
Il consenso è denaro
Le qualità politiche di Mitt Romney tendono spesso a scivolare fuori dal campo visivo degli osservatori; quello che non sfugge nemmeno ai più sonnolenti, invece, è il fatto che il candidato repubblicano è ricco. Molto ricco. Il suo patrimonio vale all’incirca 255 milioni di dollari (quello del presidente Obama fatica a superare i 12) e il suo passato di banchiere gli fornisce il know how per accrescere le sostanze e catalizzare investitori per la campagna elettorale.
Le qualità politiche di Mitt Romney tendono spesso a scivolare fuori dal campo visivo degli osservatori; quello che non sfugge nemmeno ai più sonnolenti, invece, è il fatto che il candidato repubblicano è ricco. Molto ricco. Il suo patrimonio vale all’incirca 255 milioni di dollari (quello del presidente Obama fatica a superare i 12) e il suo passato di banchiere gli fornisce il know how per accrescere le sostanze e catalizzare investitori per la campagna elettorale. Da campione del capitalismo all’americana qual è, il candidato repubblicano non si fa mancare fine settimana di fundraising agli Hamptons, scorribande sul motoscooter, cene fin troppo eleganti e ristrutturazioni faraoniche di magioni californiane. Pare che nella sua casa a La Jolla, sobborgo assai perbene di San Diego, abbia fatto scavare un parcheggio sotterraneo in stile Batman dove le macchine vengono elevate in superficie alla bisogna. In armonia con la percezione dell’opulenza di Romney, negli ultimi giorni sta rimbalzando ovunque la notizia che lo sfidante è in vantaggio su Obama nella raccolta fondi: per due mesi consecutivi Romney ha incamerato più soldi del presidente, con un aumento progressivo della forbice. A maggio Romney e il Partito repubblicano hanno raccolto diciassette milioni in più degli avversari; a giugno il gap è arrivato a 35 milioni, con Romney che ha intascato 106 milioni, Obama soltanto 71. La tendenza si è definitivamente invertita? Romney ha trovato la pietra filosofale di queste elezioni? Calma. I dati dell’autorità che regola i finanziamenti elettorali, la Fec, dicono che alla fine di maggio Romney aveva in tasca 121 milioni, Obama 255. Questo senza contare i SuperPac, i comitati che raccolgono fondi illimitati da investire in campagne politiche non esplicitamente connesse a questo o quel candidato (anche se poi le connessioni le vedono anche i bambini).
Con l’ottima performance di giugno lo sfidante ha rosicchiato qualcosa e se riuscisse a consolidare il trend potrebbe anche avvicinarsi alla potenza economico-elettorale del presidente. Ma nel travagliato rapporto fra capitale e politica, fra pecunia e voti, le semplici somme non sono tutto. Romney, per esempio, spende circa il 25 per cento dei fondi che raccoglie per organizzare altre raccolte di fondi. Obama ne spende il 5 per cento. La differenza dipende anche dal diverso modo di raccogliere soldi: il bacino naturale di Romney, manager elitario per indole e formazione, è quello dei grandi gruppi industriali, della finanza e delle lobby, mentre la forza di Obama (che pure non è estraneo alla “big money”, s’intende) consiste nel canalizzare un enorme numero di piccole donazioni, che hanno il doppio beneficio di creare contatti in modo capillare e di avere basse spese di gestione. I dati storici, poi, dicono che a vincere è spesso il candidato che ha saputo crearsi una base finanziaria rocciosa, non chi ha superato l’avversario nello sprint degli ultimi mesi (come ha fatto Kerry nel 2004, ad esempio).
Se l’esperienza politica americana ha saputo consolidare nel tempo un certo modo d’intendere il rapporto fra soldi e politica, l’Italia è un altro pianeta; eppure la fluidità del momento politico potrebbe introdurre fattori di cambiamento. Ugo Sposetti, deputato del Pd e storico tesoriere dei Ds, parlando con il Foglio mette a fuoco due punti “americani” sui quali lavorare: “Primo, le piccole donazioni. Abbiamo già lanciato una campagna per le piccole donazioni ed è stato un ottimo esperimento, nel senso che abbiamo coperto le spese dell’operazione e anche ricavato qualcosa. Secondo: i contributi delle fondazioni. E’ fondamentale creare una strategia per fare in modo che le fondazioni che sono legate alla nostra storia diventino soggetti che sostengono la politica. Io ho già pronto un progetto che partirà da settembre”. In America il rapporto fra le fondazioni e i partiti è minuziosamente regolato dalle leggi e dalle consuetudini, in Italia si tratta di trovare una strada credibile, anche senza cene agli Hamptons.


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