Intervista con il nemico nella Stalingrado di Siria
Per muoversi nella Siria occupata dal suo stesso governo si cambia macchina e si cambia anche guidatore, all’ombra dei vicoli delle cittadine sunnite che circondano Aleppo. Un kalashnikov incastrato accanto al cambio, un altro appoggiato in orizzontale sui sedili dietro, “metti il cellulare italiano in modalità ‘uso in aereo’, per favore, abbiamo paura che altrimenti possano leggere la nostra posizione”. Nella capitale del nord da un momento all’altro si aspetta che la resa dei conti definitiva tra ribelli e governo prenda la forma di una battaglia urbana.
Dal nostro inviato in Siria. Per muoversi nella Siria occupata dal suo stesso governo si cambia macchina e si cambia anche guidatore, all’ombra dei vicoli delle cittadine sunnite che circondano Aleppo. Un kalashnikov incastrato accanto al cambio, un altro appoggiato in orizzontale sui sedili dietro, “metti il cellulare italiano in modalità ‘uso in aereo’, per favore, abbiamo paura che altrimenti possano leggere la nostra posizione”. Nella capitale del nord da un momento all’altro si aspetta che la resa dei conti definitiva tra ribelli e governo prenda la forma di una battaglia urbana. Gli abitanti vorrebbero che i ribelli che hanno preso metà della città non tenessero la posizione e si ritirassero, perché sanno che la repressione dell’esercito sarà senza pietà e non farà distinzione; quelli invece si trincerano, accumulano munizioni, interrano mine. Grozny in Cecenia, Stalingrado in Russia, Hué in Vietnam. Il modello è quello.
Ci si ferma a cinque chilometri da Aleppo, all’interno dei sobborghi presi a cannonate, e oltre non si riesce ad andare. I ribelli aprono la strada verso una villa abbandonata, balaustre sbreccate dai colpi d’artiglieria, una piscina immobile sotto la luce del pomeriggio, accompagnano su per due piani di scale. Non si può salire sul tetto perché ci sono i cecchini, né affacciarsi dalle stanze per lo stesso motivo – e infatti le pareti esposte sono bucherellate dai proiettili – ma dentro il bagno una porta è stata messa in orizzontale sulla vasca di piastrelle. Lì, in piedi, dalla finestrella più stretta e in ombra, si vede la strada oltre i campi: due carri armati dipinti di verde e un soldato che si muove fra i due. Ecco il nemico, gli uomini di Assad.
Non si può restare molto, si contano otto colpi di cannone in un’ora, gli artiglieri potrebbero tornare a battere sulla villa. Si torna all’ultima tappa di cambio auto, vicino a un basso sotto il livello del terreno. C’è un prigioniero che scende le scale tra due uomini dell’esercito libero di Siria. Manette ai polsi, canottiera macchiata di sangue, occhio destro pesto, occhio sinistro pure, un livido che taglia in verticale metà della schiena. Appartiene agli “shabiha”, gli spettri, la temutissima milizia paramilitare al servizio del governo del presidente Bashar el Assad. In manette e in ginocchio davanti ai ribelli comincia a rispondere alle domande. “Mi chiamo Darwish Dado, abito ad Aleppo, mi sono unito agli shabiha due mesi fa, prima facevo il decoratore. Mi ha convinto a farlo un vicino di casa, è un ufficiale dell’intelligence dell’aeronautica militare. Il governo continua a ripetere che non sono manifestazioni di gente comune, sono gruppi di terroristi. Lui mi telefonava, mi chiedeva di unirmi”. Che arma usavi, avevi un fucile kalashnikov? “Sì, lo avevo, ma io non ho ucciso nessuno. Il mio gruppo sì, ha ucciso gente”.
E che cosa ha fatto d’altro? “Picchiavamo, bruciavamo le auto, saccheggiavamo le case”. Che cosa prendevate? “Tutto quello che volevamo. Le televisioni, i computer, ma anche le tende, anche i mobili. Loro stupravano anche le donne”. Lo hai visto tu, direttamente? “No, io non l’ho visto. Però sentivo che se ne vantavano. Ho violentato quella, ho fatto quest’altro. Cose così”. Quanto ti pagavano? “Ventimila sterline siriane al mese” (400 euro circa). Ma come facevate a credere che le manifestazioni fossero davvero di “terroristi”? “Agli shabiha non importa nulla delle proteste o del regime, o anche del presidente, è solo che è bello fare quello che si vuole. Possiamo prendere quello che ci piace di più, fare ogni genere di violenza, e nessuno ci dice niente. Anzi, ci incoraggiano”. Qualcuno vi dava ordini, tra i militari? “Sì, gli ufficiali del servizio segreto dell’aeronautica militare (creato dal padre di Bashar, Hafez, che era generale e pilota, è l’intelligence più temuta della Siria ed è formata dagli agenti più devoti al governo, ndr). Loro ci dicevano cosa fare”. Segue una lista di nomi, che finisce registrata su videocamera.
I ribelli insistono su una domanda in particolare: “Hai visto i libanesi di Hezbollah o gli iraniani? “No, non li ho visti perché non lavoriamo assieme ad altri gruppi, ho sentito dire che ci sono stranieri ma forse sono stati chiamati per compiti speciali”. Che compiti speciali? “Non lo so dire, forse fare i cecchini”. Come ti sei fatto i lividi? “Mentre combattevo contro l’esercito libero di Siria”, risponde al Foglio. “Sei molto diplomatico”. Allarga un mezzo sorriso desolato.
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