Addii a Damasco

Daniele Raineri

Il Ministro per la difesa siriano, generale Dawood Rahja, è rimasto ucciso nel corso di un attentato kamikaze questa mattina a Damasco. Diversi i feriti, molti dei quali in gravi condizioni. E’ questo, per il momento il bilancio dell’ attentato kamikaze avvenuto a Damasco di fronte alla sede della sicurezza nazionale siriana. A riferirlo la tv di stato siriana al-Ikhbariya. Il palazzo, situato nella periferia della capitale, si trova a circa un km di distanza dal palazzo presidenziale di Bashar al-Assad

    "Se continua così, Bashar el Assad ucciderà più palestinesi dell’esercito israeliano”, è il commento unanime che gira di strada in strada e saluta la rottura irrimediabile tra palestinesi e il regime alawita siriano. Lunedì un cordone attento di cecchini disposti sui tetti dei palazzi ha circondato Yarmouk, “campo profughi” palestinese incistato nella cintura suburbana di Damasco, per impedire ai palestinesi di unirsi alla guerriglia che ora, per la prima volta in 17 mesi di rivoluzione, combatte dentro Damasco, nei quartieri di Midan e Tadmon. Sette abitanti del “campo” sono già morti fulminati dalle pallottole durante le proteste, morti che ieri si sono trasformati in altrettanti funerali di massa e in nuovi cortei di protesta. Le virgolette sono d’obbligo. Yarmouk è sempre stato un “campo profughi” non ufficiale sin dalla sua apertura nel 1957 e nel tempo si è trasformato in un’area residenziale decente, non ci sono tende e baracche, con una sua classe istruita di medici e ingegneri, anche se popolata con la densità soffocante di una periferia araba: contiene 160 mila palestinesi, seconda, terza e quarta generazione di rifugiati. Dista soltanto otto chilometri dal centro, è visibile dalla strada che arriva dall’aeroporto internazionale e ora rischia di diventare il luogo simbolo di un divorzio politico-militare che va avanti con lenta ineluttabilità da mesi.

    E dire che si trattava di un’unione non male, quella tra regime baathista e palestinesi rifugiati, almeno 500 mila a cui, sulla carta, erano concessi gli stessi diritti dei cittadini siriani. Il padre di Bashar, il non meno feroce Hafez, aveva fatto dell’appoggio incondizionato alla causa palestinese uno dei fattori di legittimazione del proprio regime, anche se Yasser Arafat era fermamente convinto che più che sostenerla il rais siriano l’avesse cooptata per i propri interessi. Se oggi i carri armati di Damasco attaccassero il campo non sarebbe una prima volta assoluta, anzi: successe lo stesso ai campi profughi in Libano, durante la guerra civile negli anni Settanta. A testimoniare quanto la relazione sia stata controversa anche in passato, uno dei servizi segreti più temuti e organizzati del paese è ancora il cosiddetto “Settore Palestina”, che si occupa del nemico esterno israeliano ma anche e soprattutto dei movimenti interni dei palestinesi.

    Numerosi i segni del divorzio dopo la rivoluzione scoppiata nel marzo 2011. La fuga alla chetichella di Hamas, che ha traslocato al Cairo e in Qatar, abbandonando il quartier generale damasceno. Il bombardamento con le navi, dal mare, del quartiere palestinese al Ramel di Latakia, il porto siriano sul Mediterraneo, nell’agosto dell’anno scorso. Le manifestazioni spontanee contro Assad nella Striscia di Gaza, subito spente con la forza da Hamas, che ha abbandonato la Siria ma non vuole fare troppa pubblicità al divorzio (Israele deve restare il nemico numero uno, al fatto che arabi ammazzano altri arabi è meglio non dare troppa pubblicità). Palestinesi che cantano “ya irhal ya Bashar”, vattene Bashar, hanno manifestato a Nazareth, a Haifa, a Jaffa, a Gerusalemme e a Nabi Saleh (ovvero in zone dove non c’è il controllo di Hamas). Sembra passato un secolo, ma all’inizio della rivoluzione il regime dette la colpa a Fatah al islam, un gruppo estremista che arriva nei campi libanesi, ma era una balla così evidente che durò poco. La lotta contro il Baath siriano dei palestinesi anticipa la nuova mappa del dopo Assad, quando il rais cadrà (il capo dei servizi segreti d’Israele ha detto ieri che è soltanto questione di tempo) i sunniti, e tra loro i palestinesi, diverranno infine una maggioranza armata e liberata. Ieri la Fratellanza musulmana siriana  – a cui Hamas e i Fratelli egiziani sono imparentati – ha lanciato un appello nazionale a bloccare le strade per impedire gli spostamenti all’esercito di Assad e a gettarsi nei combattimenti, che stanno intensificandosi di giorno in giorno – dalla capitale arriva la notizia dell’abbattimento di un elicottero.

    Il secondo rapporto storico che sta mutando è quello tra Siria e al Qaida. Il capo attuale dell’organizzazione storica, l’egiziano Ayman al Zawahiri, ha fatto un appello alla guerra santa contro il regime baathista di Bashar el Assad. Si tratta tecnicamente di un voltafaccia, perché tra il governo e l’organizzazione c’è stato un lungo rapporto di collaborazione, soprattutto durante gli anni della guerra nel vicino Iraq. Ora il legame è stato spiegato da un insider. Ruth Sherlock, giornalista del Telegraph che lavora a Beirut e in questi mesi è riuscita a entrare in Siria, ha intervistato Nawaf Fares, ambasciatore siriano in Iraq che due settimane fa ha abbandonato il suo posto in aperta rottura con il regime e si è rifugiato in Qatar. Secondo fonti israeliane Fares non era un semplice ambasciatore, ma il numero due di un servizio di intelligence di Assad e a Baghdad aveva il compito di tenere d’occhio il traffico di aiuti in armi e volontari che corre verso la Siria a combattere contro il governo. Fares dice che si tratta di un contrappasso: durante gli anni della presenza americana, il regime di Damasco favoriva il traffico dei jihadisti dalla Siria all’Iraq.

    Non è una novità. Si sa che il picco fu raggiunto tra il 2005 e il 2007, per la disperazione del personale dell’ambasciata americana che vedeva la fila di volontari arabi aspettare l’autobus per Baghdad sotto le pensiline della stazione, proprio davanti alle finestre della sede diplomatica. I famigliari di alcune vittime americane trucidate dal terrorista Abu Musab al Zarqawi, capo di al Qaida in Iraq ucciso nel 2006, hanno anche intentato una causa di risarcimento al governo siriano per la complicità dimostrabile con i terroristi. Ora Fares sostiene che le stesse unità di jihadisti che lui stesso aiutava per conto del regime ad andare a combattere le truppe americane in Iraq ora sono responsabili della serie di attentati in stile al Qaida che hanno colpito la Siria. Cita come esempio l’attacco contro il palazzo dell’intelligence militare nella capitale che a maggio uccise 55 persone e ne ferì 400. “So per certo che nessun ufficiale dell’intelligence fu ferito dall’esplosione e che l’intero edificio fu evacuato 15 minuti prima. Tutte le vittime furono invece passanti. Questi grandi attentati sono stati commessi da al Qaida in collaborazione con le forze di sicurezza”.

    Fares dice anche che “dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, il regime in Siria cominciò a sentirsi in pericolo e iniziò a pianificare il sabotaggio della presenza americana in Iraq, e per questo strinse una alleanza con al Qaida. Tutti i combattenti arabi e stranieri erano incoraggiati ad andare in Iraq passando dalla Siria e i loro spostamenti erano facilitati dal governo siriano. A quel tempo ero governatore, e in quanto tale mi fu dato ordine a voce di consentire a ogni impiegato di lasciare il suo posto di lavoro senza conseguenze se avesse voluto andare in Iraq. Il regime è responsabile di molte morti in Iraq”.

    L’ex ambasciatore Fares vuole ovviamente infliggere il danno più grande possibile al regime da cui ha disertato, e le sue affermazioni sono da vagliare, ma il suo ruolo lo pone in una posizione d’autorità sul dossier al Qaida. La sua ascesa all’interno del sistema Assad è dovuta al suo essere un membro influente di un clan che da secoli controlla la frontiera tra Siria e Iraq e che era nella posizione ideale per facilitare il passaggio di uomini e armi. “Io stesso – aggiunge – conosco molti degli ufficiali di collegamento che ancora trattano con al Qaida”.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)