Nato il 5 luglio
Stato della Virginia, nei mesi di crescente tensione che precedono la Guerra di secessione, gli stessi che molti lettori conoscono per “Via col vento” o “Ritorno a Cold Mountain”. Un crocicchio di persone si è radunato ad ascoltare il comizio di uno dei propri rappresentanti al Parlamento. L’uomo parla con chiarezza e nobiltà di modi, ma qualcuno dalla folla sghignazza e gli grida di non tralasciare tra i suoi meriti quello di avere come amante una ragazza mulatta.
Stato della Virginia, nei mesi di crescente tensione che precedono la Guerra di secessione, gli stessi che molti lettori conoscono per “Via col vento” o “Ritorno a Cold Mountain”. Un crocicchio di persone si è radunato ad ascoltare il comizio di uno dei propri rappresentanti al Parlamento. L’uomo parla con chiarezza e nobiltà di modi, ma qualcuno dalla folla sghignazza e gli grida di non tralasciare tra i suoi meriti quello di avere come amante una ragazza mulatta. L’oratore si arresta di colpo e “lasciò cadere la mano lungo il fianco, l’altra se la mise sul petto. Mosse avanti e sollevò la testa: ‘Amici miei, si è alluso alla mia vita privata. Sarebbe altrettanto ignobile ch’io schivassi tale allusione quant’è stato ignobile che il mio concittadino la lanciasse’. Il suo sguardo sorvolò blandamente la folla. ‘Io sono un uomo’. disse. ‘Mi auguro che tutti i presenti siano uomini anch’essi’. s’interruppe, fissò severamente nel vuoto. ‘Non ho intrapreso questa competizione, signori, spacciandomi per un castrato’”. Allora la folla rifluì come un’ondata tuonando la propria approvazione, per poi afferrare l’anonimo accusatore che fu immobilizzato da due uomini, uno dei quali gli martellava la testa nuda d’una gragnuola di scapaccioni. Lo trascinarono alla fontana. E mentre costui e le sue allusioni finivano a bagno, un vecchio seduto lì vicino sintetizzava borbottando il giudizio di tutti gli altri: ‘Questa io la chiamo politica di femmine e nient’altro.
Perdinci, sarebbe bella che si vedesse gli uomini regolarsi nel voto a seconda che il candidato s’impiccia o no con le donne. Perdinci, sarebbe bella davvero’, concluse con enfasi”.
E’ questa una delle scene con cui Allen Tate, poeta e saggista americano del XX secolo, introdusse il mondo degli stati confederati al centro del suo unico romanzo, “I nostri padri”, un vero e proprio Gattopardo d’America, nel quale l’autore ambiva a rappresentare in una vicenda particolare e concreta, le radici culturali e morali del proprio paese che riteneva messe a mortale pericolo nella contemporaneità.
Come scrisse di lui Frank Kermode, “ciò che la Guerra civile inglese significò per Eliot, quella americana significa per Tate: il momento in cui ebbe inizio il caos moderno, sebbene già proiettasse la sua ombra davanti a sé”. Nessun tradizionalismo estetizzante, però – in questo discostandosi assai dal corrispettivo italiano di Tomasi di Lampedusa: Tate è stato uno degli autori più letti e ascoltati del primo e secondo Dopoguerra americano, uno studioso di Rimbaud e Poe in costante dialogo tra mondi e concezioni assai diverse come quelle del poeta moderno per eccellenza T. S. Eliot, la cattolica Flannery O’ Connor, la tormentata sensibilità di Hart Crane, la raffinata cultura oxoniense di Lord David Cecil, e la sua “Ode ai Caduti Confederati” fu tradotta in italiano da Leone Traverso. In un saggio sul compito del poeta nel mondo contemporaneo egli si limitava a ribadire che “egli deve fare, anzitutto, ciò che ha sempre fatto: deve ricreare per il proprio tempo l’immagine dell’uomo, e diffondere i criteri, le misure con le quali gli altri uomini possano mettere alla prova quella immagine, e distinguere il falso dal vero”. Compito della vera grande arte è fondamentalmente “discriminare e difendere la differenza tra la comunicazione di massa che si propone il controllo degli uomini, e la conoscenza dell’uomo che la letteratura ci offre in vista di una partecipazione umana”.
Tanta parte della modernità sembra invece coalizzata a impedire proprio questo; certo, “non era la prima volta che l’uomo s’era trovato in guerra con se stesso”, tuttavia “quando René Descartes isolò il pensiero dall’essere totale dell’uomo, egli isolò l’uomo dalla natura includendo in essa natura la natura stessa dell’uomo; e divise l’uomo contro se stesso”. Se dal frutto di un certo modo di vivere si riconosce l’albero di un certo modo di pensare, riguardo alla concezione moderna di uomo “ciò che gli uomini potranno ricavare può vedersi oggi nel mondo occidentale, in una intollerabile crisi psichica che si esprime come crisi politica”, nello stordimento e nel “dramma senza intreccio dell’evasione”; Tate amava la frase del dottor Johnson per il quale “colui che fa se stesso una bestia si libera dal dolore di essere un uomo”: vi vedeva sintetizzate tante facili soluzioni proposte alla condizione umana, dal mero stordimento dei piaceri consumistici alla riduzione ideologica di qualsivoglia colore e bandiera. Tuttavia queste opzioni hanno sempre fiato corto, perché “l’uomo è una creatura che a lungo andare deve credere per poter conoscere, e conoscere per poter agire”, ed è sotto questa luce che Tate sottolineò già negli anni Cinquanta che malgrado tutto l’uomo “si ribellerà come ora si sta ribellando, in una impressionante varietà di disordini esistenziali, dappertutto nel mondo”. Questo perché “l’uomo può distruggere se stesso, ma non tollererà infine nulla di meno che la sua piena condizione umana”, ed è proprio a esprimere tale condizione che l’arte deve mirare, né più, né meno. Sottraendosi alla dilagante e ammuffita erudizione di tanta parte del cosiddetto mondo culturale “il poeta non deve dedicarsi alle specializzazioni illiberali che il secolo diciannovesimo ha generato abbondantemente nel mondo moderno: specializzazioni nelle quali i mezzi sono divorziati dai fini, le azioni dalla sensibilità, la materia dallo spirito, la società dall’individuo, la religione dall’azione morale, l’amore dalla concupiscenza, la poesia dal pensiero, la comunione dall’esperienza, e l’umanità nella comunità dagli uomini nella folla.
Non c’è letteralmente fine a questo elenco di dissociazioni, perché ancora non si vede fine alla frantumazione dello spirito occidentale”. Da poeta Tate invitava a fare attenzione alle immagini che comunemente vengono usate nelle nostre conversazioni su certi temi, perché “le analogie con le quali l’uomo concepisce la propria natura in momenti storici diversi hanno maggiore importanza della sua retorica politica”. Si fa un gran parlare della “spinta” che deve essere esercitata da un nuovo libro, dello “stimolo” e della “risposta” che deve suscitare nei lettori: Tate si limita a osservare che “questo non è il linguaggio degli uomini liberi, questo è il linguaggio degli schiavi”, un mondo di leve, bulloni, e forse fruste. A quella triade meccanicista egli si sente di opporre quella del fine, della scelta, e della discriminazione, ossia della capacità di decidere su cosa puntare nella propria scrittura, “poiché è per mezzo della discriminazione, attraverso la scelta, e verso uno scopo, che l’intelligenza generale agisce”. Tate era un conservatore e, dopo anni di travaglio, un cattolico, tuttavia egli aveva ben chiaro, come artista, il fatto che “occorre più di una dottrina, anche se questa dottrina sia vera. I poeti cattolici hanno perduto, assieme ai loro fratelli eretici, la capacità di prendere le mosse dalla cosa comune: hanno perduto il dono dell’esperienza concreta”. Molti scrittori sono ossessionati dal problema di quanto riescano a comunicare, ma per Tate “il dilemma sparisce se si comprende che la letteratura non ha mai comunicato, che essa non può comunicare” e che “la comunicazione che non è anche comunione è incompleta”. Col termine comunione qui non si intende niente di piamente sdolcinato, ma la mera partecipazione a “una comune esperienza”. Per questo in tanta produzione acclamata dalla critica e dai media “si può dir che qualcosa sia stato trasmesso o comunicato; nulla è stato condiviso in una nuova e illuminante densità di consapevolezza”, mentre invece la grande arte ha lo scopo di fornire al lettore qualcosa di molto più concreto, non dati, o giudizi sul mondo o sull’uomo, ma anzitutto “la ricorrente scoperta della comunione umana come esperienza, in un dato posto e in un dato tempo”, l’allargamento e l’approfondimento dei propri orizzonti attraverso la vicenda di qualcun altro.
Eliot diceva che il poeta deve sempre “purificare il dialetto della tribù”, così che le parole possano fare da sentinelle a che non si scivoli in una delle tante barbarie possibili. Un lavoro incessante, tanto più proficuo quanto più vincolato agli elementi concreti che circondano l’artista nella sua vita quotidiana, giacché, avrebbe scritto poi Tate “dai sensi provengono le metafore per il tramite delle quali conosciamo il mondo”; Tate, e Wendell Berry dopo di lui, condivideva il giudizio di Flannery O’ Connor secondo la quale, per vivere così come per scrivere, “qualche posto è sempre meglio di nessun posto” e “conoscere sé stessi è conoscere la propria regione. E’ anche conoscere il mondo ed è altresì, paradossalmente, una forma di esilio dal mondo. Il valore dello scrittore si perde, per sé e la sua terra, non appena cessa di considerarla come una parte di sé, e conoscere se stessi è, soprattutto, conoscere quello che manca. E’ misurare se stessi con la Verità, non il contrario”. Anche per Tate quanto più un’espressione artistica è concretamente locale, tanto più risulta davvero universale e perenne, tanto più anche uomini di luoghi e tempi diversi potranno leggervi e ritrovarvi il bagaglio delle proprie vicende, messe a fuoco. E questo era ciò cui ambiva con “I nostri padri”, romanzo in cui la Guerra di secessione per il critico Arthur Mizener “segna il terribile conflitto tra due modi di esistenza fondamentali e irriconciliabili, un conflitto che ha assillato l’esperienza americana, ma che ha sempre operato da che mondo è mondo”. Un’opera che anzitutto colpisce, come notava Janet Adam Smith, come “capolavoro di bellezza formale”, nella quale è possibile imbattersi in passagi come questo, capaci di rivaleggiare con Proust ed Henry James: “Certe volte quando credi di aver sonno e il sonno tarda, il tempo ti trapassa a precipizio, ed anni che non avvennero mai coprono un ciclo intero di vicende più complesso e convincente della durata in vita di tutti i nostri inizi senza compimento”.
Vi si racconta il dramma di una famiglia di grandi proprietari terrieri sudisti, sia nella “bonaccia precedente la violenza” che negli “appena due mesi sugli ottocentoquaranta che formano la durata media della vita umana secondo la Bibbia” nei quali si verificarono “un cumulo di disastri tale da arrecare alle nostre esistenze di quei cambiamenti che avrebbero richiesto un paio di generazioni”: i primi due mesi della Guerra di secessione, fin sulla soglia delle grandi battaglie e degli assedi, tragedie di cui si erano avute premonizioni in abbondanza, ma “i presagi son quei segnali di cose future che riconosciamo quando il futuro è ormai scivolato nel passato”, commenta amaro il narratore. La voce in prima persona è quella del vecchio Lacy Buchan, appena sedicenne allo scoppio delle ostilità, ma grazie ai suoi ricordi è tutto un mondo quello che incontriamo, il cosmo morale, psicologico e politico degli stati del sud, che ambiva a essere, con le sue maniere, l’amore per lo sport e la classica bellezza di Pope, Johnson, Cowper, “il legatario diretto della civiltà di Grecia e di Roma”, col rischio tipico di poter credere “che il proprio piccolo mondo contenesse la vita nella sua interezza” e “che Dio fosse un Virginiano che avesse creato il mondo a propria immagine e somiglianza”: un mondo strutturato “secondo un rigido ordinamento in cui tutto significava qualcosa, e sul cui significato si era d’accordo ormai da un pezzo”, da una parte “le nostre consuetudini e soddisfazioni domestiche erano altrettanto impersonali della Marina degli Stati Uniti, e l’opinione diffusa oggidì, che l’uomo possa vivere appartato dall’ordine politico, che anzi le uniche soddisfazioni umane e onorevoli debbano conquistarsi a dispetto dell’ordine pubblico, avrebbe sbalordito gli uomini di allora come una remota chimera, impossibile a realizzarsi”; dall’altra questo non portava a una semplicistica sovrapposizione del pubblico e del privato, cosa di cui si sarebbe accorto bene l’incauto moralista nella fontana citata prima: “Tutti gli uomini dabbene sapevano cose fosse l’onore ed erano in grado di riconoscere la dignità; ma nessuno sapeva che cosa fosse la natura umana o poteva arrogarsi l’arbitrio di distribuire la giustizia ai suoi simili”. Un mondo di grande educazione, in cui “le donne non correvano mai” e “coprivano un brevissimo tratto per volta, come fanno gli uccelli”, ma nel quale si racconta ancora sorridendo come la vecchia zia, “i cui occhi non riuscivano a concentrartisi addosso, e la cui testa scattava su a casaccio, come quella di un pollo che sosta vigilante nel suo razzolare”, avesse punito a dovere il marito beone: “Gli fece lo sgambetto manovrando un attizzatoio con la sua mano medesima, e mentre il suo consorte giaceva a terra inebetito, lo cucì frammezzo ai lenzuoli, quindi lo restituì alla ragione a suon di nerbate”.
Un’epoca in cui ai funerali non si piange, ma si commenta gravi e solenni che “la morte è invero la separatrice”, e nel quale è possibile corteggiare la propria prima ragazza con tutta “la timidezza degli adolescenti, un rituale di prudenza, di pudore stavo per dire, a cui i giovanissimi aderiscono con maggiore meticolosità che non gli adulti”. Tutto ciò Tate lo presenta visibilmente incarnato nella figura del maggiore Buchan, il padre – appunto – del protagonista; un perfetto gentiluomo del sud, vestito di nero, i capelli lunghi e i candidi baffi spioventi, la cui autorevolezza induce Lacy a pensare che “neanche Dio si sarebbe permesso troppa familiarità con mio padre”. Un uomo convinto della rigida gerarchia, eppure che “poggia la mano sul vecchio servo negro durante il funerale della moglie”, il quale è orgoglioso di poter pregare “al fianco del babbo e come di lui di fronte alla stanza ma leggermente girato verso i servi, quasi fosse il suo diacono designato a rappresentare gli interessi divini della propria razza”. Un aristocratico, il maggiore Buchan, che alle prime avvisaglie non condivide affatto il facile entusiasmo dei giovani che hanno finalmente una guerra tutta per loro e dà un immediato comando a tutta la famiglia riunita: “Si ripeta la preghiera del Padre Nostro”. Il “Gattopardo” di Lampedusa si apre a sua volta con degli aristocratici assieme a pregare il rosario, ma si tratta di una pia devozione per le donne, e di un mero rituale domestico sopportato con ironico distacco dagli uomini. Qui no, la tradizione è sentita viva e vera, capace di tener testa alla tempesta che avanza, alla confusione dei tempi presenti per cui si può cogliere nell’incertezza di un conoscente la lacerazione che corre per il paese, e persino casa per casa: “E’ incerto sull’uniforme da indossare”. Nel “Gattopardo” si vedono contrapposti il principe di Salina e il nipote Tancredi, che si fa garibaldino nella ormai celebre consapevolezza che “se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”, ne “I nostri padri” troviamo invece il maggiore Buchan e il genero George Posey, “un uomo senza ambiente e senza radici”, coraggioso, generoso e affascinante, “pieno d’energia e d’immaginazione e, come diceva il cugino John, doveva mantenersi perennemente in moto: ma per andar dove?”.
Questa la drammatica novità introdotta dal mondo moderno, la sostituzione dei mezzi ai fini, l’assenza di una autentica direzione, una esuberanza che cerca di celare la propria ultima segreta insicurezza. Ai tempi del maggiore Buchan si poteva guadare in faccia il buio della notte, la sospensione di tutte le attività, persino la sua inevitabile paura senza doverla scacciare col rumore e lo stordimento, la si poteva persino assaporare, perché se ne capiva il significato: “Oggi nessuno, a distanza di cinquant’anni da questi avvenimenti, può udire la notte; nessuno ambisce ad udirla. Per udire la notte, e anelarne l’arrivo, bisogna possedere nell’intimo della propria essenza segreta una vasta metafora che regoli tutto il resto: una convinzione del male insito nella natura dell’uomo, e la necessità di fronteggiare quel male il cui simbolo è il buio, la cui immagine vivente, ancora, è l’uomo solo. Adesso che gli uomini non sanno esser soli, non possono reggere al buio”. Per Tate col mondo che è seguito alla Guerra di Secessione è andato smarrito più di quanto sia stato guadagnato, ma non perduto, e anche questo segna un netto contrasto con l’aristocratico scetticismo di Tomasi di Lampedusa; il “Gattopardo” termina con la salma impagliata del cane dei principi di Salina che viene gettato via, in una sorta di grottesta parodia dello stemma familiare. L’Italia moderna e unita ha fatto piazza pulita di tutto un mondo ridotto, appunto, a un cadavere imbalsamato.
Il romanzo di Tate, dopo aver raccontato l’apporto tragico della figura di Posey nella vita di Lacy, si chiude come un altro grande affresco sui mondi spirituali in conflitto nell’America di oggi, “Non è un paese per vecchi” di Cormac MacCarthy, che a sua volta parebbe concludersi nella tragedia e nella sconfitta. Ma lo sceriffo di MacCarthy sogna il proprio padre sceriffo che lo precede in mezzo alla tormenta stringendo un corno che brillava col candore luminoso della luna, una fiaccola di purezza e verità; il romanzo di Tate aveva visto il protagonista sognare il proprio nonno che continua a camminare con lui, la notte rischiarata “dall’argento scintillante delle fibbie alle scarpe, delle fibbie ai ginocchi, della fibbia al cappello, simile a una canzone”. Un semplice stemma non può che ingiallire, ma i padri possono parlare ancora, se li ascoltiamo. Gesti come quelli con cui il maggiore Buchan fronteggerà la violenza e il sopruso si imprimeranno nella memoria di Lacy, così come le gesta di tanti altri che continueranno a parlargli anche dalla terra in cui sono sepolti.
Per questo per Tate “lo stato è la mera operazione della società, ma la cultura è il modo con cui una società vive, il mezzo materiale attraverso cui gli uomini ricevono la sola verità perduta che deve essere perpetuamente rinnovata”, la canzone che è capace di sostenere l’incerto cammino umano, ben al di là di quanto l’uomo stesso sappia esprimere con un discorso astratto, ma che può sempre veicolare con una storia di coraggio e dignità. Il protagonista di Tate ce lo aveva detto fin dalle prime pagine: “Una storia da raccontare ce l’ho, ma non posso spiegarla”.
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