Arrivano gli occupy Pd

Claudio Cerasa

Con Monti e contro Monti. Con Krugman e contro Krugman. Con l’aspirina e contro l’aspirina. Con l’Europa e contro l’Europa. Con la Bce e contro la Bce. Con i tecnici e contro i tecnici. E così via. A otto mesi esatti dalla nascita del governo Monti, all’interno dei due principali schieramenti che lo scorso novembre hanno accettato la sfida dell’esecutivo dei professori da un po’ di tempo a questa parte si sta manifestando un fenomeno – in parte schizofrenico e in parte forse naturale – che appare sempre con maggiore frequenza fra le trame quotidiane delle dinamiche parlamentari.

    Con Monti e contro Monti. Con Krugman e contro Krugman. Con l’aspirina e contro l’aspirina. Con l’Europa e contro l’Europa. Con la Bce e contro la Bce. Con i tecnici e contro i tecnici. E così via. A otto mesi esatti dalla nascita del governo Monti, all’interno dei due principali schieramenti che lo scorso novembre hanno accettato la sfida dell’esecutivo dei professori da un po’ di tempo a questa parte si sta manifestando un fenomeno – in parte schizofrenico e in parte forse naturale – che appare sempre con maggiore frequenza fra le trame quotidiane delle dinamiche parlamentari. Il fenomeno in questione riguarda in modo speculare tanto il Pd quanto il Pdl, ed è un fenomeno che, seppur con sfumature diverse, ha avuto l’effetto di dividere il partito di Pier Luigi Bersani e quello di Angelino Alfano in due fronti che in modo sbrigativo potremmo definire così: il fronte di chi appoggia Monti in modo deciso e convinto e considera il professore il vero faro del riformismo; e il fronte di chi invece sostiene il governo con molti sbuffi, molti se e molti ma, e che giorno dopo giorno rivendica con sempre maggiore forza una propria autonomia, e a volte una propria estraneità, dallo stesso governo cui però il proprio partito rinnova periodicamente la fiducia. Nel centrodestra, il fenomeno dell’anti montismo viene declinato in modo talmente caotico ed estemporaneo che spesso anche l’osservatore più paziente e ben disposto non può non sospettare che nell’atteggiamento parzialmente ostile riservato al professore ci sia, più che un preciso e spregiudicato disegno politico, semplicemente un banale ragionamento legato al tentativo disperato di intercettare un piccolo spicchio di elettorato disilluso dalle performance del governo tecnico. Nel centrosinistra invece, nonostante il Pd sia alleato fedele di Monti, il fenomeno dell’anti montismo a poco a poco si sta strutturando come una genuina e tutt’altro che estemporanea corrente di pensiero: una corrente che si sta affermando tra i principali quadri dirigenti del partito e che giorno dopo giorno dà l’impressione di essere il vero volto di lotta di questo strano e irresistibile Pd di governo. I protagonisti e gli animatori di questa corrente di pensiero – che da mesi si sta impegnando per offrire al Pd la possibilità di intercettare il magma incandescente dell’anti montismo, anche per non delegare questo compito a nessuna sciagurata e famigerata lista civica – sono alcuni smaliziati ragazzoni post-comunisti che da un anno a questa parte hanno creato in tutta Italia una buona rete di contatti con le principali arterie rosse del Pd, e che da mesi ormai si sono affermati nel dibattito pubblico attraverso le dichiarazioni, le interviste, le esternazioni, le iniziative, le manifestazioni e le provocazioni dei vari Matteo Orfini (responsabile Cultura), Stefano Fassina (responsabile Economia), Andrea Orlando (responsabile Giustizia), Gianni Cuperlo (capo del centro studi Pd), Nico Stumpo (responsabile Organizzazione), Stefano Bonacini (segretario regionale dell’Emilia Romagna), Katiuscia Marini (governatore dell’Umbria) e naturalmente Enrico Rossi (governatore della Toscana).

    Fino a qualche tempo fa, le posizioni dei cosiddetti “giovani turchi” venivano monitorate da alcuni dei più anziani tra i compagni di scuola del Pd con la stessa freddezza, e la stessa diffidenza, con cui gli studenti più maturi generalmente osservano gli scolaretti appena sbarcati nel terribile mondo delle matricole liceali. Mese dopo mese, però, i “turchi” sono riusciti a ritagliarsi uno spazio importante nell’inner circle bersaniano, e nonostante le apparenze e nonostante il montismo coatto che il Pd è stato costretto ad ingoiare in questa fase finale della Seconda repubblica, nelle prossime settimane gli Orfini, i Fassina e compagnia rischiano di diventare sempre di più pedine chiave all’interno della campagna elettorale del segretario del Pd: specie poi se Bersani continuerà a mettere al centro della sua corsa alla premiership l’idea – già esplicitata tra l’altro nel 2009 quando si candidò alla guida del partito – di prendere le distanze da “una finanza sempre più spregiudicata”, di riscrivere “il grande patto nazionale tra capitalismo e democrazia”, di combattere “quel pensiero unico neoliberista che ha influenzato anche tanti riformisti” e di disegnare insomma il Pd sul modello delle (non troppo montiane) nuove socialdemocrazie europee.
    Negli ultimi tempi, in realtà, Pier Luigi Bersani ha scelto di marcare una certa distanza rispetto a questi sinistri giovanotti del Pd in seguito alla possibilità evocata proprio da Fassina, Orfini e compagnia di staccare la spina al governo e convocare le elezioni in autunno (“allarme”, se così si può chiamare, rientrato definitivamente la scorsa settimana quando i “turchi”, seppur a denti stretti, hanno riconosciuto il successo europeo di Monti e hanno garantito il proprio appoggio al governo per tutta la durata della legislatura, anche se parlare di “appoggio” rischia di essere persino improprio dato che il fronte di lotta del Pd è formato prevalentemente da esponenti del partito che riescono a farsi forza della propria “autonomia” anche grazie al fatto che molti degli stessi esponenti non siedono ancora in Parlamento).

    Ma al di là delle apparenze, e seppur nel Pd ci sia un fronte piuttosto nutrito di dirigenti che chiede a Bersani di sfruttare l’occasione dell’appoggio al governo Monti per far ritrovare al Pd il suo “vecchio slancio riformista”, la verità è che, a poco a poco, i turchi hanno consolidato le proprie posizioni in alcuni posti chiave del partito; hanno coinvolto nel proprio progetto sempre più personalità sul territorio; hanno permesso a Bersani di non perdere contatto con quello che poi è ancora il vero azionista di maggioranza del partito (la Cgil, e in parte la Fiom, con cui Orfini, Fassina, Orlando, Rossi, Stumpo, come è noto, hanno ottimi rapporti, al punto che i “turchi” sono tra i pochi dirigenti del Pd che non perdono occasione per dirsi “vicini” al sindacato ogni volta che il sindacato scende in piazza per manifestare contro lo stesso governo a cui il Pd però rinnova periodicamente la fiducia); hanno conquistato la benevolenza del segretario (Fassina, per dire, scrive e rivede ancora molti dei discorsi di politica economica pronunciati da Bersani); hanno contribuito a dare al Pd una certa immagine di “rinnovamento” (quando il segretario sostiene che il rinnovamento il Pd lo ha fatto, Bersani intende dire che già dall’inizio della sua esperienza alla guida del Pd ha riempito la segreteria di giovani come appunto Stefano Fassina, 46 anni, e Matteo Orfini, 38 anni); e alla fine dei conti, proprio come facevano un tempo le giovani matricole per affermare le proprie idee nei rispettivi licei di appartenenza, si può dire che, tra una cosa e un’altra, tra uno sciopero e un convegno, tra un’intervista e un’invettiva, tra una provocazione e una dichiarazione, hanno ormai di fatto silenziosamente occupato il Pd di Bersani. In particolare, Fassina e Orfini, che sono poi i due volti più esposti degli “Occupy Pd”, dopo aver per mesi contribuito a combattere con il segretario “il pensiero unico neoliberista”, hanno ora esplicitato le proprie posizioni in due saggi interessanti attraverso i quali emerge con chiarezza quello che è il vero universo di lotta del Pd di Bersani. Un universo in cui le stelle fisse sono rappresentate non solo dall’evocazione in chiave moderna del vecchio pensiero socialdemocratico; ma anche dalla declinazione di quelli che sono i tratti distintivi del Pd bersaniano: il no al liberismo sfrenato, il no all’Europa dell’austerity, il no ai principi del Lingotto, il no al populismo, il no alla personalizzazione della politica, il no alle intromissioni della Bce nella vita degli stati sovrani, il no alla distruzione dello stato sociale, il no allo smantellamento dei corpi intermedi, il no alla mediatizzazione della politica, il no alla regressione del mercato del lavoro, il no al blairismo, il no al clintonismo e il no più generico alle “follie” del mondo della finanza.

    In estrema sintesi, il succo del progetto politico formulato dai laburisti (ma anti blairiani) del Pd lo si potrebbe riassumere attraverso l’evocazione dei tre punti cardinali del progetto neo-socialdemocratico del Pd. Gli “Occupy Pd”, in primo luogo, sostengono che fino a oggi il più grave errore delle “cheerleader del liberismo” è stato quello di aver fatto credere che fosse possibile, attraverso il libero mercato, ridistribuire la ricchezza all’interno della piramide sociale e garantire così benessere e crescita diffusa non soltanto ai soliti e arricchiti ceti medio alti. “Durante gli anni del trionfo neo-liberista – scrive Fassina in “Il lavoro prima di tutto”, edizioni Donzelli – una parte della sinistra, la cosiddetta sinistra critica, si è arroccata e ha ripetuto in modo quasi ideologico formule inservibili, come, ad esempio, ‘più spesa pubblica uguale a più crescita e più occupazione’, indipendentemente dalla qualità della spesa, dalle condizioni della finanza pubblica, dalla situazione del sistema produttivo privato. L’altra parte della sinistra, i seguaci della Terza via, ha sofferto di subalternità al paradigma neo-conservatore e, quindi, nel momento in cui quel paradigma si dimostrava insostenibile, si è trovata sostanzialmente disorientata, senza risposte”.
    In secondo luogo, i ragazzi dell’Occupy Pd ritengono doveroso ricordare che la crisi finanziaria ha dimostrato, senza appello, che il collasso dell’economia mondiale è stato causato non dalle sregolatezze degli stati sovrani ma da un perverso e poco virtuoso meccanismo innescato in modo doloso dal mondo della finanza. “La convinzione che fosse sufficiente lasciare al mercato piena libertà per produrre crescita e sviluppo universali – scrive Orfini in “Con le nostre parole” (Editori riuniti) – è una tesi di indubbio fascino, che ha iniziato però a cozzare contro il principio di realtà quando proprio quegli stati che si sarebbero dovuti guardar bene dall’intervenire sono invece dovuti correre in soccorso di alcuni tra i principali colossi della finanza e dell’industria, per evitarne il fallimento. E non è un caso che proprio quelle istituzioni che avrebbero dovuto contenere l’incendio sono state tra i protagonisti della costruzione di un sistema in cui i profitti sono privatizzati e le perdite socializzate: un corto circuito paradossale, per cui il sistema finanziario finirà per guadagnare persino dalla sua stessa crisi, presentando il conto ai cittadini; per cui l’intervento pubblico diventa un confortevole e rassicurante paracadute per i teorici del non intervento; e per cui le istituzioni chiamate a gestire l’emergenza vengono sopportate solo il tempo necessario a impedire la catastrofe, per essere subito dopo riaccompagnate alla porta”.

    Il terzo elemento chiave del fronte socialdemocratico del Pd – elemento che, come i primi due, costituisce anch’esso uno dei fuochi del Bersani pensiero – riguarda la critica feroce rivolta dagli Occupy Pd a tutti quegli “improbabili maître à penser” del liberismo che in tutti questi anni, in modo subdolo, si sono impegnati per convincere il mondo che fosse necessario privatizzare tutto, smantellare lo stato, sopprimere i corpi intermedi, abolire i sindacati e regalare di fatto la nostra intera esistenza al famoso libero mercato. “I grandi partiti – osserva Orfini, provando a spiegare quali sono stati i riflessi di questa “suicida” opera di “distruzione dello stato sociale” e svelando la ragione per cui il Pd bersaniano non riesce ad avere un rapporto sereno con le leadership carismatiche – hanno visto negata alla radice la propria funzione di interpreti, pur nell’interesse generale, di un punto di vista parziale e sono divenuti pesanti fardelli sulle spalle di leader sempre meno radicati nella società, ma sempre più legittimati nei salotti televisivi. Leader sempre più simili a star di Hollywood che di quei fardelli cercano di liberarsi, preferendo affidarsi a sempre più costose società di comunicazione. E così – continua Orfini – quei partiti che avevano attraversato il Novecento, forti di un robusto radicamento sociale, nel periodo del grande inverno liberista perdono più o meno volontariamente il rapporto diretto con la società: è l’epoca dei partiti leggeri, liquidi che privatizzano quel rapporto affidandone la gestione a sondaggisti di fiducia che forniscono sempre più sofisticate rappresentazioni di quella che dovrebbe essere la realtà, salvo poi dimostrarsi incapaci di leggere il cambiamento e di cogliere i fenomeni nuovi che si agitano nella pancia della società”.
    Attraverso l’utilizzo di queste lenti di ingrandimento, dunque, non può stupire se Bersani, insieme con gli Occupy Pd, considera il modello della leadership carismatica non solo il segnale di una pericolosa interpretazione populistica dell’intera vita politica ma anche lo specchio di una concezione del mondo che, dal suo punto di vista, rappresenta un modo masochistico di intendere la modernità. E così, seguendo questa logica, Renzi, Veltroni, Marchionne, Blair, Giavazzi, Alesina, Repubblica, il Corriere della Sera, Bankitalia, Clinton, Prodi, Ichino, Amato, Ciampi, Treu e così via, per una ragione o per un’altra, sono non tanto piccoli tasselli del grande pantheon del centrosinistra quanto, piuttosto, ingredienti di un veleno letale a cui il centrosinistra si è abbeverato per troppi anni. “I liberisti di sinistra – argomenta Fassina – hanno fallito nella loro opera, e in tutti questi anni, piuttosto che aprire una breccia nell’elettorato moderato, hanno semplicemente consegnato il paese agli avversari senza nemmeno provare a contrastare la loro egemonia”.

    A questo punto, naturalmente, il lettore più attento potrebbe chiedersi dove diavolo avranno mai visto Fassina e Orfini tutto questo liberismo sfrenato, “duro a morire”, che negli ultimi vent’anni avrebbe distrutto e contaminato tanto l’Italia quanto il resto dell’Europa. Niente paura: gli Occupy Pd hanno la loro risposta. Risposta numero uno: in Europa il liberismo matto e disperato si sarebbe cominciato a diffondere come un virus letale più o meno nel 2000, ai tempi della famosa “Agenda di Lisbona”, quando i vari Bill Clinton e Tony Blair (e gli altri seguaci della Terza via, compreso l’allora premier Massimo D’Alema) “riconobbero il primato dell’economia, lasciando alla politica il compito amministrativo di rimuovere gli argini sociali costruiti dopo la Seconda guerra mondiale e di attrezzare anche le fasce più deboli a partecipare al gioco, dando vita a un liberismo ad alta sensibilità sociale ma con un impianto culturale che assumeva il pieno dispiegamento del mercato interno come condizione non soltanto necessaria, ma sufficiente alla crescita” (Fassina).
    In Italia, invece, più di D’Alema, i ragazzi dell’Occupy Pd, in questo ancora una volta in perfetta sintonia con Bersani, considerano responsabili della “deriva liberista” imboccata dal nostro paese un “tecnico” d’antan cone Carlo Azeglio Ciampi e due vecchi totem del centrosinistra italiano: Romano Prodi e (seppur con meno responsabilità) Giuliano Amato.
    Ciampi, secondo questa lettura, nel 1993, durante la drammatica parentesi vissuta dall’Italia alla vigilia dell’entrata formale dell’Euro, avrebbe commesso gli stessi errori che sta commettendo oggi il presidente del Consiglio Mario Monti, e avrebbe in sostanza rafforzato “l’idea che le debolezze e le fragilità del centrosinistra potessero trovare consolidamento in un patto con l’establishment: un patto che fu poi la vera carta di identità di quelle esperienze di governo e un patto di cui il centrosinistra è rimasto prigioniero, anche, e non da ultimo, nell’immaginario collettivo degli italiani” (Orfini).
    Amato, invece, sostiene sempre Orfini, avrebbe commesso l’errore imperdonabile di sopravvalutare gli effetti benefici della globalizzazione e avrebbe dunque raccontato troppo a lungo “la favoletta dell’Italia che avrebbe potuto rialzarsi e camminare come Lazzaro soltanto se avesse seguito in modo coerente i sani principi del miglior liberismo”.

    Quanto a Prodi, invece, anche qui gli Occupy Pd dicono probabilmente quello che Bersani pensa e che per quieto vivere preferisce non dire a voce alta. Nella sostanza, Fassina e Orfini, dovendo riflettere sulle due esperienze del Professore alla guida del paese, da un lato condannano i governi caotici e pasticciati guidati da Prodi (che sarebbero stati incapaci di “rispondere con fermezza ai ricatti della sinistra radicale”); mentre dall’altro individuano in un momento particolare del primo governo prodiano un passaggio che fuori da ogni dubbio testimonierebbe la presenza evidente del virus liberista nel corpo malato del centrosinistra italiano. “Prodi – scrive Orfini – approvò il pacchetto di Tiziano Treu che fu la prima di una lunga serie di scelte che hanno prodotto un mercato del lavoro che offre una molteplicità di occasioni di sfruttamento senza alcuna forma di tutela”.
    Nelle analisi di Orfini e Fassina, poi, l’aspetto che più inorgoglisce le due guide della rivoluzione neo-socialdemocratica del Pd riguarda il fatto che sui temi legati alla politica economica oramai anche gli “zombie liberisti” hanno cominciato a riconoscere che l’unico modo convincente per uscire dalla crisi è far svoltare urgentemente a sinistra il malandato Vecchio continente. E così, gli Occupy Pd non perdono occasione per ricordare (a) il caso di Paul Krugman, liberal diventato ormai una sorta di paladino del buon pensiero economico anche per le “cheerleader del liberismo”; (b) il caso dell’ex numero uno della Fed, l’ultra liberista Alan Greenspan, che nel 2008 ammise di fronte alla commissione per la Vigilanza e le riforme istituzionali della Camera dei rappresentanti di aver trovato “un errore nella mia ideologia, un errore nel modello che io vedevo come la struttura operativa fondamentale che definisce come funziona il mondo”; (c) il caso degli ultra liberisti doc à la Martin Wolf, à la Wolfgang Munchau e à la John Kay, che hanno messo in discussione (per di più su uno dei vangeli del liberismo come il Financial Times) il pensiero neoliberista; (d) il caso della clamorosa ammissione fatta da una delle ultime eroiche enclavi del blairismo (il think-tank inglese Policy Network, guidato da uno degli ideologi del blairismo come Peter Mandelson) che in un paper del 2009, a proposito del “Future of Social Democracy in Britain”, ha ammesso che “la crisi in corso rappresenta un punto di svolta sul piano dell’ideologia” e nel contesto britannico “essa rappresenta per l’ortodossia neo-liberista che ha dominato il pensiero politico sia a destra che, in certa misura, a sinistra dal 1979, quello che ‘the Winter of Discontent’ risultò essere per la socialdemocrazia del dopoguerra”.
    Come sarà facile immaginare, l’ideologia degli Occupy Pd ha avuto e ha dei riflessi importanti anche nella quotidianità dei rapporti del Pd con il governo Monti. I turchi e tutti i loro numerosi seguaci apprezzano Monti per la sua autorevolezza e per la sua credibilità ma non possono in nessun modo rassegnarsi all’idea che quella del governo dei professori sia qualcosa in più di una piccola parentesi della storia della nostra Repubblica. E dunque, anche in questo caso, forse nessuno meglio dei turchi riesce ad esprimere al meglio ciò che il segretario pensa ma evidentemente non può dire sul governo guidato da Mario Monti.

    L’identità programmatica del Pd – scrive nel suo libro il responsabile economico del Pd, le cui posizioni, come ricordato spesso da Bersani, non sono posizioni singole o isolate ma “sono quelle deliberate dalle nostre assemblee” (Messaggero, 28 novembre 2011) – non può coincidere con il programma di un governo sostenuto da una forza politica radicalmente alternativa al Pd. E l’identità programmatica di una grande forza progressista non si può definire pienamente all’interno dei confini del paradigma liberale pur declinato nella versione illuminata dell’economia sociale di mercato”.
    Come ultimo mattoncino del castello ideologico costruito dai turchi attorno alla leadership del segretario vi è l’operazione forse più magistrale con cui i ragazzi dell’Occupy Pd hanno abbracciato nel loro progetto di governo la dottrina sociale della chiesa. Sintesi del ragionamento di Orfini e Fassina – ragionamento che, nella sua formulazione, dimostrerebbe che è proprio sui temi dell’economia che il Pd è riuscito a creare una sintesi tra le vecchie ideologie comuniste e democristiane – è che in questa fase storica non esiste al mondo alcun esempio migliore da seguire per combattere le “derive neoliberiste” delle posizioni della Chiesa sui temi di natura prettamente economica. “Nello smarrimento post-Lehman Brothers – scrive un ispirato Fassina – la chiesa di Benedetto XVI, sulla scia di un pensiero secolare, è stata un punto di riferimento. Ha messo a nudo le radici etiche, culturali e politiche dell’equilibrio saltato: l’individualismo utilitaristico e il primato dell’economia sulla politica. L’enciclica di Benedetto XVI – continua Fassina quasi a voler dimostrare non solo che il Papa è in sostanza di sinistra ma anche che la chiesa, per sua natura, in teoria, è ostile alla tecnocrazia – mette in guardia contro i pericoli dell’ideologia della tecnocrazia, ossia di quell’assolutizzazione della tecnica che tende a produrre un’incapacità di percepire ciò che non si spiega con la semplice materia e a minimizzare il valore delle scelte dell’individuo umano concreto che opera nel sistema economico-finanziario, riducendole a mere variabili tecniche”.
    Certo: i puristi del liberismo alla fine di questo articolo potranno anche ironizzare e darsi di gomito osservando le gesta di questi smaliziati ragazzoni post comunisti. Ma prima di sorridere e sghignazzare, bisogna fermarsi un attimo e guardare in faccia la realtà. E la realtà ci dice che sì, forse sostenere che il Partito democratico oggi è in mano agli Occupy Pd è dire un po’ troppo; ma di sicuro, al netto di questo transitorio montismo coatto, non è invece un errore dire che il modello di Pd sul quale Bersani salterà in groppa per provare ad arrivare primo nella corsa alla presidenza del Consiglio somiglia davvero poco al Pd sognato dai montiani, e somiglia invece sempre di più a quello costruito e descritto e immaginato da questi giovani “turchi” che, tra uno sciopero e un convegno, un’intervista e un’invettiva, una provocazione e una dichiarazione, silenziosamente hanno ormai di fatto occupato il Pd di Pier Luigi Bersani.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.