Le cose notevoli che accadono al nord e che la Lega non intercetta più

Cristina Giudici

“Per andare dove dobbiamo andare, dove dobbiamo andare?”, chiedeva Totò al vigile milanese. Il paradosso di Bobo Maroni, eletto all’unanimità e con qualche amarezza di troppo segretario della Lega, somiglia molto a quello di Totò. Scusi, dov’è il nord? Cioè la difficoltà di rimettere insieme i cocci della Lega in un momento che – in teoria – dovrebbe favorirla perché fra rigore montiano e crisi economica, crescono la pulsioni da secessione fiscale degli imprenditori, tutti col passaporto in mano per spostarsi più a nord oltre le Alpi, o più a est verso la Serbia o la Slovenia.

    “Per andare dove dobbiamo andare, dove dobbiamo andare?”, chiedeva Totò al vigile milanese. Il paradosso di Bobo Maroni, eletto all’unanimità e con qualche amarezza di troppo segretario della Lega, somiglia molto a quello di Totò. Scusi, dov’è il nord? Cioè la difficoltà di rimettere insieme i cocci della Lega in un momento che – in teoria – dovrebbe favorirla perché fra rigore montiano e crisi economica, crescono la pulsioni da secessione fiscale degli imprenditori, tutti col passaporto in mano per spostarsi più a nord oltre le Alpi, o più a est verso la Serbia o la Slovenia. E invece non può più, per ora, capitalizzare il disagio delle regioni settentrionali. La verità l’ha detta un delegato al congresso federale di Assago: “Se ora chiedo i voti alla gente, mi ridono in faccia”.

    Eppure, l’elenco di tutte le cose notevoli che stanno accadendo al nord e che la Lega 2.0 di Maroni non è più in grado di intercettare è lungo. Aumentano ad esempio i comuni del Veneto (pure saldamente in mano alla Lega) che hanno smesso di credere che qualcuno possa difendere i loro interessi e indicono referendum per staccarsi e trovare rifugio nelle regioni a statuto speciale. Nel frattempo la tanto agognata “Europa dei popoli” sognata dalla Lega si materializza (ma solo sulla carta) in un accordo di area comune sottoscritto la settimana scorsa a San Gallo in Svizzera da molte regioni e province dell’arco alpino – italiane, austriache, tedesche e francesi – che verrà creata non contro, ma con il benestare dell’Unione europea, e comunque con una spinta molto relativa del sacro vento leghista. Infine, a fare da corollario agli imprenditori che se la battono per manifesta sfiducia nel federalismo che non verrà, c’è il flop della giornata di protesta contro l’Imu, indetta dalla Lega quando oramai tutti gli italiani avevano già ricevuto il modulo della prima tranche dei pagamenti e i sindaci più pragmatici, come lo stesso Flavio Tosi, avevano già scontato l’impossibilità di una rivolta fiscale. C’è molto scetticismo verso chi incarna oggi il simbolo fallimentare del federalismo mancato.

    Insomma sul futuro della Lega 2.0 pesa l’ombra del lato oscuro della questione settentrionale. Ora infatti il tema centrale del dibattito è il seguente: “Chi può salvare il nord anche da se stesso?”. Se lo chiedono in molti, imprenditori, politologi. Come Angelo Panebianco, che ieri sul Corriere rifletteva sul bivio leghista tra “Po e Baviera”, o come Ilvo Diamanti, che pur suggerendo su Repubblica di non affrettarsi a celebrare i funerali della Lega “sola contro tutti”, ha però anche sottolineato che nell’epoca Monti le differenze geografiche, e dunque la tensione tra le varie anime del paese, si affievoliscono perché sott’acqua è finita l’Italia intera, risucchiata dalla crisi europea. Così, anche se non si può dimenticare che la questione settentrionale era entrata nell’agenda politica nazionale grazie all’irruenza rozza ma efficace del Bossi prima maniera, fino ad ora il Carroccio non è stato capace di affrontarla se non ricorrendo a fuochi artificiali con effetti speciali. Il nuovo segretario federale, lui che non è mai stato un secessionista convinto, al congresso che gli ha affidato il partito ha detto che la Padania è il nord, sinonimo della questione settentrionale, lasciando intravvedere un cambio di linguaggio volto a riacciuffare quella questione settentrionale che sembra ora procedere per la sua strada, senza troppo badare alle parole d’ordine leghiste. E se Flavio Tosi ha dribblato il mito della Padania perduta, limitandosi a citare un nord federalista, prima che la nuova generazione si assesti ci vorrà tempo. Nel suo discorso di insediamento Maroni ha usato toni forti per ribadire l’obiettivo di diventare “sindacato del nord”, annunciando addirittura un ritiro da Roma per concentrarsi nuovamente sul radicamento territoriale. Ma il suo tentativo può risultare tardivo, e poco credibile. O forse è solo consapevole che alle prossime elezioni la Lega dovrà chinare la testa per dire finalmente, come molti già fanno da tempo: “Scusate il ritardo”.