Legge per chi ha “di bisogno”

Il Cav. è il porcellum ma i porcellini sono (quasi) tutti de sinistra

Salvatore Merlo

“Come diceva Churchill, un politico guarda alle prossime elezioni mentre uno statista guarda alle prossime generazioni… Ragazzi, mi raccomando, noi facciamo i politici”. Così Lorenzo Cesa, il numero due di Pier Ferdinando Casini, ha fatto sorridere tutti gli astanti e ha demistificato, ancora prima che iniziasse, una di quelle tante riunioni che in questi giorni corrono un po’ a vuoto sulla riforma della legge elettorale. Solo Beppe Grillo, con il candore sgrammaticato del neofita, qualche giorno fa ha detto quello che pensano in tanti (ma che nessuno dice).

    “Come diceva Churchill, un politico guarda alle prossime elezioni mentre uno statista guarda alle prossime generazioni… Ragazzi, mi raccomando, noi facciamo i politici”. Così Lorenzo Cesa, il numero due di Pier Ferdinando Casini, ha fatto sorridere tutti gli astanti e ha demistificato, ancora prima che iniziasse, una di quelle tante riunioni che in questi giorni corrono un po’ a vuoto sulla riforma della legge elettorale. Solo Beppe Grillo, con il candore sgrammaticato del neofita, qualche giorno fa ha detto quello che pensano in tanti (ma che nessuno dice): lui preferisce tenersi il porcellum, la legge porcata scritta da Roberto Calderoli, quella votata a maggioranza dal centrodestra, criticatissima, ma in realtà accettata con elusiva complicità anche dal centrosinistra. Il 24 marzo del 2007 un fotografo della Reuters scattò una celebre sequenza: Piero Fassino, seduto a Montecitorio accanto a Silvio Berlusconi che prende appunti. Sul foglio si legge: “Fassino. No preferenze”, cioè i Ds preferivano continuare a scegliersi i parlamentari, mentre sul Corriere della Sera, quello stesso giorno, quello stesso Fassino, dichiarava di voler “restituire agli elettori il diritto di scegliere gli eletti”.

    Né Pier Luigi Bersani né Antonio Di Pietro né Nichi Vendola né Romano Prodi né il club dei milionari di Libertà e Giustizia, e nemmeno quei dirigenti del Pdl che a stento riceverebbero il voto della madre confesseranno mai di essere peccatori, cioè di desiderare nel profondo dell’animo che l’immondo porcellum, il male dei mali, quell’orrore democratico di legge elettorale universalmente condannato, e invece segretamente desiderato, sopravviva ai tentativi di riforma che in queste ore impegnano forse più il Quirinale che il Parlamento. D’altra parte il peccato appartiene tutto a Berlusconi, lui il porcellum l’ha concepito per sé e ne ha tratto per due volte vantaggio con la vittoria mutilata di Prodi nel 2006 e con il trionfo alle urne del 2008. E dunque si condanna il peccato, e il suo diabolico artefice, ma contemporaneamente si vorrebbe tutti, e disperatamente, essere peccatori. Vorrebbero poter peccare i parlamentari del Pdl nominati che temono di misurarsi con il consenso; timori e tentazioni violentissime – ma guai a dirlo – condivise anche da quei tanti dirigenti la cui fortuna deriva solo dalla fedeltà al Cavaliere.

    Ma il paradosso è altrove, è nella nemesi della sinistra. Perché vorrebbe, e maledettamente, peccare anche il segretario del Pd, quel Pier Luigi Bersani i cui pensieri volteggiano ostinati su un tormento persino legittimo: ma perché io non posso vincere come ha fatto Berlusconi? Perché non posso usare questa legge elettorale che oggi sembra scritta per me, per il mio partito e per la mia coalizione? Perché non posso governare? E il suo è un tormento doppio, subdolo, tremendo. Infatti nessuno più del centrosinistra ha contribuito a codificare il “peccato di porcellum”, il peccato di cooptazione oligarchica, e nessuno più di Bersani si trova oggi schiacciato tra l’evidente logica di vantaggio, il diavoletto che gli suggerisce di non favorire alcuna riforma elettorale, e i moniti severi di Giorgio Napolitano, l’acqua santa del presidente della Repubblica che giovedì lo ha ricevuto, e al Quirinale, a quattr’occhi, gliel’ha ripetuto ancora: la riforma s’ha da fare.

    E s’ha da fare malgrado, in cuor loro, non la vogliano nemmeno Vendola e Di Pietro che hanno bisogno del porcellum per entrare in Parlamento con una coalizione; così come del porcellum ha tremendamente bisogno Liberta e Giustizia, il club azionista di Carlo De Benedetti e Gustavo Zagrebelsky: soltanto quella nefandezza elettorale realizza le condizioni per una “lista Repubblica” alleata del Pd. Dunque il peccato è di Berlusconi, ma i peccatori sono molti di più. La riforma non la vuole nemmeno Romano Prodi, che si arrampica sulle categorie della politica, sulla difesa del bipolarismo, sulle conquiste della Seconda Repubblica e dunque difende quell’orrendo porcellum che in realtà forse gli interessa soprattutto perché, secondo una logica un po’ contorta, favorirebbe le sue ambizioni quirinalizie. Ma per avere una chance di raggiungere il Colle più alto di Roma a volo d’angelo, scavalcando Monti e Casini, a lui servirebbe un porcellum con le ali.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.