamoramento da tubo catodico” – come a certi succede con l’Arcuri e a certi altri con i tronisti di Maria. Amore che, al primo incontro, il Cav. corrispose – s’intende che a modo suo corrispose (più portato, istintivamente, alla rievocazione di Tinì Cansino), con pratica considerazione: “Ma davvero lei è siciliano? La sento parlare italiano”. Angelino il Sentimentale e Silvio il Pragmatico dalla sorte sono stati messi vicini e dagli eventi politici indissolubilmente legati. Chiaro che il progetto di ungere ed elevare Angelino al vertice del pidielle è cosa diversa, per Berlusconi, del vagheggiato, pubblicamente rivendicato (e largamente operativo, si sospetta) progetto di “Forza Gnocca” – ché né gnocca e né onestamente manco gnocco Angelino è. Ma così è andata. E gli sbuffi berlusconiani che periodicamente raffreddano la nuca scoperta di Alfano sono, insieme, segno di potere e segno d’inquietudine. Strani assai appaiono. Persino fisicamente – Angelino sogna di ritrovare per il suo metro e ottantacinque i settantuno chili, peso forma perfetto; il Cav. per accreditare il suo metro e settanta sarebbe pronto ad riaprire ancora oggi una combattiva disputa sulla ferocia menzognera dei comunisti – felice similitudine visiva di un Don Chisciotte e un Sancio Panza che si vede cavalcare dentro il tramonto di un ventennio politico (non quello). Ma soprattutto sono due caratterialmente diversi.
Mica facile immaginarli uno di fronte all’altro. Ognuno con il suo linguaggio, le sue movenze, le sue priorità. Così da pensarli come Oscar Madison e Felix Ungar, la fenomenale coppia cinematografica di forzosi coabitanti portata sullo schermo, nel 1968, dai meravigliosi Walter Matthau e Jack Lemmon. Tanto il primo è disordinato, allegro, sciamannato, pokerista, “parla Oscar il Pokerista!”, divorziato, rumoroso e al verde (non è caso, almeno quest’ultimo, del Cav.), tanto il secondo è disciplinato, pedante, tedioso, attento. Il primo mette i tost sotto le ascelle, i piedi sul tavolo, le cartacce per terra, le cicche nel vaso dei fiori, fa il cascamorto pure con le cameriere (“Vieni qui, tesoro: stasera, per mancia, ti lascio la chiave del mio appartamento”. “E’ una cosa alla buona o posso portare mio marito?”); il secondo mette a posto di continuo, raddrizza ogni cosa, gira per l’appartamento di Oscar (visivamente parlando, la cosa più simile all’attuale pidielle vista sullo schermo) con il piumino in mano, spazzola qualunque superfice, lucida polverosi manufatti. Dove Oscar passa e incasina, Felix passa e riordina. Difficile convivere, se uno deve organizzare il tavolo per il poker e l’altro passare la cera sul pavimento. “Tutto quello che fai mi irrita. E quando non ci sei mi irrito pensando a quello che farai quando torni!” – Oscar Cav. a Felix Alfano. Il secondo al primo: “Devo veramente andarmene?”. Il primo al secondo: “Veramente, fisicamente, immediatamente”. Ognuno ha le sue priorità, ognuno ha un linguaggio che l’altro fatica a decodificare: “Ehi, che ti prende? Non ti avevo visto così arrabbiato da quando mi cadde il sigaro nella tua pasta di pan di Spagna”. Ora, il Cav. con un sigaro in mano nessuno l’ha mai visto, ma nemmeno vigile intorno a un pan di Spagna è stato mai avvistato. Si spiega, Oscar e Felix sono coppia immortale proprio perché coppia contrapposta – come tutte le coppie destinate non a durare, ma a farsi eterne.
Non fanno battute di simile portata, in pubblico, ed è da escludere anche in privato, l’Oscar e il Felix del pidielle. Primo – perché ci sarebbe del genio: troppo per la politica. Secondo – perché quel che resta del pidielle sarebbe buono, a quel punto, per una solo puntata al tavolo del poker. Però, qua e là, qualcosa non del tutto disprezzabile (anzi) affiora. “Vidi in televisione un imprenditore che aveva passione per la libertà, che aveva il sole in tasca, che aveva tanta voglia di cambiare il paese. Sentii una musica straordinaria, un jingle straordinario…”, ha raccontato, da cotanta bellezza rapito, Angelino – che musica straordinaria per “e-forza-italiaaaaa-che-siamo-tantissimiiiiii” finora nessuno aveva avuto né cuore e né ardire di azzardare. “Non sono un leader in pantofole, ma non mi ricandido: Alfano sarà un premier notevole”, ha assicurato Silvio – dove la parola “notevole” nel contesto ha la stessa forza (o forzatura logica) della “straordinaria” musicalità sopra evocata. Angelino: “Berlusconi ha l’inimitabile capacità di trasferire nell’interlocutore le proprie grandi visioni”. Silvio (attribuita a): “Tra la vita e Palazzo Chigi scelgo la vita, mandando al mio posto il giovane Angelino”. Manco la prospettiva fosse quella di “un bacio di una morta”.
Angelino ha tre qualità che al Cav. potrebbero risultare gradite come uno spicchio d’aglio nelle pennette tricolori in un pre-bungabunga: è siciliano (pur se, con berlusconiana sorpresa, di assoluta comprensibilità), è democristiano (pur se redento, ma da certe cose non ci si redime mai del tutto: “La comparsa di Berlusconi mi ha distolto dalla Dc…” è Dna, quello), è di Agrigento, terra irrimediabilmente pirandelliana – e pirandelliano, si sa, come niente il Cav. lo associa a “teatrino della politica”. A volte Angelino s’imbarca verso ardite invenzioni linguistiche che potrebbero produrre nel leader suo la stessa reazione di Totò con Peppino: “Stai sempre a dire: ho detto tutto. Ma che hai detto?”. Così, presentando una non memorabile “Political Digital Academy” – che ha temerariamente rivendicato, “ho fortemente voluto e promosso” – coniò la definizione di “popolo dei nativi digitali”, non gli procurasse già abbastanza grattacapi il popolo dei nativi liberali. Una volte il Cav., “con fare affettuoso”, gli propose di accroccare un “governo ombra”, essendo in quel momento orbo di quello al sole. “Costituimmo una sorta di pensatoio che la mattino presto, quasi tutti i giorni, si sforzava di pianificare le iniziative d’opposizione…”, affrontando virilmente, i pensatori nel loro pensatoio, alle prime luci, la noia e il calo degli zuccheri. Lo lodò Cossiga, dopo una telefonata in cui si complimentava con il diretto interessato, con il di lui padre, con il padre del padre finanche: “Alfano è un ragazzo molto perbene. E quando dico, di un siciliano, che è perbene, vuol dire che è perbene, perbene, perbene”. Che Alfano sia perbene – tanto da procurare qualche mancamento all’interno del pidielle, quando sconsideratamente propose di fare del partito il “partito degli onesti”, ohibò! E il suo urlo “la mafia fa schifo!” – da ventenne che vide le stragi di Falcone e Borsellino – sarà pure solo un urlo, come gli avversari gli hanno rimproverato, ma è comunque un gran bell’urlo.
Di tanta compostezza, di tanti pregi, di tanta misura, di tanta pedanteria, di tanta predibilità – a parte il lancio in aula, una volta, una sola e unica volta, in uno scatto di rabbia, di un foglio: ché Angelino manco gli aeroplanini di carta in classe faceva volare – è necessario a volte liberarsene: per non intasare con troppe apparenti virtù la propria esistenza, così da farne un po’ stucchevole estranea agli altri. Angelino lo fa con i concerti di Francesco Guccini. Democristiano da oratorio, e persino in qualche modo paradossale berlusconiano da oratorio, sotto il palco del cantautore mito dell’intera sinistra italiana si scatena. Ogni concerto ha visto, ogni disco ha comperato, ogni canzone a memoria sa. E una più di tutte, una con maggior passione canticchia sotto la doccia o magari mentre sale le scale di Palazzo Grazioli, la stessa che tra bivacchi e sacchi a pelo e qualche spinello, i ragazzi di sinistra cantano dai giorni dei loro padri e dei padri dei loro padri, “e che ci giunga un giorno ancora la notizia / di una locomotiva, come una cosa viva / lanciata a bomba contro l’ingiustizia, / lanciata a bomba come l’ingiustizia!”. I coetanei di Angelino a quel punto levano il pugno chiuso, lo agitano nell’aria – quasi a spintonare materialmente la motrice lanciata a bomba contro l’ingiustizia, “trionfi la giustizia proletaria!”. Chissà, se lì sotto al palco, ad Angelino è mai scappato un pugno chiuso, cinque dita leggeremente raccolte – roba che il Cav. si leverebbe direttamente il soprattacco per rincorrerlo, lui che al massimo ha steccato con Trenet, da crocerista in compagnia di antiche carampane. Probabilmente no: tutto il suo esuberante scontento l’ha esaurito in quel foglio volante, come morente farfalla ancora nell’aria, nell’emiciclo di Montecitorio. Il nostro mister Butterfly, l’onorevole Angelino.
Primarie sì, primarie no, primarie boh – ogni giorno, croce e pena. E certi che nel suo partito accusano “questo imborghesimento generale della nostra classe dirigente”, si ride o si piange?, neanche venissero dai tupamaros. Angelino mette pazienza, stringe forte i suoi fogli tra le mani perché non volino più via. Ha molte parti da fare, nella commedia del pidielle in sofferenza post-berlusconiana. Molti personaggi vaganti in cerca d’autore lo assediano. Molto Pirandello, aapunto, nella testa e nei pensieri di Angelino. “Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso”. Pure perché il gigante (non montanaro) della Brianza, sulla sua nuca indifesa, ogni tanto alita e ruggisce.
Il Foglio sportivo - in corpore sano