Dentro alla Siria, a nord
Sulla via per Aleppo con i ribelli, aspettando i soldati che “ripuliscono”
“Mettiti comodo, ci vorranno tre-quattro ore, dobbiamo aspettare che il passaggio sia libero, ma questa notte è pieno di soldati turchi”, dice il capo dei contrabbandieri. Siamo seduti al buio, alla fine di una strada sterrata, in attesa di un segnale dall’altra parte. Sulla frontiera che corre tra Siria e Turchia l’esercito del regime è stato costretto da cinque-sei giorni ad allentare la pressione, perché ha bisogno di tutti i soldati a disposizione per combattere le battaglie decisive ad Aleppo, nel nord, e nella capitale Damasco – “ripulire”, come dicono i portavoce del governo.
“Mettiti comodo, ci vorranno tre-quattro ore, dobbiamo aspettare che il passaggio sia libero, ma questa notte è pieno di soldati turchi”, dice il capo dei contrabbandieri. Siamo seduti al buio, alla fine di una strada sterrata, in attesa di un segnale dall’altra parte. Sulla frontiera che corre tra Siria e Turchia l’esercito del regime è stato costretto da cinque-sei giorni ad allentare la pressione, perché ha bisogno di tutti i soldati a disposizione per combattere le battaglie decisive ad Aleppo, nel nord, e nella capitale Damasco – “ripulire”, come dicono i portavoce del governo. Per questo le torrette di guardia siriane che si affacciano in serie infinita sulla strada che costeggia il confine nei suoi punti più accessibili sono ormai vuote e abbandonate dietro il filo spinato. Se l’esercito siriano non può più bloccare gli attraversamenti clandestini, quello turco non vuole intervenire, anche se ieri il governo di Ankara ha chiuso ufficialmente le frontiere per evitare ondate di profughi: “I soldati turchi hanno soltanto l’ordine di capire chi attraversa e non vogliono vedere armi”, dice il contrabbandiere. “Se intercettano te, che sei straniero, ti controlleranno il passaporto e ti ributteranno indietro, ma niente di più”.
Questa notte tocca a un carico di giberne e radio, chiuse in alcuni sacchetti di plastica e portate a spalla. Si sale fra le colline al chiarore naturale, si cammina accanto al reticolato fino a un punto in cui è stato alzato per creare un varco temporaneo, a mezza costa, e si prosegue oltre in salita. Quasi in cima la guida accende un iPhone e agita lo schermo luminoso verso una macchina in attesa. Arrivano altri veicoli, la notte è trafficata. Anche se i fari sono tenuti spenti, gli uomini sono piuttosto rilassati, fumano, soltanto uno di loro è armato con un fucile kalashnikov – del resto tutte le armi a disposizione servono sul fronte, nella guerriglia strada per strada e quartiere per quartiere ad Aleppo, dove è iniziata l’ultima offensiva del regime.
C’è anche un altro gruppo separato: sono sette salafiti con le barbe folte, i duri dell’islam, e non sono tutti siriani. Ci sono un libanese un tunisino e un libico. La guerra di liberazione contro il regime di Bashar el Assad esercita un fascino irresistibile sui volontari islamisti che accorrono da altri paesi, come succedeva in Afghanistan negli anni Ottanta durante la guerra santa contro l’Armata rossa sovietica. E proprio come succedeva in Afghanistan, per ora i governi occidentali non mostrano di preoccuparsi della presenza di jihadisti tra i siriani, danno la massima priorità all’obiettivo a breve termine, ovvero alla cacciata del presidente Assad. Ma è chiaro che l’equilibrio della sicurezza mondiale sarà diverso da prima per colpa di questi scollinamenti notturni. Nel sud della Turchia c’è un team di agenti della Cia che sorveglia che le armi destinate ai ribelli non cadano nelle mani sbagliate – secondo quanto raccontato da un articolo scoop del New York Times. Ma un contro scoop del Washington Post rivela che gli agenti sono soltanto sei e il loro compito pare francamente immenso.
Superato il confine, la buffer zone, la zona cuscinetto tanto agognata dai ribelli nei primi mesi della rivoluzione per avere un posto tranquillo dove accogliere profughi e disertori, curare i feriti e organizzare la resistenza, sembra ormai essere stata instaurata, senza l’intervento di eserciti stranieri. “Gli ultimi soldati di Assad qui li abbiamo visti otto mesi fa, dicono in questo villaggio del nord – il cui nome sarà meglio tacere per non provocare la sorte. Alle cinque del mattino, la gente circola per i viottoli. “Perché fa ancora fresco e perché è Ramadan” si prega nelle aie, all’aperto. Hamdulillah, rabi al alamin – sia resa lode a Dio, signore dei mondi. Sono questi villaggi sunniti, fatti di muretti a secco, gabinetti all’aperto, cemento a vista, e non i quartieri posh con le vetrine fighette e i turisti stranieri di Aleppo e Damasco ad avere formato l’ossatura della ribellione in questi mesi. Non è soltato una guerra politica o di religione, ma è anche guerra di classe. Ieri un professore contattato dentro Aleppo ha detto al Foglio: “I ribelli che stanno combattendo contro l’esercito vengono soprattutto da fuori, dalle campagne, ora la città è il loro playground”. Assad ha sottovalutato i posti come questo e ora ne sta pagando il prezzo.
Uno sparo, due, tre. Il botta e risposta dura dieci minuti. I ribelli provano a rassicurarti, “è soltanto un check point di Assad più avanti, lontano”, ma è chiaro che gli spari si avvicinano. Poi dall’angolo della strada spuntano due motociclette, la seconda porta un ragazzo con aria trionfante che non ha più di diciotto anni, regge due fucili, uno è un M-16 americano con mirino telescopico. Spiega che c’era un cecchino, c’è stato uno scambio di colpi, “ma l’ultimo l’ho avuto io”. Risata. In teoria questa sarebbe una zona liberata dal regime fin dalla prima settimana di luglio, ma è la natura stessa delle guerre civili quella di attorcigliarsi su se stesse in spirali che non finiscono mai. Quando incontrano le auto dei ribelli, i civili frenano, aspettano un cenno d’intesa, un’autorizzazione a proseguire. E’ tutto un guardingo esaminarsi a vicenda, prima di andare oltre.
Il nord sarà pure in mano ai ribelli, ma tutti aspettano la rappresaglia militare di Assad. Anzi, è già cominciata. Una fila di carri armati, secondo le radio in mano agli uomini del Jaish al Hur, l’esercito della Siria libera, ha lasciato Idlib e sta marciando verso Aleppo. Gli elicotteri colpiscono i ribelli a nord della grande città, “aspettano la preghiera dell’Iftar, quando è il momento di rompere il digiuno del Ramadan e finalmente ci fermiamo per mangiare, per piombarci addosso”. I cannoni bombardano verso Bab al Hawa, il posto di frontiera con la Turchia caduto in mano ai guerriglieri da cinque giorni e quindi diventato un bersaglio come un altro. La Bbc parla anche di aerei da guerra in azione, ma non ci sono conferme.
Per questo gli spostamenti sono complicati, le auto dei ribelli non imboccano la grande arteria di collegamento, scelgono sempre la strada più stretta, più lunga, fanno svolte a novanta gradi così di frequente che a volte si viaggia con il sole davanti e poi dietro nello stesso spostamento. Trenta minuti tra gli ulivi, in campagna, altri trenta tra le macerie, in città. Temono la comparsa improvvisa di truppe.
Anche dall’altra parte, dentro le caserme del regime, gli spostamenti fanno paura. Il morale è al suo punto più basso. La dinamica è quella dei primi anni della guerra americana in Iraq, soldati chiusi dentro grandi basi, dopo l’azione schierata contro, spostamenti difficili, trappole esplosive a ogni angolo e sguardi muti che approvano ogni scoppio ben piazzato. Sui lati delle strade si vede bene cosa succede quando i militari provano a uscire, ci sono carcasse di carri armati che spandono ancora puzza di bruciato, e gli autobus che trasportavano gli squadroni paramilitari degli “spettri”, i temutissimi shabiha, ridotti a intelaiature metalliche bruciacchiate. Anche i tir speciali che trasportano i carri armati in giro per il paese – non possono viaggiare sempre sui loro cingoli, sono troppo pesanti – giacciono anneriti con metà delle ruote ancora sull’asfalto e l’altra metà fuori dalla strada. Il regime ha lo stesso problema da diciassette mesi: pochi soldati – esecutori davvero fidati per spegnere rivolte che si alzano ovunque nel paese. Ne spegne una e ne nascono altre dieci. Adesso che la sua libertà di movimento è così limitata, è soltanto questione di tempo prima della fine. Ogni ora che passa la sua ferocia è sempre più priva di senso.
Il Foglio sportivo - in corpore sano