Dal nostro inviato in Siria
Nella battaglia di Aleppo i ribelli sognano l'unità
Il capitano dei ribelli siriani traccia un cerchio su un pezzo di carta. “Questa è Aleppo”. Divide la metà superiore in tanti spicchi, li nomina uno per uno, batte il dito. Salaheddin. Sukhour. Al Shaar… “Questi sono i quartieri che controlliamo”. Quant’è rispetto all’estensione totale della città, in percentuale? “Il 40 per cento. Completamente in mano nostra. L’esercito siriano invece sta qui”, batte il dito questa volta sulla metà inferiore del cerchio.
Leggi Sulla via per Aleppo con i ribelli, aspettando i soldati che “ripuliscono”
Dal nostro inviato in Siria. Il capitano dei ribelli siriani traccia un cerchio su un pezzo di carta. “Questa è Aleppo”. Divide la metà superiore in tanti spicchi, li nomina uno per uno, batte il dito. Salaheddin. Sukhour. Al Shaar… “Questi sono i quartieri che controlliamo”. Quant’è rispetto all’estensione totale della città, in percentuale? “Il 40 per cento. Completamente in mano nostra. L’esercito siriano invece sta qui”, batte il dito questa volta sulla metà inferiore del cerchio.
Aleppo è la battaglia che definirà questa guerra civile. Se la città cade, per il governo è finita, non potrà sopravvivere a lungo nell’isolamento, persino dorato, della capitale Damasco. Per questo le forze di entrambe le parti sono attirate verso lo scontro, verso quel cerchio. “Siamo arrivati in città venerdì da fuori, senza incontrare resistenza. Siamo avanzati fino sul limite dei quartieri che consideriamo pro regime e là ci siamo fermati mettendo posti di blocco. I soldati del regime hanno abbandonato le posizioni senza sparare un colpo, poi si sono riorganizzati e domenica hanno cominciato a spararci con l’artiglieria, sui quartieri che loro considerano pro ribelli. In questo momento la situazione è di stallo, ma non lo sarà per molto”. L’ufficiale parla nella stanza di comando di un ex edificio governativo che ora è una base dei ribelli e di cui sarà bene tacere la funzione. Tendaggi, sedili imbottiti in pelle e ora la vista incongrua di un arsenale da guerra sparpagliato un po’ dappertutto. Ci sono testate anticarro per lanciarazzi, una mitragliatrice con nastri di munizioni, fucili Fal arrivati dal Belgio. Fuori i botti distanti degli spari. Due uomini fanno la guardia dentro le scale, altri due la fanno alle quattro macchine parcheggiate all’interno del cortile e oltre il cancello c’è la strada per Aleppo.
Una fonte del Foglio dice che dall’altra parte della città, da sud, è arrivata una colonna di 170 veicoli blindati, ora ferma fuori in attesa. Almeno ottanta sono carri armati. La strategia del comando siriano si può dedurre dai movimenti delle truppe che sono seguiti attentamente da mille occhi e comunicati via radio e via sms. Può essere riassunta così: lasciate pure che i “terroristi” spadroneggino nelle campagne inutili, fra le siepi e i muli, l’obiettivo qui è riprendere il controllo totale su Aleppo.
Durante tutta la giornata due elicotteri di fabbricazione sovietica sorvolano uno il quartiere di Salaheddin e l’altro quello di Sukhour, colpendo dall’alto con le mitragliatrici e con razzi di piccolo calibro. Hanno interrotto i passaggi su Aleppo soltanto per un’ora, per proteggere l’ultimo tratto di strada della colonna di rinforzi in arrivo. E la strategia dei ribelli? “Colpirli con tutto quello che abbiamo”, dice un altro comandante. Siamo seduti su una stuoia questa volta, nell’aia di una casa assieme ai suoi uomini, nella fase euforica e ricca di chiacchiere che arriva quando il sole cala e i combattenti islamici rompono il digiuno per il Ramadan. Soltanto una tovaglia appesa a un filo di ferro li ripara dallo sguardo di chi passa in strada.
In realtà la battaglia di Aleppo è l’occasione per una svolta tragica dei ribelli. Per ora la rivoluzione è stata “parrocchiale”, nel senso che ogni villaggio e ogni area delimitata è insorta per contagio e per esasperazione collettiva, affidandosi soltanto alla volontà e all’inesperienza di pochi locali. Fino alle porte di Aleppo è stata una guerriglia casereccia, alimentata da tanti gruppi armati senza coordinazione. “Posso fare una foto a quelli”, succede di chiedere e di sentirsi ancora rispondere: “Non so, meglio di no, quelli non li conosco, non so chi siano”. Ora il piano ambizioso è uscire dalla battaglia, oltre che vittoriosi, anche come un solo esercito ribelle. “Fronte dell’unificazione” è il nome programmatico che si sono dati, che è un concetto da distinguere da quello, molto simile in lingua araba, di monoteismo (in tal caso, sarebbero il fronte dei terroristi in Iraq).
Anche i civili in attesa dentro la città di Aleppo assediata hanno la loro strategia, che è quella della speranza. “A Damasco i ribelli sono stati furbi, hanno attaccato e poi si sono dileguati prima che il governo cominciasse a usare la forza. Dovrebbero fare così anche qui, dare una lezione ma non restare a difendere un’area specifica, non avrebbe senso, il governo la polverizzerà con i cannoni e i carri armiati, loro e tutti i civili dentro. Il Jaish al Hur – l’esercito libero di Siria – dovrebbe sparire prima e speriamo che facciano così, perché abbiamo già visto che l’esercito del regime non si pone limiti contro i quartieri abitati da civili”.
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