Fratelli coltelli

La pax egiziana tra islam e generali finisce sulla porta del Parlamento

Daniele Raineri

Due settimane fa, quando la Borsa egiziana ha riaperto, il giorno dopo l’annuncio che il candidato dei Fratelli musulmani era il vincitore delle elezioni presidenziali, l’indice generale delle quotazioni è decollato a razzo verso un sette per cento e prometteva bel tempo stabile: islamisti e generali avevano infine trovato un accordo politico, la coabitazione era possibile. Ieri, la Borsa è andata giù del quattro per cento, mentre tutto il paese si chiedeva se l’accordo c’è davvero o se ci si debba preparare a un lungo scontro politico senza esclusione di colpi.

    Due settimane fa, quando la Borsa egiziana ha riaperto, il giorno dopo l’annuncio che il candidato dei Fratelli musulmani era il vincitore delle elezioni presidenziali, l’indice generale delle quotazioni è decollato a razzo verso un sette per cento e prometteva bel tempo stabile: islamisti e generali avevano infine trovato un accordo politico, la coabitazione era possibile. Ieri, la Borsa è andata giù del quattro per cento, mentre tutto il paese si chiedeva se l’accordo c’è davvero o se ci si debba preparare a un lungo scontro politico senza esclusione di colpi. Colpa di quanto è accaduto domenica, quando il neo presidente egiziano, Mohammed Morsi, con un decreto ha annunciato che il Parlamento dichiarato sciolto dai generali è invece legittimo e riaprirà  presto, e di quanto accaduto ieri, quando la Corte costituzionale ha riconfermato la sua sentenza, in piena sfida al presidente: quell’assemblea è stata eletta in modo incostituzionale e va sciolta.

    La mossa di Morsi spiazza chi crede che i Fratelli si sarebbero concentrati da subito su un programma esplicitamente islamista, velo, alcol, costrizioni nel culto. La questione centrale è invece quella politica, è prendere quella grande parte di potere che ancora resta nelle mani dei militari. Per questo scopo la riapertura del Parlamento è il duello ideale: anche se la maggioranza uscita dalle elezioni dello scorso inverno è islamista (Fratelli musulmani più salafiti), suona indubbiamente come una battaglia libertaria, contro una Corte costituzionale che è troppo politicizzata per sembrare neutra (il capo, un oscuro giudice dei ranghi inferiori, fu portato alla massima carica tre anni fa dall’allora presidente Hosni Mubarak, con una decisione che oggi sembra preveggente).
    Ieri Morsi e il capo dei militari, il generale Hussein Tantawi, hanno partecipato assieme a una cerimonia in un’accademia militare, parlottando tranquilli uno di fianco all’altro. Morsi appariva di ottimo umore, davanti all’esibizione di karate dei cadetti.

    I generali, che domenica sera si sono riuniti d’urgenza, non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali fino a ieri sera, quando hanno detto che “tutti sono tenuti a rispettare le sentenze della Corte”. E’ come se preferissero parlare per interposta Corte costituzionale, che infatti nel pomeriggio di ieri ha confermato la propria sentenza, con un gesto plateale di controsfida. “La sentenza è vincolante”, hanno detto i giudici. Il corpo di guardia che impedisce ai parlamentari l’accesso all’edificio, poco distante da piazza Tahrir centro simbolico della ribellione, è stato dimezzato forse per non creare ulteriori tensioni e all’inviato del New York Times che chiedeva che istruzioni avesse ha risposto di non avere ricevuto l’ordine di bloccare qualsiasi tentativo da parte degli eletti di entrare. In teoria l’appuntamento è per giovedì a mezzogiorno.

    Secondo Reuters, i generali, che hanno riconsegnato il potere esecutivo nelle mani di Morsi lo scorso 30 giugno, non sapevano nulla della decisione di Morsi, e questo negherebbe la tesi proposta da alcuni di un accordo sottobanco tra islamisti ed esercito un grande piano onnicomprensivo di cui  è inutile tentare di capire qualcosa. E invece no, pare che non ci sia macchinazione, ma una dichiarazione d’ostilità.

    In piazza si sono riuniti un centinaio di sostenitori dei Fratelli, per manifestare a favore del presidente. I giovani del movimento che nel gennaio-febbraio 2011 ha guidato la rivolta si sono dichiarati d’accordo con il presidente, pur essendo d’ispirazione laica e libertaria – ma tanto il loro peso politico è quasi irrilevante. Una parte più importante dello spettro politico si è invece dichiarata contraria: il decreto presidenziale punta a travolgere una sentenza della Corte costituzionale, ed è un male maggiore rispetto alla concentrazione di potere nelle mani dei militari. Mohammed ElBaradei, ex candidato laico e di minoranza, ma che gode di un’aura internazionale, ha messo in guardia sul rischio che “il governo egiziano non sia più un governo della legge, ma degli uomini”.

    Al Cairo si insiste su un dato: i Fratelli non sono bravi a fare la rivoluzione, sono stati messi in disparte durante i giorni gloriosi della gioventù di Tahrir, ma sono bravi nella politica giorno per giorno e mese per mese, che richiede spregiudicatezza, tenacia e duttilità. Degli undici decreti presidenziali firmati da Morsi in queste due prime settimane, questo è già il secondo che arriva dritto sul muso dei generali, dopo quello che forma una commissione d’inchiesta sulle morti durante la rivoluzione.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)