Scuole chiuse a settembre? Magari

Alessandro Giuli

Che occasione ha perduto il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. L’impareggiabile privilegio di rispondere “arrangiatevi, era ora!” alle recriminazioni di sindaci e governatori provinciali assaliti dal timore che in settembre numerose scuole restino chiuse per mancanza di fondi. Profumo ha preferito rassicurare – immaginiamo noi – in omaggio a un mal riposto senso del pudore nei confronti del diritto costituzionale all’istruzione.

    Che occasione ha perduto il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo. L’impareggiabile privilegio di rispondere “arrangiatevi, era ora!” alle recriminazioni di sindaci e governatori provinciali assaliti dal timore che in settembre numerose scuole restino chiuse per mancanza di fondi. Profumo ha preferito rassicurare – immaginiamo noi – in omaggio a un mal riposto senso del pudore nei confronti del diritto costituzionale all’istruzione. Avrebbe invece guadagnato allori, forse impopolari ma rivoluzionari, se avesse detto agli enti locali e alle famiglie: “Organizzatevi”. Non è in questione il (pur discutibilissimo) totem della scuola dell’obbligo. Qui si tratta di guardare al contesto, e quindi procedere a un’introspezione culturale.

    Il contesto ci dichiara uno stato d’eccezione internazionale paragonabile a una guerra in corso, o a un immediato dopoguerra senza la prospettiva di piani Marshall credibili. Non ci sono soldi, abbiamo più debiti che abitanti, un numero esorbitante di pensionati e una riserva di forza lavoro a bassissimo costo e ad alte pretese di protezione sociale. Se non si cambia modo di pensare, se non muta l’unità di misura della nostra capacità di sopravvivenza, il trauma psichico della sopraggiunta indigenza ci farà mordere la terra.

    Se è vero che ci attendono tempi da lupi mannari, allora domandiamoci come avrebbero, anzi come hanno reagito ai loro tempi i nostri padri analfabeti tecnologici, interroghiamo la memoria del sangue e il genio italico dell’inventiva. Pitagora e Archimede parlavano greco, ma soltanto in Italia hanno potuto sprigionare il loro magistero scientifico, fra sassolini numerarii e ipotenuse tracciate sulla sabbia. Platone insegnava metafisica ai suoi allievi siracusani sotto un albero di fico. Nietzsche ha colto il fuoco dell’eterno ritorno in un’insenatura di Rapallo. En plein air. Non esisteva la società di massa, certo. Ma la scuola non è una priorità, la priorità è l’insegnamento (meglio ancora: l’educazione) e per insegnare bastano i maestri, non servono lavagne elettroniche. Nell’èra dell’emergenza, occorre ricordarsi che nella nostra terra esiste un istituto ammaccato ma ancora potentissimo sia sul piano simbolico sia su quello della ragion pratica: la famiglia. Non ci mancano – anche per le predette ragioni anagrafiche – nonni pensionati che facciano fare i conticini in casa ai bambini, né sarebbe disprezzabile il recupero di quella antica pedagogia domestica – un po’ paesana, un po’ ottocentesca – capace di combinare astrazione e conoscenza della vita. Un esperimento del genere potrebbe addirittura galvanizzare le migliori latenze intellettive italiane, varrebbe insomma la fatica di dover piegare la virtù alla necessità, con il rischio di spaventare le mamme lavoratrici e sentirsi obiettare che, se le scuole pubbliche non aprono, chi può andrà alle private e così anche l’istruzione diventerà d’élite. Ma se i quattrini hanno abbandonato l’erario, in mancanza di un Giuseppe Siccardi, anche per le scuole private si annuncia per lo meno un disimpegno dello Stato, magari a beneficio proprio di quelle famiglie interessate a poter disporre dei (minimi) benefici o incentivi per scegliersi una soluzione di comodo nello stato di costrizione.

    La stessa sprezzatura culturale dovrà essere esercitata nei confronti della riorganizzazione territoriale italiana. L’accorpamento delle province è un palliativo utile ad abbattere campanilismi buoni per le partite di calcio ma irragionevoli sulla linea di tiro della speculazione finanziaria. Altro che pisani e livornesi, Tirreni tutti e tutti insieme a pescare alici o a mietere il grano. Più efficace sarebbe stata l’abolizione delle regioni, ovvero – sempre in tema di ritorno all’antico – la trasformazione delle più riottose (Sicilia ante omnia) in province governate da un proconsole di Palazzo Chigi. Ma se c’è un merito collaterale accreditabile alla crisi economica (e un po’ alla dittatura commissaria instaurata dal presidentissimo Napolitano), sta nel fatto che ha prosciugato di senso ogni rivendicazione centrifuga (già con quel suo ingenuo “la Padania non esiste” il Quirinale aveva inferto un colpo decisivo). Dopotutto, quando mancano le brioches, al popolo bisogna dare pane amore e fantasia.