Un rebus chiamato Fiat
Giorgio Airaudo, responsabile nazionale della Fiom per l’auto, attacca con la solita litania. “Sergio Marchionne – dice al Foglio – in Fiat non ne ha azzeccata una: piano, tempi, prodotti”. Poi però cambia tono: “Marchionne, che mi è pure simpatico, fa quel che può con quello che ha…”. Carlo Callieri, uno dei grandi protagonisti della Fiat dell’Avvocato nelle battaglie degli anni Ottanta, almeno sotto questo profilo, la vede in maniera quasi simile: “Marchionne è un manager tenuto a stecchetto”, ha commentato ieri in un’intervista a Repubblica.
Giorgio Airaudo, responsabile nazionale della Fiom per l’auto, attacca con la solita litania. “Sergio Marchionne – dice al Foglio – in Fiat non ne ha azzeccata una: piano, tempi, prodotti”. Poi però cambia tono: “Marchionne, che mi è pure simpatico, fa quel che può con quello che ha…”. Carlo Callieri, uno dei grandi protagonisti della Fiat dell’Avvocato nelle battaglie degli anni Ottanta, almeno sotto questo profilo, la vede in maniera quasi simile: “Marchionne è un manager tenuto a stecchetto”, ha commentato ieri in un’intervista a Repubblica.
Insomma, il vero problema non è il manager con il maglioncino che quando ha potuto disporre, accanto alle tecnologie Fiat, dei quattrini prestati da Barack Obama, ha saputo fare miracoli in Chrysler. Intanto, per colpa del mercato (ma non solo) la Fiat italiana è deperita a livelli impensati: nell’anno bisesto 2012 in Italia non si produrranno più di 400 mila macchine, un milione in meno di quanto previsto dal piano Fabbrica Italia, 800 mila in meno di quel 2004, pure un anno disgraziato, in cui il manager mise piede al Lingotto per la prima volta.
Il problema, insiste Callieri, non è lui, ma la mancanza di quattrini a sua disposizione per gli investimenti che ci vorrebbero. Roba che riguarda la proprietà: “Se c’è batta un colpo – ironizza Callieri – Ma per ora non vedo niente”. “Ormai Exor ha compiuto le sue scelte – commenta Giuseppe Berta, storico dell’economia e grande cultore di Fiat dalle origini a oggi – Basta vedere il portafoglio per capire che la famiglia guarda fuori Italia, anzi fuori Europa”. E allora? Se non ci pensa la famiglia, non resta che pensare alla mano dello stato? Assieme, o in alternativa, “all’ingresso di altri produttori”, come dice il leader della Fiom.
L’ipotesi di un coinvolgimento del pubblico, in una qualche forma, insomma non è più un tabù. Per il sindacato non è una novità. Per il mondo politico e per buona parte del mondo degli addetti ai lavori, sì. Proprio ieri lo stesso Corrado Passera (uno che con Marchionne non si è mai preso fino in fondo) si è spinto a dire che “noi del governo dobbiamo seguire con grande attenzione quelle che possono essere le conseguenze sul nostro paese della trasformazione importante del settore dell’automobile”.
Messa così la dichiarazione può significare molto o molto poco. Ma c’è molta differenza tra questa posizione e la solidarietà sfoderata dal premier Mario Monti anche dopo la visita lampo in Serbia, dove Fiat ha dirottato l’investimento per la 500L, inizialmente previsto a Mirafiori.
Certo, al di là degli umori o delle preoccupazioni, le munizioni finanziarie a disposizione del governo, qualora si volesse metter mano a una qualche forma di incentivo accettabile anche in sede comunitaria (i motori verdi, per esempio, in cui l’Italia conta ancora un discreto vantaggio) sulla falsariga di quanto intende fare Parigi per Psa, sono davvero poca roba. “Per ora – spiega Berta – gli unici soldi sul totale di cui sono a conoscenza sono gli 80 milioni messi a disposizione dalla regione Piemonte: sono pochi pure per aiutare l’industria locale che, mi dicono, sta perdendo rapidamente le competenze accumulate negli anni al punto che non è più in grado di progettare e produrre, in base alle sole competenze locali, una vettura di classe C. Ma in chiave nazionale sono uno sputo nell’oceano”.
Vero, ma spesso la volontà in politica conta più dei mezzi. Nel 2008/09, quando Marchionne tirò fuori dal cilindro la carta Chrysler, nessuna forza politica e sindacale italiana era disposta a sborsare un euro per gli “Agnelli che hanno avuto tanto”. E oggi? “Mi viene voglia di lanciare un’idea bizzarra – replica Airaudo – facciamo come in America. Diamo alla Fiat i soldi che chiede all’interesse del 9-10 per cento. Così Marchionne li restituirà il più in fretta possibile, dopo aver fatto gli investimenti. A differenza del passato, quando gli Agnelli non hanno restituito nulla”. Ma non si poteva fare prima, quando magari c’era ancora qualche spicciolo per dare una spinta all’industria dell’auto? “Forse sì, ma in quegli anni anche nei sindacati ha pesato la spinta leghista”.
Difficile che certi ragionamenti facciano breccia nel Marchionne pensiero. Il numero uno di casa Fiat/Chrysler è più impegnato a occuparsi della crescita del gruppo in Cina e Russia e a tamponare l’inevitabile frenata del mercato brasiliano, in crescita geometrica ormai da troppi anni che ai tempi di sviluppo e realizzazione dei nuovi prodotti per la vecchia Europa. “Riteniamo – ha detto in occasione del lancio della 500L il responsabile del marketing Olivier François ribadendo il pensiero del capo – che lanciare oggi altri nuovi modelli su questo mercato sia una grande cazzata”. Meglio godersi i successi della sua Chrysler, ormai beniamina della grande stampa Usa. Il Wall Street Journal ha appena dedicato un servizio affettuoso alla Dart “l’auto che ha salvato Chrysler”, senza dimenticare di far notare che l’ultima nata di Detroit “è stata sviluppata sulla piattaforma dell’Alfa Romeo”.
Il che ha il sapore della beffa: in Europa, in attesa delle nuove Alfa (Marchionne ha confidato ad Automotive News di averne bocciate quattro perché troppo Fiat style), il marchio del Biscione venderà quest’anno meno di 100 mila vetture. Intanto gli Stati Uniti si abituano al ritorno della vettura che sarà prodotta in Michigan o in Canada. Piuttosto che ai coupé Alfa che saranno sfornati da Fiat presso gli stabilimenti di Mazda in quel di Hiroshima per poi raggiungere la California. “Secondo voi – è il parere di Airaudo – per l’Italia conta di più un modello Alfa sviluppato da un’azienda a proprietà straniera ma con lavoro italiano od operazioni di questo genere?”. Conta il rispetto della proprietà privata, visto che il marchio Alfa è degli azionisti Fiat. “Vero, Marchionne cerchi di trarre tutto il vantaggio possibile. Ma lo stato non può più essere assente: Fiat ha firmato contratti con il governo in Brasile, Serbia e Usa. Ma da noi non c’è nemmeno un post it”.
Intanto, proprio oggi, il giorno dopo l’annuncio che, causa l’invenduto di nuove Panda sui piazzali, nello stabilimento gioiello di Pomigliano scatterà dopo le ferie la Cassa integrazione, Volkswagen pianta in forma definitiva la sua bandierina sulla Ducati, dopo il via libera dell’Antitrust. Da Wolfsburg è arrivato un bell’assegno da 860 milioni, tanto per dimostrare che l’ammiraglia dell’auto tedesca, impegnata nella sua scalata al primato mondiale (dieci milioni di vetture nel 2018), non ha paura a puntare sul Bel Paese, dove già contano più di un piede grazie al controllo di Lamborghini, L’Italdesign di Giorgetto Giugiaro e, più ancora, grazie a una fitta rete di fornitori destinata a crescere dopo la sessione di incontri che De Silva, assieme allo stesso Giugiaro, hanno avuto con una fitta schiera di medie e piccole aziende cresciute a suo tempo nell’indotto Fiat. Oltre a una folta schiera di emigrati di lusso che non vedono l’ora di rimetter mano al Biscione. Primo fra tutti Walter De Silva da Como che, prima di sbattere la porta e approdare alla corte di Ferdinand Piech (che gli ha affidato il design di tutti i 12 marchi del gruppo), ha disegnato la linea delle Alfa che ancora caratterizza la Giulietta.
“Gli incontri tra Volkswagen e Marchionne a suo tempo ci sono stati – commenta lo storico Berta – Da quel che ne so io i tedeschi erano interessati solo al marchio per cui hanno offerto una bella cifra, un miliardo almeno. Marchionne ha sparato molto più in alto. Non solo, ha posto come condizione la cessione di uno stabilimento in Italia, mentre il gruppo Volkswagen era interessato solo al marchio”. Fin qui le trattative passate. Ma, anche nel mondo dell’auto, non bisogna mai dire mai. Lo stesso De Silva ha fatto notare che Volkswagen ha pure investito in paesi ad alto costo del lavoro, vedi il Belgio. “Sarebbe un fatto nuovo – riconosce Berta – anche se non penso che i tedeschi siano interessati a uno solo degli stabilimenti Fiat in Italia. Semmai potrebbero aprirne uno nuovo. Ma è presto per parlarne”. Intanto, la casa di Wolfsburg ha appena introdotto per i suoi mille e passa dipendenti italiani il contratto alla tedesca. Se domani si aprisse un tavolo a Palazzo Chigi o presso il ministero di Passera sul futuro dell’auto in Italia, il colosso che affida una bella parte dei componenti dell’Audi ai fornitori del nord est potrebbe far la parte del convitato di pietra. O anche dell’ospite ufficiale, nel nome di un’amicizia industriale che frau Angela Merkel, a dire il vero, non dimostrò quando scartò l’ipotesi Lingotto per la Opel: visto com’è andata (tre anni dopo aver incassato i contributi governativi, Gm si prepara a chiudere almeno uno stabilimento oltre Reno), forse valeva fidarsi di Marchionne, come ha fatto Obama.
Ma bando al futuribile. La sensazione è che molte decisioni, le più importanti, dovranno essere prese nei prossimi mesi. “Io mi fido di Marchionne – chiude Airaudo – lui aveva detto che i conti si sarebbero tirati con l’ultimo trimestre. Siamo vicini”. Le prospettive? “E’ stato lui a spiegarci al tavolo delle trattative che con una quota di mercato inferiore al 7 per cento fai fatica a tenere in piedi una rete distributiva e di assistenza a livello continentale”.
Non meno drastico lo storico bocconiano Berta: “E’ arrivato il momento delle scelte. Ovvero di tirar fuori un progetto per l’Italia che oggi non c’è. A partire dai suoi attori: la Fiat, il sindacato, il governo e tutti gli altri che sono disposti a mettere quattrini e tecnologie su un progetto integrato. Non escludo nemmeno, in linea di principio, il modello Giugiaro, cioè la collaborazione a livello di indotto e di componenti. Insomma, un progetto in cui sia senz’altro la Fiat ma non solo più la Fiat”. Cosa risponderanno i vertici del Lingotto? La linea è ben nota: finché il mercato dell’auto resta quello che è (le vendite in Italia sono scivolate ai minimi dal ’79, meno di 500 mila vetture) la strategia non cambia: primo non prenderle.
La sorpresa sarà relativa: Marchionne ha già fatto sapere che, di questo passo, alla Fiat cresce almeno uno stabilimento in Italia. Quale? Secondo Mediobanca Securities, i candidati più probabili alla chiusura sono Melfi (destinato alla nuova Punto, rinviata a data da destinarsi) e Cassino. Ma, a parte le linee della ex Bertone di Grugliasco, destinata alla Maserati, l’incertezza regna sovrana, anche in quel di Mirafiori dove gli investimenti per le linee dei primi Suv di casa Fiat, a detta dei sindacati, segnano il passo. Nel frattempo, Marchionne potrà continuare a interpretare la parte del Messia dall’altra parte dell’oceano, dove non passa mese senza che Chrysler non macini qualche nuovo record. E quella di Cassandra a Bruxelles, dove gli altri costruttori (non i tedeschi) stanno prendendo atto che il ceo di Fiat diceva il vero quando aveva previsto che la guerra dei prezzi, in assenza di interventi sulla capacità produttiva, avrebbe mandato all’aria i costruttori che più avrebbero confidato nella ripresa del mercato. Su un punto non è lecito nutrire dubbi: se Marchionne non avesse stretto i cordoni della borsa in Italia, concentrandosi su Chrysler, la Fiat, troppo fragile per reggere alla seconda ondata di crisi dopo aver resistito alla tempesta Lehman Brothers, sarebbe andata all’aria ben prima di Peugeot. E in Italia? La battaglia per assicurare agli impianti italiani condizioni in linea con il resto del mercato è ben lungi dall’essere vinta. La flessibilità, rispetto ai concorrenti, resta un miraggio lontano. Anche perché, come ha ricordato lui stesso, l’ultima vague del mercato è il contratto che le unions inglesi hanno accettato di firmare pur di ottenere il trasferimento ad Ellesmere della produzione della Opel Astra: 51 settimane di lavoro, tre turni, sabato lavorativo a richiesta della direzione aziendale. Un gioco pesante, non c’è che dire.
Chissà, però, se dall’altra parte del tavolo il capo azienda Marchionne, che è un ottimo giocatore di poker, non troverà stavolta un ministro disposto ad andare a vedere le carte del numero uno del Lingotto prima che il baricentro del gruppo non sia del tutto spostato sull’altra riva dell’Atlantico. “Parliamoci chiaro – ha detto ieri sera il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini – il Piano Fabbrica Italia non c’è più. Non è possibile che se la Peugeot in Francia annuncia licenziamenti interviene il presidente francese in persona oltre al governo e ai ministri interessati, mentre in Italia il premier Mario Monti ha detto che la Fiat è libera di investire dove vuole”.
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