Un'invettiva

Licenzia il pubblico

Umberto Silva

I superstipendi di tanti dirigenti e funzionari fanno torcere le budella, ma licenziare la base dei dipendenti pubblici può risultare ingiusto e sommario. Quello che va licenziato è il settore pubblico in toto, il torbido disegno che lo sostiene. Non ci sono rami secchi da tagliare e rami fiorenti da innaffiare, c’è un albero marcio da svellere fin dalle radici per farne carta su cui scrivere a lettere cubitali: “Mai più”.

    I superstipendi di tanti dirigenti e funzionari fanno torcere le budella, ma licenziare la base dei dipendenti pubblici può risultare ingiusto e sommario. Quello che va licenziato è il settore pubblico in toto, il torbido disegno che lo sostiene. Non ci sono rami secchi da tagliare e rami fiorenti da innaffiare, c’è un albero marcio da svellere fin dalle radici per farne carta su cui scrivere a lettere cubitali: “Mai più”. Non i suoi lavoratori quanto il pubblico è di per sé immorale e non può non esserlo, fondandosi su una concezione della società che toglie all’impresa per distribuire secondo una logica mortificante. Nel suo macabro delirio il comunismo storico credeva a quel che faceva ed era disposto a sacrificarsi anima e corpo; nel Dopoguerra il gioco è stato più subdolo: sì è condannato il comunismo ma si sono mantenute e ingigantite le nazionalizzazioni per favorire i partiti, i gruppi di potere e la propria cattiva coscienza travestendola da altruismo. Tutti i settori pubblici non sono che immensi apparati al servizio della corruzione, con capi e capetti nominati in base ad amicizie interessate o parentele nemmeno occulte. E’ la famigerata nomenclatura. I sindacati li sostengono per avere complici da usare contro il privato, dove la lotta è aperta e violenta. Ed è bene che lo sia, una durezza che forgia, si combatte per qualcosa, per un’idea e per il pane quotidiano. Ogni vittoria diventa una gioia, ogni sconfitta un dolore da cui trarre insegnamento. I dipendenti pubblici sono invece vittime compiacenti nel subire l’umiliazione della logica di lavoro in cui vivono. Non sono pagati da un padrone ma dallo stato, secondo criteri che i cittadini non conoscono e non gestiscono, e i criteri sono quelli via via inventati dai presidenti di regione, dai sindaci, dai governanti, dai parlamentari, che riescono a regalare consulenze e prebende e a pensionare amichetti a ventimila euro al mese. Delitti acquisiti. A lungo si è esaltato il pubblico come purezza rivoluzionaria, bene comune esentato dal profitto, quando invece è solo corruzione degli individui. Là dove non c’è libera impresa c’è morte, morte dell’anima; dove non c’è rischio c’è un avido raschiare il fondo del comune barile.

    Il neo sindaco di Genova ha coraggiosamente dichiarato di sentirsi solo, tutt’intorno a lui le macerie delle macerie perché una vera casa abitabile e senza topi non è mai stata costruita. Tocca ai lavoratori del pubblico ribellarsi e chiedere che le aziende siano loro vendute o affittate. Le aziende non devono esse mantenute dallo stato né allo stato devono devolvere i profitti se non come tutti, con quella tassazione che, riducendo al minimo la spesa pubblica, a sua volta diminuirà. Questo vale anche per le aziende fintamente indipendenti e in realtà a loro volta sovvenzionate dagli ignari cittadini. O le imprese funzionano o si chiudono; basta mantenute di stato, un harem di mogliettine legalizzate e santificate ma costose e nullafacenti; alle puttane matrimoniali sono preferibili quelle di strada, più veraci, che non nascondono il mestiere che fanno, vogliono il contante e lo contano, e strizzano l’occhio e te la danno senza tante storie, che quelle di rango sembra che ti diano la luna quando invece manco sanno scopare.

    Meglio un venditore ambulante che tante grandi industrie e banche che organizzano premi e feste di beneficenza solo per poterci spillare più denaro pretendendo onori e gloria e ringraziamenti. E come si pavoneggiano i Servitori dello stato (a milioni di euro all’anno) nel farci l’elemosina con i nostri soldi.
    Basta con lo stato canaglia, rivoluzione! Non quella comunista che un folle veggente come Antonin Artaud aveva perfettamente inteso nella sua essenza: “Una rivoluzione che pretende di conoscere già l’uomo, e lo imprigiona nel quadro delle sue necessità più grossolane”. Rivoluzionaria è l’impresa in cui ciascuno si avventura a suo rischio e pericolo, ignaro di quel che accadrà ma colmo di desiderio, di forza e di intima gioia. Scrive il più grande pittore dei nostri tempi, che da decenni incessantemente intraprende viaggi nell’ignoto, Gerhard Richter: “Può sembrare strano non sapere dove si stia andando, l’essersi persi, l’essere perdenti, ma rivela invece fede e ottimismo più grandi, assai più della sicurezza e del senso collettivo. Bisogna aver perso Dio per poter credere, e aver perso l’arte per poter dipingere”.