Ossessiva come un bolero e imbattibile. Questa Spagna è un'altra musica
E’ altra musica, questa Spagna. Ossessiva come un bolero. Pericolosa come Rita Hayworth che ti balla davanti con una lama nascosta nel seno. Los rojos, tranne due o tre, sono minuti, hanno piccola taglia e baricentro basso. Si muovono tutti, di continuo e contemporaneamente, a piccoli passi, restringono e allargano il raggio d’azione di quel tanto che serve a fare annaspare l’avversario.
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E’ altra musica, questa Spagna. Ossessiva come un bolero. Pericolosa come Rita Hayworth che ti balla davanti con una lama nascosta nel seno. Los rojos, tranne due o tre, sono minuti, hanno piccola taglia e baricentro basso. Si muovono tutti, di continuo e contemporaneamente, a piccoli passi, restringono e allargano il raggio d’azione di quel tanto che serve a fare annaspare l’avversario. Seguono volute geometriche disegnate appositamente per risparmiare la propria forza e prosciugare quella degli altri. Già a stargli dietro c’è da andare al manicomio: figurarsi a leggerne i movimenti, anticiparli e intercettare finalmente quella fottutissima palla. Il nostro commissario tecnico ha detto che non esistono squadre imbattibili. Sbaglia: questa Spagna per ora lo è.
Certo come qualsiasi altra squadra può avere la serata storta, il cervello annebbiato dalle troppe Shakire e Sare Carbonero, insomma la gamba molliccia, ma se non sta in questo stato questa squadra non è battibile. Da nessuno. Soprattutto se la posta in gioco è alta. Vince da cinque anni e si ripromette di vincere ancora. Non ricordo nulla di simile: persino il Brasile di Pelé, al confronto, ha ballato una sola estate.
C’è anzitutto la forza d’insieme, la potenza di un movimento calcistico in cui la sorte della Nazionale si integra e si intreccia con quella dei suoi club più rappresentativi: anche loro dominano e quando va veramente male si piazzano tra i primi quattro nelle varie competizioni. C’è nell’anima spagnola la fascinazione per la tecnica individuale e al tempo stesso l’assoluta consapevolezza che il calcio sia fatto collettivo. Il Camp Nou o il Bernabeu non sono solo l’isola grassa dove si spendono soldi e si accumulano debiti per gentile intercessione di banche periclitanti: oggi sono loro la Scala del calcio, dove palati raffinati non perdonano il piede ruvido, sanzionano l’egoismo bulimico, sanno riconoscere il giusto valore di ognuno e nel caso anche dell’avversario. Il culto del possesso palla importato a Barcellona dagli olandesi, da Cruijff a Rijkaard e portato a livelli quasi di pensiero unico dal Pep nasce da questa giusta miscela di praticità e bellezza ed è ormai generalmente condivisa. Solo Mourinho ha fatto l’eretico e altro non poteva fare finché perdeva: ora ha vinto anche lui con un Real sontuoso che ha saputo fare anche possesso palla. Molti anche tra i commentatori italiani dicono che tenere la palla non basta, che bisogna anche sapere cosa farci. Vero ma altrettanto vero è che finché hai la palla tra i piedi gli altri non segnano.
Il gioco dunque si ricostruisce, si reinventa a partire da qui, dalla scelta di poter costantemente ridurre o allargare il campo in funzione della debolezza altrui.
La consonanza e le affinità tra club e Nazionale non nascono per germinazione spontanea, ne sappiamo qualcosa anche noi. I nostri grandi club hanno di volta in volta portato alla Nazionale i “blocchi” ma quasi mai ne hanno forgiato la cultura. Se l’Italia di Sacchi, quella dei Baresi, dei Baggio avesse vinto in quel braciere demenziale di Pasadena, forse avremmo potuto anche noi fare un passo nella buona direzione. Non è andata così. Anche altrove raramente le grandi annate di una Nazionale hanno coinciso con brillanti prestazioni dei club, si pensi all’Olanda di Van Basten o alla Francia di Zidane.
La felice congiunzione è, per ora, solo spagnola. Cultura e voglia di vincere con armi identiche rimpallano dai club alla Nazionale e viceversa: i risultati fanno il resto, non c’è prozac migliore che vincere, passano così in secondo piano rivalità ben più radicate e accese che da noi.
Se la Spagna vince Europei e Mondiali perché i suoi club vincono competizioni europee e mondiali, ieri il Barca, oggi il Real, forse domani ancora il Barça, il problema è ricacciare indietro i loro club. La Germania sta seguendo lo stesso modello, con meno soldi per via del rigore e dell’autogestione dei club, con tanta tensione morale ma senza gioia né fantasia e finora hanno perso tutto e malamente.
Noi dovremmo almeno riavvicinarci alla linea di meta. Dimentichiamo il triplete dell’Inter, non se ne dispiacciano i cugini di fede: è stato certamente un balsamo per il loro cuore ma ininfluente e addirittura fuorviante per il calcio italiano: è marchio internazionale, con reparto ricerca e sviluppo de-localizzato a Setúbal, di giovani spendibili in Nazionale ci ha dato Ranocchia. Milan e Juventus sono messe pure peggio: non vincono e non tengono banco in Europa da otto anni, un’eternità.
Ho l’impressione che anche quest’anno si sia ancora molto indietro. Qualcuno ha voluto vedere in Italia-Spagna la prefigurazione di un Juve-Barcellona di Champions. Che Dio ci salvi. Proprio la difesa di ferro del campionato ha mostrato falle. Mentre quelli, gli altri, hanno tirato fuori non si sa da dove un giovane sconosciuto che è alto una gnappa, ha le gambe storte, ci ha fatto a fette ed è già candidato a essere il migliore del mondo nel suo ruolo. Si chiama Jordi Alba. Tragica per noi. Radiosa per loro.
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