Perché Marchionne ora si atteggia a investitore estero in Italia
Sergio Marchionne, stavolta, sembra in buona compagnia. Lui minaccia, in occasione del lancio della 500 L che da ieri esce dagli impianti nuovi di zecca di Kragujevac, Serbia, di chiudere “almeno una fabbrica su quattro” in Italia per fronteggiare il crollo del mercato europeo. Ma lo stesso, in questi mesi, ha fatto General Motors, decisa a ridimensionare Opel. A Parigi, l’affaire Peugeot minaccia di essere la prima vera grana per il governo socialista: è a grave rischio l’impianto di Aulnay, tremila operai che producono la C3.
Sergio Marchionne, stavolta, sembra in buona compagnia. Lui minaccia, in occasione del lancio della 500 L che da ieri esce dagli impianti nuovi di zecca di Kragujevac, Serbia, di chiudere “almeno una fabbrica su quattro” in Italia per fronteggiare il crollo del mercato europeo. Ma lo stesso, in questi mesi, ha fatto General Motors, decisa a ridimensionare Opel. A Parigi, l’affaire Peugeot minaccia di essere la prima vera grana per il governo socialista: è a grave rischio l’impianto di Aulnay, tremila operai che producono la C3. E potrebbe non finire qui. Marchionne, però, non ci crede. “Finora – risponde ai giornalisti dal palco – ho solo sentito chiacchiere”. E forse non li leggerà per un po’. Ieri i ministri di Hollande sono scesi in campo: niente prime à la caisse (cioè la rottamazione), che Renault vede come il fumo negli occhi, ma una robusta iniezione di capitali da investire in ricerca e sviluppo per “l’auto del futuro”. Se andrà così, sarà una nuova brutta notizia per Fiat, che i soldi per “l’auto del futuro” se li è dovuti cercare a Washington, ricevendo anche qualche no. E che deve far fronte, con il solo sostegno di Renault, al pressing della panzer armata tedesca che cerca di imporre a Bruxelles un regolamento sulle emissioni di CO2 che favorisca le ammiraglie di Bmw e Mercedes rispetto alle piccole italiane e francesi. Inutile dire che, in questa cornice, la proposta Fiat di far pilotare alla Ue un piano per ridurre la capacità produttiva dell’industria dell’Europa (40 stabilimenti su 100 producono troppo poco per fare utili) è destinata al fallimento: i tedeschi non ci sentono, i francesi non sembrano ancora pronti. Certo, la situazione di Peugeot, che ha bruciato almeno un miliardo nella prima parte del 2012 per inseguire una domanda che non c’è, è assai difficile. E i Peugeot, la dinastia dell’auto che più assomiglia a casa Agnelli, hanno ben poca voglia di impegnarsi in un nuovo aumento di capitale. Facile, dicono gli esperti, che ci penserà Gm, decisa a costruire in Europa un polo in grado di contrastare Volkswagen impegnata nella conquista del primato. E se le cose andassero così, Fiat rischierebbe di trovarsi in mezzo a due giganti, pronti a darsi battaglia a suon di sconti. “Il vero problema – nota l’ad di Fiat – non sono i volumi, ma i prezzi. A questi livelli si produce, ma non si guadagna”.
Messa così, sembra una situazione senza via d’uscita: il mercato italiano, il più depresso d’Europa, viaggia su 1,4 milioni di veicoli, giusto un milione di pezzi in meno del 2007, quando Marchionne vestiva agli occhi della Cgil i panni del padrone illuminato. E’ il numero peggiore dal 1979, data che Marchionne evoca più volte. E che nella storia Fiat ha un sapore particolare: anche allora l’azienda sembrava condannata. Poi saltò fuori la Uno di Vittorio Ghidella e, nel frattempo, Cesare Romiti si impegnava a riportare un po’ di “tranquillità industriale” negli impianti Fiat. Altri tempi, prima della globalizzazione. Ma, mica per caso il tema della “tranquillità industriale”, nel giorno in cui la Fiat depone il suo ricorso contro la sentenza romana che impone l’assunzione di 145 operai Fiom a Pomigliano, è tornato d’attualità. Con una differenza: Marchionne, in questo caso, dismette i panni dell’ad di Fiat per indossare quelli del ceo di Chrysler. La casa di Detroit, sottolinea con evidente piacere il manager che continua a raccogliere allori oltre Oceano (l’ultimo gliel’ha attribuito Barron’s, il settimanale più autorevole di Wall Street), sta bruciando le tappe: presto, assieme a un utile operativo di almeno 3 miliardi di dollari, verrà raggiunto il tetto dei 2,8 milioni di vetture vendute in giro per il mondo, obiettivo che era previsto per il 2014. Ma c’è un problema: nonostante negli impianti americani siano passati ai tre turni, le fabbriche Chrysler in Usa, Canada e Messico presto non ce la faranno più. Allora, spiega Marchionne l’americano, sarà il caso di bussare alla porta del fratello depresso, il Marchionne italiano, le cui fabbriche sono ferme da un bel po’. Ieri il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha detto al governo: “Invece di inseguire i comportamenti di Fiat, bisogna creare le condizioni per un produttore di auto già affermato. Anche un giapponese va bene”. Difficile però che un’altra Casa esiga molto meno di quanto chiede Marchionne.
Le condizioni del Regno Unito
Ma attenzione: il ceo che sta a Birmingham, sobborgo di Detroit, non ha alcuna intenzione di fare sconti all’ad che sempre più di rado fa tappa nella foresteria torinese di casa Fiat. Se volete le commesse Usa, tuona Marchionne rivolto a sindacati, magistrati e politici italiani, dovete fornire le giuste garanzie. Non è questione di prezzi, anche perché Fiat sta accelerando sulla strada che porta al cento per cento di Chrysler, meta che sarà raggiunta “senz’altro prima del 2016”. Semmai, è questione di “tranquillità industriale”. Ovvero, gli impianti Fiat devono garantire le forniture richieste dal cliente Chrysler nei tempi che lui chiede. Come capita in giro per il mondo, compresa la civile Europa che si è messa a correre al ritmo degli emergenti. “Che cosa intendo per flessibilità – si domanda Marchionne – Non è mica un segreto. Basta leggere il contratto che le Unions inglesi hanno stipulato con Gm per l’impianto di Ellesmere: 51 settimane di lavoro all’anno, tre turni su cinque giorni, più il sabato, obbligatorio, su richiesta dell’azienda”. Il tutto, per giunta, a fronte di un premio salariale pari all’1 per cento della paga precedente. E’ una medicina amara ma non c’è alternativa “perché nessuno si illuda che a pagare il conto sia Fiat. Io lavoro per un progetto positivo, ma con un mercato di questo tipo, alla Fiat non occorre almeno uno stabilimento su quattro”. Mirafiori? “Non dico nulla. Non me la sento di fare promesse o di avanzare progetti”. Ma di suscitare suggestioni, quello sì. Non a caso, a fine presentazione della 500 L, appare per pochi secondi un prototipo di lamiera luccicante: la 500 X, il Suv a sette porte che potrebbe veder la luce a Mirafiori a fine 2013. Nessuna promessa, ma qualche illusione sì. C’è da fidarsi? Il fatto che in platea non ci fosse John Elkann (quando mai l’Avvocato ha disertato un evento del genere?) non depone per il lieto fine.
Il Foglio sportivo - in corpore sano