Non scoparmi, non ho campo
Ritratto di Giuditta detta Judy. 26 anni, bella, occhi verdi, castana, formosa, sexy, alta, arrogante, benestante, venditrice, a tempo perso, di orologi da polso molto vintage, lettrice di riviste patinate, con una passione per le Porsche Carrera spyder. Judy possiede un BlackBerry completo: chiamate telefoniche normali, messaggini, Internet, Facebook, YouTube, Twitter, chat con il mondo, webcamera, foto e cineriprese. Lei è on line anche di notte. E’, come si dice, in “continuous connection”.
Ritratto di Giuditta detta Judy. 26 anni, bella, occhi verdi, castana, formosa, sexy, alta, arrogante, benestante, venditrice, a tempo perso, di orologi da polso molto vintage, lettrice di riviste patinate, con una passione per le Porsche Carrera spyder.
Judy possiede un BlackBerry completo: chiamate telefoniche normali, messaggini, Internet, Facebook, YouTube, Twitter, chat con il mondo, webcamera, foto e cineriprese. Lei è on line anche di notte. E’, come si dice, in “continuous connection”. Passa più tempo al telefonino che a dormire. Al mattino apre gli occhi solo per guardare i messaggini e risponde mentre la cameriera le porta il caffè. Vive nel cyberspace, ha lo smartphone incorporato nella mano destra, si muove in un “ambito internettiano”, direbbe uno psicologo, che “la distacca dalla realtà”. Insomma è una drogata da telefonino, la sua cocaina elettronica.
Judy manda in media 4.000 messaggi al mese e altrettanti ne riceve, la sua vita è il BlackBerry e non può più farne a meno. Ma sarebbe lo stesso se possedesse un iPhone o un Samsung o un Nokia della stessa categoria e completezza.
Judy ha un fidanzato, anzi un amante, di 55 anni, Gerardo, che lei chiama Gerry, un finanziere molto ricco, con barca e villa in un’isola famosa. Lui è tanto possessivo quanto lei è gelida, distaccata ma attaccata al telefonino. Gerry ama portare Judy sullo yacht ma si scoccia molto per il continuo blackberreggiare, parlare, chattare con amici e amiche, escludendolo dalla sua vita. Lui le parla e lei, con l’apparecchio in mano, muove le dita sulla tastiera, risponde, ride da sola, non lo ascolta e beve distrattamente un po’ di champagne dalla flûte mentre il sole tramonta dietro Ischia. Alle domande di Gerry non risponde quasi mai e gli fa cenno di aspettare. Nemmeno al momento della cena, coi marinai in giacca bianca che servono spaghetti al pomodoro di Pachino, Judy abbandona l’infernale telefonino. Chatta con la destra e mangia con la sinistra. E la pasta si raffredda.
Gerry si sente solo, ma ha pazienza, aspetta che scenda la sera. Col drink in mano si accuccia accanto a lei sul divano, la bacia sul collo. Ma suona il telefonino. “Ti chiamo io, ora sono impegnata”, dice. E lui: “Ma chi è che ci rompe le scatole a quest’ora?”. “Nessuno, una mia amica, Lucrezia”. “Ma quante amiche hai? Ogni giorno ce n’è una nuova”. “E’ una simpatica, l’ho conosciuta su Facebook”.
Arriva la notte: baci, pochi, abbracci così così, sesso si fa per dire. Perché il telefonino vibra, si illumina e lei, preoccupata, allunga il collo verso i messaggini. “Scusa Gerry, fammi vedere chi mi sta cercando”. L’uomo è eccitato, la sta per penetrare, ma lei, nuda, con le gambe divaricate e il gran seno abbronzato e luccicante di crema, accarezza il BlackBerry e risponde a chissà chi.
Questo è quel che mi ha raccontato Gerry al bar dell’Hassler. Ma la storia non finisce qui, anche perché io voglio sapere, sono molto curioso.
Lui, trattato da mesi in questo modo, non ne può più. Ama la ragazza, le ha regalato una Porsche, l’ha portata dovunque. E in tutti i posti c’era il BlackBerry con annessi e connessi. Il tempo con Judy gli passa davanti mentre lei chatta e gli accarezza il sesso, ormai spento come un telefonino inerte. Finalmente si riprende ma, dopo pochi attimi, la donna si accorge che il telefono è scarico, non vibra più e il display non dà lampi di luce. “Scusa Gerry, vado a cercare la batteria”. E fruga nella grande borsa di Roger Vivier abbandonata su una poltrona. Judy mette in carica il telefonino e si rilassa un po’: ma per poco.
Ricominciano le vibrazioni e le risposte. Gerry non ne può più, strappa il BlackBerry dalle mani dell’amante e si avvia verso il ponte dello yacht.
Lei lo insegue: “Dammelo, non fare lo stronzo. Ma che cazzo fai?”. L’uomo è quasi giunto a poppa. Il mare è calmo. La luna occhieggia fra le nubi. Gerry sente Judy venirgli addosso, lei cerca di strappargli l’apparecchio dalle mani, lo graffia. Lui resiste. E lancia l’odiato BlackBerry in mezzo alle onde.
Un attimo e la vita elettronica di Judy scompare, finisce sul fondo, insieme ai segreti, ai mille volti di Facebook, agli indirizzi, ai messaggini, ai tweet, a Google, ai siti di orologi e di fashion, a Dagospia, alle canzoni preferite, alle clips, alle foto ricordo sue e degli altri.
Beviamo un Singapore Sling e io sono sempre più interessato a questa vicenda. “Dimmi, cosa è successo dopo?”, chiedo all’amico. Furente, Judy si lancia contro Jerry: “Sei uno stronzo, un fottuto stronzo”. Cerca di picchiarlo. Gli sputa in faccia. Gli morsica un braccio. Ma Gerry se ne va, la lascia nella sua disperazione e torna in cabina. E’ felice. Si è liberato da un incubo. Svegliato dal rumore un marinaio si avvicina alla ragazza sdraiata sul ponte. “Io dormo qui”, dice lei, “mi dia una coperta”. Mancano quasi otto ore al porto più vicino. L’amante ha deciso di sbarcare la signora Blackberry. E si addormenta. Lei invece non ce la fa. Non riesce a stare senza telefonino, ha una forte crisi di astinenza. Il cielo sembra il display di un cellulare e lei lo guarda sperando che vibri, che si accenda. Ma l’unica luce che arriva è quella, prima lenta e poi forte e rossa, dell’alba.
Sulla barca c’è un gran silenzio. Arriva il profumo del caffè. Alle otto Gerry è sul ponte, molto rilassato. Lei: “Io vado a fare la valigia, scendo a Porto Rotondo e parto da Olbia col primo volo per Milano. Non posso più stare qui”. Lui: “Fa’ pure, la nostra storia è finita. Comunque eccoti duemila euro per il taxi, il biglietto aereo e un nuovo Blackberry”.
Così finisce questa. Ma è una delle tante che ho sentito nel mondo delle vittime degli addicted da cellulare. I maniaci del telefonino sono una nuova specie umana, diffusa in tutto il mondo, anche in Africa e nelle isole Fiji. Per strada è tutto un chattare e un telefonare. E così nei ristoranti, nel lounge, negli ospedali, sui luoghi di lavoro, in treno, sulle barche, ai bar più lussuosi o a quelli meno raccomandabili. Night and day, i fanatici non smettono mai. Ho visto le stesse scene a Roma e a New York, a Londra e a Parigi, a Shanghai e a Rio de Janeiro. I volti di questi drogati si assomigliano tutti: facce tese, occhi concentrati sull’apparecchio, dita delle mani in gran movimento. Più il consumatore di cellulare è giovane e più le mani si muovono in fretta, a una ipervelocità, inimmaginabile fino a poco tempo fa.
Nel 2008, quando Barack Obama fu eletto, gli iPhone non erano stati ancora messi in commercio. E ora hanno invaso l’universo. A Londra, città multilingue, si sente per strada un babelico ronzio in tutti gli idiomi del mondo. Sono uomini e donne che si trovano a loro agio sulla terra finché il telefonino funziona. Guai se la pila si scaricasse. Infatti la spina del cellulare è la principale preoccupazione di chi parte, di chi arriva in un posto, di chi sale sulla barca, pur piccola, degli amici per navigare. Nei party, anche i più chic, si è ormai rassegnati ai chat people. In molti posti si proibisce il dialogo al telefono.
Fidanzati e fidanzate, mogli e mariti schiacciano e rispondono, ciascuno con la loro vita in mano. La gelosia da cellulare è molto diffusa. I tradimenti via telefonino non si contano. Su Facebook si fanno conquiste, senza più misteri o blind date, visto che le facce e i corpi dei protagonisti sono in bella mostra.
Gli avvocati matrimonialisti sanno quanto sia pericoloso il cellulare, quante storie siano finite per una dimenticanza, un temporaneo abbandono dell’apparecchio finito in preda al partner. Chi prende un telefonino aperto, non suo, si impossessa della vita di un altro. Leggere sul BlackBerry le e-mail, i tweet, i messaggini, è scoprire un linguaggio nuovo, essenziale, elementare ma a volte difficile da interpretare per chi non è abituato al gioco sadico e moderno delle abbreviazioni . I “cell addict” pensano, scrivono e parlano tagliando e cucendo. Quelli che raccontano al telefono sussurrano al filo, visto che sono collegati attraverso gli auricolari. Per strada mi piace captare le conversazioni, a volte le trascrivo.
Ragazza in chiesa a Bologna. “Sono a messa: pissipissi after”. Donna piacente di origine russa su una poltrona del Grand Hotel di Rimini: “Non capisco tue parole. Mamma male e tu pensi solo amore”. Ragazzino davanti a una scuola media a Pavia. “Mamma, ma dove cazzo sei che ti cerco da un’ora?”. Adolescente in t-shirt e short colorati in via del Corso a Roma: “Sai che te dico? Ma vaffanculo”. Cuoco al mercato del pesce di Cesenatico: “Se ti dico che le triglie non ci sono non ci sono”. Sacerdote in piazza San Pietro a Roma: “Hai fatto le analisi? E cosa aspetti? Speriamo in Dio”. Trentenne in Largo Cordusio a Milano: “Mamma lascia perdere i Bot”. Commercialista in attesa all’Agenzia delle entrate di Como: “Non se ne può più. Comunque rispondi alle e-mail. Non fare l’imbranato”. Bella jogger sul lungomare di Rimini: “Mandagli un messaggio e digli che è un cornuto”. Medico in corsia al Gemelli di Roma: “Butta la pasta, fra 20 minuti esatti”. Poliziotta davanti all’Arena di Verona: “Mi ci vuole un chilo di Maalox per digerire tutto sto casino”. Rossa coi tacchi a spillo all’Excelsior di Venezia: “Che noia ieri sera. Ma tu te lo sei fatto?”. Escort in piazza San Lorenzo in Lucina a Roma: “Ma hai visto che caldo? Va bene dalle nove e mezza alle undici”.
Dietro a ciascuna di queste frasi c’è una storia, un mondo coperto da un velo che il telefonino ha stracciato. Le gente per strada e altrove parla in libertà, rivela, ma anche disturba, soprattutto sui treni, dove non c’è ormai più niente di segreto. L’addiction da cellulare porta all’indifferenza totale nei confronti del prossimo. Sono gli effetti della mobile technology. Per strada quelli col telefonino ti urtano, vanno dritti, guardano avanti e non si preoccupano di nulla. A volte capita che finiscano nei guai, investiti da un’auto per un attraversamento poco attento.
Io ho deciso di usare il telefonino il meno possibile e ho fatto bene. Mi ero intossicato, dormivo poco, avevo disturbi alle articolazioni della mano sinistra, l’orecchio era tutto un prurito. Ora va molto meglio e tutto è andato a posto.
Da quando ho smesso di rispondere o di fare messaggini mi sento un’altra persona. Mi sono disintossicato a poco a poco. L’ho fatto da solo. Ma negli Stati Uniti la mania è diventata, come ha dimostrato una splendida inchiesta sull’ultimo numero di Newsweek, una malattia sociale curata dagli psichiatri. La copertina del settimanale americano mostra un giovane schizzato e fibrillante. Titolo: “iCRAZY”. Sommario: “Panic. Depression. Psychosis. How connection addiction is rewiring our brains”. E adesso che ci siamo detti tutto vorrei tornare a Judy.
L’ho vista in giro per via Montenapoleone, guardava le vetrine e chattava. Poi è entrata da Cova, si è seduta a un tavolo e telefonava. Poi, mentre beveva una spremuta, si è messa ad ascoltare musica dall’auricolare: batteva il tempo leggermente, col piede. Aspettava qualcuno. Era impaziente. Si è aperta la porta del caffè. Ed è apparso lui, Gerry. In quell’istante lei ha spento il telefonino e lo ha lasciato precipitare nella borsa di Roger Vivier.
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