The (happy) end
Nel tentativo di riabilitare la terrificante figura della stalker in “Attrazione Fatale”, Glenn Close si suicidava tagliandosi la gola con un coltello, e la colonna sonora era “Con onor muore” (“Madama Butterfly”). Poi Michael Douglas veniva incriminato per omicidio. Ma il pubblico selezionato per il test screening del film si infuriò: forse terrorizzato dalla possibilità che un’amante occasionale decidesse di mettere a bollire conigli, voleva che Glenn Close morisse di più, cioè venisse ammazzata.
Nel tentativo di riabilitare la terrificante figura della stalker in “Attrazione Fatale”, Glenn Close si suicidava tagliandosi la gola con un coltello, e la colonna sonora era “Con onor muore” (“Madama Butterfly”). Poi Michael Douglas veniva incriminato per omicidio. Ma il pubblico selezionato per il test screening del film si infuriò: forse terrorizzato dalla possibilità che un’amante occasionale decidesse di mettere a bollire conigli, voleva che Glenn Close morisse di più, cioè venisse ammazzata: non si può, per due giorni di sesso, fare quelle telefonate terribili, comunicare di essere incinta, incidere nastri minacciosi, presentarsi a casa con un coltello, devastare la vita tranquilla di un uomo sposato e in più, dopo un onorevole suicidio, metterlo nei guai con la giustizia. Uomini e donne erano, per una volta, d’accordo: vendetta. Così Adrian Lyne dovette cambiare il finale e si inventò la vasca da bagno. Mai film funzionò tanto da deterrente per storie clandestine, ma aveva bisogno, come nelle tragedie greche, della catarsi (cioè il sollievo degli adulteri terrorizzati, che in silenzio giuravano a se stessi: domani la lascio). Una fine compassionevole verso la pazza pericolosa avrebbe probabilmente modificato la percezione dei successivi decenni di stalkeraggio, facendo credere che in fondo i persecutori sono solo degli infelici e non intendono fare del male. Per fortuna il pubblico di quella prima visione era pieno di scheletri nell’armadio.
La ricerca del finale perfetto ha devastato Ernest Hemingway, che disse di aver riscritto l’ultima pagina di “Addio alle armi” trentanove volte, e questa settimana in America esce una nuova edizione con, in realtà, quarantasette diversi finali, sempre molto cupi e con poche speranze (“Catherine morì e voi morirete e io morirò e ciò è tutto quello che posso promettervi”), tutti abbandonati in favore di un’uscita di scena silenziosa, sotto la pioggia. In quel caso era la scelta delle parole a ossessionare Hemingway (secondo lui, un aspirante scrittore dovrebbe uscire di casa e impiccarsi, dopo aver preso atto di quanto sia difficile scrivere bene. Poi, salvato da qualcuno privo di compassione, dovrebbe forzarsi a scrivere meglio che può, per tutta la vita. Ma almeno avrebbe la storia dell’impiccagione con cui incominciare), per altri autori invece è la cattiveria. Carlo Collodi, che aveva scritto Pinocchio a puntate, lo fece morire impiccato nella foresta. E basta: niente fatina, niente balena, niente bambino in carne e ossa. Un burattino di legno disubbidiente che penzola da un ramo, nient’altro. Poi Collodi si dovette arrendere al bisogno di salvezza. Del resto anche Charles Perrault, che detestava Cappuccetto Rosso, la faceva finire sbranata dal lupo, insieme alla nonna, e nessun guardiacaccia la salvava. Più che favole erano incubi, ammonizioni, inventate per creare nevrosi fin dai primi anni di vita. Ma il finale è così importante, così fondamentale per chi è entrato dentro la storia, che i libri interattivi, con finali diversi a seconda delle scelte del lettore, non potranno mai soddisfare il bisogno di un universo ordinato, finito, dove l’autore si assume la responsabilità della fine, buona o cattiva. Charles Dickens venne convinto a cambiare il finale di “Grandi Speranze”, regalando un po’ di gioia in più: Pip ed Estella che si prendono per mano. Ma l’infelicità che percorre tutto il romanzo non può venire scambiata con un semplice lieto fine. Come se Anna Karenina, alla fine, non si lanciasse sotto il treno.
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