Nuove rotte pr il greggio

La salvezza contro la guerra nel Golfo è l'emirato di Fujairah

Daniele Raineri

A questo punto, dopo che domenica sono entrate in vigore le nuove sanzioni dell’America e dell’Unione europea contro l’Iran, è tutta questione di mosse e contromosse. Prima quelle americane. L’Amministrazione Obama aumenta la presenza della Us Navy nel Golfo Persico, come deterrente nel caso l’Iran voglia provare a chiudere lo Stretto di Hormuz e anche per disporre di più bombardieri – e più vicini agli obiettivi – se ci fosse la necessità di colpire in profondità nel territorio di Teheran.

    A questo punto, dopo che domenica sono entrate in vigore le nuove sanzioni dell’America e dell’Unione europea contro l’Iran, è tutta questione di mosse e contromosse. Prima quelle americane. L’Amministrazione Obama aumenta la presenza della Us Navy nel Golfo Persico, come deterrente nel caso l’Iran voglia provare a chiudere lo Stretto di Hormuz e anche per disporre di più bombardieri – e più vicini agli obiettivi – se ci fosse la necessità di colpire in profondità nel territorio di Teheran. Un funzionario della Difesa (del tipo anonimo, ma che parla volentieri e al momento giusto con il quotidiano preferito dalla Casa Bianca) dice al New York Times: “Il messaggio all’Iran è: non pensateci nemmeno. Non pensate di chiudere lo Stretto di Hormuz. Lo ripuliremo dalle vostre mine. Non pensate neanche di mandare le vostre imbarcazioni veloci contro le nostre navi o contro i mercantili. Le manderemo sul fondo del Golfo”.

    La marina americana raddoppia anche il numero delle navi specializzate nello sminamento in zona, portandolo a otto, “è una mossa puramente difensiva”. In movimento c’è pure la Ponce: vecchia nave da guerra con quarant’anni di servizio, nel 2012 ne era prevista la rottamazione. Invece a fine gennaio, quando l’Iran ha cominciato di nuovo a minacciare la chiusura dello Stretto, l’Amministrazione ha ordinato che la Ponce fosse trasformata in una base galleggiante, capace di ospitare truppe, un ospedale, elicotteri e soprattutto squadre delle Forze speciali e di funzionare come “nave madre” per altre di dimensioni minori. Con tutti gli ovvi vantaggi rispetto a una base navale fissa sulla costa: non deve essere ospitata da un paese alleato nell’area e si può avvicinare ancora di più alle acque territoriali dell’Iran.
    Il messaggio dell’Amministrazione è attentamente modulato, scrive il New York Times: deve essere abbastanza minaccioso da essere preso in considerazione dal governo dell’Iran, ma non deve sembrare un atto di guerra; deve rassicurare l’alleato Israele sulla fermezza di Washington, ma non deve apparire come un semaforo verde per uno strike aereo contro i siti dove Teheran lavora al suo programma atomico.

    A questo spiegamento di forze si contrappongono le mosse dell’Iran: da lunedì  è in corso un’esercitazione delle Guardie rivoluzionarie che simula il bombardamento di basi aeree nemiche. Nel presentare le manovre, le Guardie della rivoluzione hanno citato un solo paese: la Turchia. E’ un avvertimento per Ankara, che la settimana scorsa ha violato con un aereo militare – abbattuto poco lontano dalla costa – lo spazio aereo della Siria. Cento parlamentari iraniani hanno presentato ieri una proposta di legge per vietare il passaggio di petroliere di stati che aderiscono alle sanzioni nello Stretto di Hormuz, il collo di bottiglia nel Golfo Persico attraverso cui transita un terzo del traffico di petrolio mondiale. La minaccia iraniana sullo Stretto si ripete ogni anno almeno dal 1980, quest’anno è stata già fatta a gennaio. Il risultato di esercitazioni e della proposta di legge? Il prezzo del greggio per la prima volta in tre settimane ha superato i cento dollari al barile, perché è sempre sensibile alla tensione. Agli iraniani l’aumento del prezzo conviene decisamente, perché se vendono meno per colpa dell’embargo, il prezzo più alto li compensa in parte delle perdite. Guerra e greggio.

    Tra le altre contromosse dell’Iran: sta facendo incetta di milioni di tonnellate di grano sui mercati internazionali per calmare i prezzi del cibo sul mercato interno e disinnescare il pericolo reale di sommosse di piazza.
    Per aggirare le nuove sanzioni, il governo di Teheran sta cambiando il nome e la bandiera delle superpetroliere, in modo che sembrino di altre nazionalità. La Haraz è diventata Freedom, la Nasa è stata ribattezzata Truth, la Sima ora è Blossom. Almeno un terzo della flotta di petroliere appartenente all’operatore di stato Ntic (National Iranian Tanker Company) ora è stato registrato di nuovo in Tanzania e nell’atollo pacifico di Tuvalu, dopo avere provato inutilmente con le bandiere di Malta e di Cipro. Senza un nome registrato e una bandiera, le navi non potrebbero accedere ai porti stranieri.

    Caitlin Talmadge è una ricercatrice del Massachusetts Institute of Technology e per il John M. Olin Institute for Strategic Studies alla Harvard University. Ha studiato le chance degli iraniani di chiudere con efficacia lo Stretto al passaggio delle petroliere altrui, grazie ai missili disposti sulla costa, alle mine, ai sottomarini e alla navi militari, compresi gli sciami di imbarcazioni veloci, usati secondo tattiche non convenzionali (per esempio le mine galleggianti sarebbero messe in acqua da pescherecci). L’Iran si addestra da anni allo scopo, ispirato dalla cosiddetta guerra delle petroliere negli anni Ottanta contro l’Iraq.

    Incrociando il tempo necessario agli americani a ripulire le acque dalle mine con quello necessario a eliminare le altre minacce, Talmadge ottiene un risultato variabile compreso tra i 37 e i 100 giorni. E’ vero che l’America è superiore militarmente e può contare sull’alleanza dei paesi del Golfo, che negli ultimi anni hanno aggiornato le armi comprando proprio da Washington, e che l’Iran non può chiudere il Golfo per sempre. Ma il risultato di Talmadge è troppo alto, il traffico petrolifero dal Golfo non può essere bloccato così a lungo senza gravi ripercussioni. Per questo si studiano freneticamente soluzioni e passaggi alternativi.
    L’Arabia Saudita ha appena rispolverato l’Ipsa, il vecchio oleodotto di proprietà degli iracheni che negli anni Ottanta portava il petrolio di Saddam e dei sauditi verso il Mar Rosso, dalla parte opposta della penisola saudita rispetto al Golfo Persico, proprio per evitare gli iraniani al varco di Hormuz. Era usato per trasportare gas, ma negli ultimi quattro mesi i sauditi lo hanno riconvertito con discrezione al greggio.

    Oltre lo stretto di Hormuz, dove la costa della penisola araba si affaccia ormai sul golfo dell’Oman e più in là vede l’oceano Indiano, c’è il piccolo emirato di Fujairah. Fa parte degli Emirati arabi uniti e diventerà cruciale. E’ diventato il punto d’arrivo di una nuova pipeline che taglia il becco di terra che costringe le petroliere a infilarsi nello stretto e spunta dall’altra parte della costa, a Fujairah appunto. Niente Stretto, niente necessità di transitare a Hormuz e passare davanti alle batterie di missili iraniani. Le petroliere possono caricare direttamente nel porto del piccolo emirato, senza infilarsi nel budello. L’oleodotto di Fujairah inizierà a lavorare a pieno ritmo da agosto e sta diventando la mossa semplice e a sorpresa che può disinnescare in parte la minaccia più che trentennale che arriva da Teheran. Le capacità del piccolo emirato di conservare e trattare greggio e di caricare petroliere al largo è già seconda soltanto a Singapore e aumenterà ancora. Da scalo regionale sta per diventare uno snodo della logistica mondiale. Una seconda Hormuz, soltanto spostata più in là, più al sicuro.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)