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La legge elettorale serve, la prospettiva montiana di più

Salvatore Merlo

Giorgio Napolitano e i partiti, tutti, sanno che la riforma della legge elettorale, il superamento del cosiddetto porcellum, è la condizione perché nel 2013 possa continuare l’“agenda Monti”, forse con il professore ancora a Palazzo Chigi, o forse anche senza il professore (che ambienti del Pd vedrebbero bene nel ruolo di ministro dell’Economia con un premier politico). “Serve una diga che impedisca alla crisi dei partiti di entrare nello stato. Ci serve qualcosa che ci faccia assomigliare più alla Francia che alla Grecia”, dice Gaetano Quagliariello.

    Giorgio Napolitano e i partiti, tutti, sanno che la riforma della legge elettorale, il superamento del cosiddetto porcellum, è la condizione perché nel 2013 possa continuare l’“agenda Monti”, forse con il professore ancora a Palazzo Chigi, o forse anche senza il professore (che ambienti del Pd vedrebbero bene nel ruolo di ministro dell’Economia con un premier politico). “Serve una diga che impedisca alla crisi dei partiti di entrare nello stato. Ci serve qualcosa che ci faccia assomigliare più alla Francia che alla Grecia”, dice Gaetano Quagliariello. E il vicecapogruppo del Pdl in Senato intende dire che “la legge elettorale è uno degli strumenti che può impedire alla crisi della politica di tracimare nelle istituzioni”, cioè serve a predisporre un campo nel quale si possano giocare partite diverse, tra le quali non si può escludere quella di eventuali larghe intese. “Napolitano ha ragione”, dice Quagliariello, “a questo punto i partiti devono confrontarsi in Aula sulla legge elettorale. Se un accordo si tenta per mesi e non lo si trova, la fisiologia democratica impone che le forze politiche si assumano le loro responsabilità in Parlamento, di fronte l’opinione pubblica. L’intervento di Napolitano serve a evitare che invece di una grande coalizione tutto finisca in un grande scaricabarile”.

    Silvio Berlusconi sembra avere abbandonato la tentazione di lisciare per il verso giusto il pelo dell’antipolitica, con il no euro. “Quello non era e non è un programma, funziona solo come provocazione. Anche il dibattito intorno all’opportunità di sostenere o di dover mollare Monti non ha senso, la caduta di Monti non è un’opzione. E comunque non è nella nostra disponibilità”, dice Quagliariello, che rende l’idea di quanto le cose siano cambiate a casa del Cavaliere. “Il nostro partito può superare le sue difficoltà se ha l’ambizione di essere una forza di destra nazionale, e dunque non può prestarsi ad atti che possano pregiudicare la tenuta del paese. A una forza nazionale è interdetto tutto ciò che porta verso il disastro. Tuttavia, se siamo una forza di destra, questo governo noi lo dobbiamo anche incalzare, ovvero dobbiamo tirare Monti verso destra”. E che significa? “Dobbiamo evitare che sulla spending review accada quel che è accaduto sull’articolo 18. Ma bisogna andare all’attacco anche sul decreto Sviluppo e non mollare sulla Giustizia affinché prevalgano le posizioni di garantismo. Il Traffico di influenza, introdotto con il pacchetto anticorruzione, tocca i nostri principi non negoziabili. Se il governo ha un difetto, un limite, è nell’essere egemonizzabile dalla sinistra”. Forse sono più bravi di voi. “L’egemonia è materia loro”.

    L’orizzonte è una grande coalizione? “Non la si può escludere”, ma se diventa un programma, cioè se lo si stabilisce prima del voto, allora rischia di trasformarsi in quello che non è: una coalizione consociativa. Di grande coalizione si parla dopo le elezioni. Le condizioni perché si faccia sono due, il permanere di un pericolo per la nazione o l’emergere di risultati elettorali poco chiari”. Nel Pdl, i più, fino a ieri almeno, hanno sempre respinto l’idea di una grande coalizione. Renato Brunetta e Ignazio La Russa, per esempio, escludono questa ipotesi. Ma altri, come Franco Frattini, sono aperti sostenitori di “Tutti per l’Italia”: Udc, Pdl e Pd insieme intorno a Monti. “Ci sono due opposti estremismi”, dice Quagliariello, “il no a priori e il sì a priori. E sono entrambi sbagliati. Rimane tuttavia vero che non possiamo escludere dal nostro orizzonte la grande coalizione, altrimenti la fanno gli altri e noi diventiamo il partito dei cazzoni, come ha scritto il Foglio”. Berlusconi sarà il candidato premier? “Non lo so, sarà lui a deciderlo, ma certamente è ancora il punto di coagulo di tutte le anime della destra”. Guiderà il Pdl, o ci sarà un altro partito, con un altro nome? “Il marketing è l’ultima delle preoccupazioni. Abbiamo il massimo esperto mondiale di marketing elettorale”. Ma a lui l’acronimo Pdl non piace. “Marx direbbe che è sovrastruttura”. Dicono che a Berlusconi non dispiaccia nemmeno l’idea di una costituente. “E’ un bene che la destra partecipi alla scrittura di regole comuni. Essere ‘costituenti’ rappresenterebbe uno sbarramento al tentativo in atto di spacciare un Fronte popolare con ruota di scorta (Udc) per un’Union Sacrée. Io non rinuncio all’elezione diretta del presidente della Repubblica, e penso che in Senato si debba giungere al voto. Ma poi quel voto non andrebbe buttato e alla Camera potrebbe prendere corpo l’idea di una Costituente da eleggere nella stessa tornata del 2013. Noi potremmo affrontare quell’elezione imbracciando la bandiera del presidenzialismo”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.