Ode al Milan povero

Paolo Rodari

Adriano Galliani l’aveva promesso e tre giorni fa l’orrido ha avuto inizio. Il Milan ha dato il là a una procedura che ha dell’incredibile: il rimborso degli abbonamenti per quei tifosi che non hanno gradito le ultime scelte di mercato del club della famiglia Berlusconi. Ti senti tradito dalla doppia cessione di Ibrahimovic e Thiago Silva? No problem. Potrai restituire la tessera alla società nei tempi e nei modi indicati. “E’ una questione di stile”, ha detto Galliani, stile, a suo dire, rossonero.

    Adriano Galliani l’aveva promesso e tre giorni fa l’orrido ha avuto inizio. Il Milan ha dato il là a una procedura che ha dell’incredibile: il rimborso degli abbonamenti per quei tifosi che non hanno gradito le ultime scelte di mercato del club della famiglia Berlusconi. Ti senti tradito dalla doppia cessione di Ibrahimovic e Thiago Silva? No problem. Potrai restituire la tessera alla società nei tempi e nei modi indicati. “E’ una questione di stile”, ha detto Galliani, stile, a suo dire, rossonero.
    C’era una volta il lancio della tessera. Lo facevano dieci, vent’anni fa o forse di più, i tifosi dell’Inter. Sotto Natale le cose erano già chiare a tutti: i nerazzurri non avrebbero vinto nulla. Fuori dalle coppe, arrancavano a metà classifica, a un passo dalla B. E allora eccoli, gli impellicciati della tribuna rossa, scendere sigaro in bocca fin verso il parterre e lanciare la tessera in campo mentre i giocatori rientravano mesti negli spogliatoi. Come a dire: “Io qui non ci vengo mai più!”. Un tifoso di sponda rossonera non l’avrebbe mai fatto. Che cosa conta vincere o perdere? La fede non cerca premi, la fede è cieca. Se c’è, resta, qualsiasi disgrazia accada.

    Allora non c’era sonfitta che tenesse. Figurarsi una campagna abbonamenti finita male. Il tifoso milanista, insomma, estrazione popolare, periferie maleodoranti, il tipo che mai si sarebbe permesso una cena all’Assassino nonostante sapesse che i suoi idoli era lì che sempre andavano a mangiare, “casciavit” e mica “bauscia” (copyright Gianni Brera) per intendersi, la tessera non l’avrebbero mai lanciata. Figurarsi protestare ancor prima del calcio d’inizio di fine agosto. Roba da fighette nerazzurre, suvvia.
    E, invece, la realtà è un’altra. Ed è che oggi qualcosa è cambiato. Cosa è stato non si sa, ma i diavoli della curva Sud sembrano non esistere più. Le brigate rossonere, la fossa dei leoni, il tifo proletario che la maglia ce l’aveva cucita dentro, nei polmoni che cantavano per novanta minuti e nelle budella che si contorcevano in moti di sofferenza irrefrenabili esattamente per lo stesso arco di tempo, sembrano svaporati.

    E sovviene alla mente un bambino di dieci anni appena compiuti. Padre juventino, cercava una sua strada. Troppo deludente il tifo bianconero per essere dei loro. La Juve vinceva campionati ma il suo Comunale era triste, freddo, sempre mezzo vuoto. Un amico lo invitò a San Siro con suo padre, milanisti nel midollo. Era il 15 maggio 1983, pioggia su Milano e rossoneri in serie B. Era la partita clou, con la Lazio che sarebbe arrivata a fine anno seconda, dietro il Milan. Partita clou, certo, ma pur sempre della serie cadetta. Di là, sui campi “veri”, Platini, Boniek, Prohaska. E di qui?
    Quel bambino sale le scale che portano ai distinti. Manca un’ora al fischio d’inizio, c’è silenzio dentro, almeno così sembra. Un gradino ancora e poi eccoli, cento metri di prato verde bagnati dalla pioggia. Il bambino è senza fiato. Quasi sviene. L’emozione gli sale in gola e lo fa piangere. Non è tanto il prato, dove per anni sognerà di giocare, e non è nemmeno l’attesa del match. E’ ciò che sta intorno a farlo ansimare. “Perché sono della Juve?”, si domanda invaso da un’angoscia vertiginosa.
    Centomila. I centomila dei due anelli. Seduti, in silenzio, aggrovigliati su tribune senza seggiolini, ad aspettare che Barbaresco di Cormons fischi il calcio d’inizio. Molti stanno in ginocchio, a metà degli spalti, nel passaggio che porta all’uscita. In ginocchio, non so se mi spiego. Quella gente rappresenta qualcosa che non si può descrivere, una fede vera per quel bambino che piange di stupore e di dolore insieme. Possibile? In serie B una folla così straboccante? Sì. Così era, il cuore del diavolo. Cuore pulsante, brigate di leoni, tifosi per davvero. Altro che spending review e paganti da rimborsare, altro che Galliani, o “anno zero” del Milan come lo chiama Allegri.

    “Milan campione, la Lazio in A è solo un’illusione”, mostrano le brigate sotto i fumogeni bianchi. E i ventidue entrano in campo. Di qua c’è un certo Franco Baresi, ci sono Vinicio Verza, Evani, Serena e Oscar Damiani. Di là Orsi, Manfredonia, Giordano e D’Amico. Partita a senso unico. Verza sulla fascia dribbla che non sa nemmeno lui come. Serena segna da ogni dove. Goleada rossenera e pubblico che è come se abbia vinto la Coppa del mondo. Mentre è soltanto la certezza matematica del ritorno in A. Che anno. Se ne vanno Novellino, Maldera, Antonelli, Buriani e se ne va anche Collovati, il grande traditore, che appena dopo aver vinto i Mondiali passa all’Inter. Ma è una fortuna, per il Milan. Perché lì, nel mezzo, è Franco Baresi a emergere. Ha ventidue anni e indossa la fascia di capitano: trenta presenze e addirittura quattro gol. Baresi riceve molte offerte in quei mesi. “Che fai nel purgatorio?”, è la voce di tante sirene. Ma lui rimane. Castagner, in panchina, lo inventa regista basso, un passo avanti la difesa, a dettare tempi e ritmi. Che senso ha tenerlo dietro se gli avversari non superano mai il centrocampo? Ma il motivo dell’avanzamento è anche un altro: Baresi deve dimostrare di saper giocare altrove. In Nazionale, infatti, ha davanti il mostro sacro Scirea, impossibile rubargli il posto. Ai Mondiali spagnoli, non a caso, Baresi non gioca un minuto. Ma la promessa è lui, e i tifosi del Milan lo sanno. E lo ricompensano con un affetto unico. E oggi? Che effetto fa oggi Baresi, “il capitano”, lui che nonostante i pochi soldi è rimasto nel purgatorio, a quei tifosi che rivogliono indietro i soldi?

    Pochi lo ricordano, il Comunale di Cava de’ Tirreni, tra Nocera Inferiore e Vietri sul Mare. Nel 1982 non era ancora intitolato a Simonetta Lamberti, una bambina uccisa proprio in quell’anno dalla camorra, per errore, nel tentativo di colpire il padre, il giudice Alfonso Lamberti. Era semplicemente il Comunale, niente in confronto a San Siro. Il 2 aprile c’erano dei tifosi rossoneri in quello stadio. Arrivarono da Milano per Cavese-Milan, ventottesima giornata di B. Un due a due dai contorni dubbi. Clamoroso il retropassaggio di Battistini che al posto di appoggiare su Baresi dà palla a Caffarelli che pareggia. Ma al di là del risultato ciò che qui conta sono solo loro, i tifosi, quei cento scesi da Milano in anni dove viaggiare non era così facile. Assiepati in uno spicchio del piccolo stadio come marziani arrivati da un mondo sconosciuto, hanno assistito alla partita in silenzio, senza nemmeno il coraggio di un timido “forza Milan”. Tifosi unici, veri, che già due anni prima (stagione 1980-81, il Milan ancora in B) scesero fino allo stadio Jacovone di Taranto, gradinate di legno duro, per una partita storica. Il Milan, capolista imbatutto fino a quel momento, perse tre a zero. Ma non sta qui la notizia. Piuttosto nel gol pazzesco – il due a zero – del numero 11 del Taranto, Cassano. Un momento unico, irripetibile, per i tarantini. Tanto che ancora oggi nei bar, per le strade, ne parlano. Cassano prende palla sulla sinistra. Punta l’area quando vede davanti a sé il “mostro” Baresi. Altro che il doppio passo di Messi o di Cristiano Ronaldo. Cassano mette in scena tre finte da manuale, palla incollata al tacco del piede e via. Alla terza Baresi è a terra, sdraiato, inerme. Cassano è solo in area e non gli è difficile segnare di sinistro. Lo Jacovone esplode a tal punto che anche il cameraman abbandona la sua postazione ed entra in campo ad abbracciare i giocatori. Con lui, con loro, decine di tifosi, un’invasione di campo imbarazzante ma anche lecita vista la storicità dell’evento. Fare mille chilometri per sedersi su delle panchine di legno e vedere la propria squadra perdere tre a zero non è da tutti. E’ un’impresa per tifosi veri, che ancora pagavano di tasca propria le trasferte, la paga della fabbrica dispersa in giro per l’Italia, benzina, chilometri e panini di fortuna.

    Chi rivuole i soldi indietro, chi si vergogna perché Ibra a Thiago Silva non sono restati, dovrebbe fare un giro a Milanello. Tra le coppe esposte c’è anche lei, la famigerata Mitropa Cup, il trofeo della Mitteleuropa cadetta. E poi dovrebbe ricordare che non dei soli Van Basten, Rivera, Gullit o Kaká è fatta la storia della propria squadra. C’è anche un certo Egidio Calloni a costellarla di eventi memorabili. Gianni Brera lo definì “sciagurato”, perché si mangiava gol impossibili, uno via l’altro, una goduria per i tifosi avversari. Rivera gli serviva assist pazzeschi, che lui sprecava suscitando più compassione che risentimento. Ma il buon Calloni fa parte della storia del Milan, compresa la sua umiltà che molti tifosi sembrano oggi non avere: dopo aver giocato nel Milan si ritirò a vendere gelati in giro per la Lombardia. In “Rossoneri” è Davide Grassi a dedicargli parole che restano: “Calloni mi piaceva perché era un simbolo dell’imperfezione e, quindi, reale, umano. Lo sciagurato Egidio da Busto Arsizio da bambino tifava Inter e da grande, nel 1974, diventò centravanti del Milan”.

    E dopo Calloni, ecco Luther Blissett, l’anglo-giamaicano pupillo di Elton John. Blissett era unico: non segnava mai. Un bidone tremendo. Brera, ancora lui, lo soprannominò non a caso Luther Callonissett tanto gli ricordava Calloni. Era arrivato in Italia con un bel biglietto di presentazione, le ventisette reti segnate in Premier League con la maglia del Watford. Per portarlo al Milan il presidente Farina versò nelle casse della società inglese due miliardi e duecento milioni di lire. E lo fece nonostante si sapesse che sotto porta, Blissett, non fosse poi chissà quale fenomeno: il “Nickname” che gli avevano affibbiato, infatti, i tifosi del Watford era “Miss it”, e cioè “sbaglialo”. Arrivato a Milano si rivolse ai tifosi e disse loro: “Platini ha segnato diciotto gol ma io ne farò di più. Diventerò presto il vostro idolo”. Segnò appena cinque gol e venne immediatamente rispedito al Watford. Ma la sua leggenda non tramontò. Anche se scarso fu amato. I tifosi del Milan non avevano, allora, alcuna puzza sotto il naso: Blissett e i suoi “non-gol” restarono mitologici. E con Blissett tanti altri. Scrive ancora Grassi: “Chi si ricorda, ad esempio, di Giulio Zignoli, detto il Prete per la sua fede fervente? Pochi, quasi nessuno. Eppure giocò ben cinque stagioni nel Milan degli anni Settanta. Era un terzino fluidificante di cui ho ancora chiare le sgroppate sulla fascia e i calzettoni arrotolati, alla Pierino Prati. Me lo ricordo bene. Altro esempio: Roberto Antonelli, detto Dustin, per la somiglianza con l’attore americano Dustin Hoffman. Quando si rievoca il Milan della Stella tutti pensano all’ultima annata – pregiata e dispensata con parsimonia – del mio idolo Rivera. Oppure ai gol di Aldo Maldera e alle parate di Ricky Albertosi. Ma lui, Dustin, fece una stagione incredibile. Prendeva la palla e poi verticalizzava il gioco, come si usa dire – in modo orrendo – oggi. E quanti milanisti sanno oggi chi è Stefano Cuoghi?

    Centrocampista, era soprannominato Bombardino e con la maglia rossonera calcò i duri campi della serie B. Come anche Vinicio Verza – per il quale avevo una vera adorazione – una mezzala scaricata troppo presto dalla Juventus che venne invece apprezzata a Milano. E ancora: Joe Jordan, lo Squalo scozzese, che quando giocava si toglieva gli incisivi per esibire un sorriso terrificante. Squalo in campo, ma gentiluomo fuori. Avrebbe potuto recitare nel film di Ken Loach che porta proprio il suo nome: “My name is Joe”. Sarebbe stato perfetto nella parte dell’allenatore che tenta di allontanare gli amici dalla droga e dal disagio sociale insegnando come si colpisce la palla di testa. E a qualcuno dice qualcosa il nome di Antonio Rigamonti? Era il portiere di riserva del Milan della Stella e non giocava quasi mai. Alto e magro, aveva due baffi che lo avrebbero reso perfetto per uno spaghetti western di Sergio Leone. Nel suo piccolo diventò famoso perché, quando ancora giocava nel Como, tirava i rigori. E in quel modo segnò anche tre reti. Ancora oggi è secondo nella classifica dei portieri-cannonieri italiani: meglio di lui ha fatto solo Sentimenti IV, con otto gol. Potrei continuare a lungo a elencare giocatori, come vini d’annata. Una volta passai una bellissima serata con un amico casciavit a ricordare milanisti di secondo (e a volte anche terzo) piano persi nella notte dei tempi. Un passatempo che consiglio anche ai tifosi di altre squadre. In quell’occasione uscirono nomi incredibili: Zazzaro, Golin, Minoia, Dolci, Casone, Paina, Silva, Galluzzo, Mancuso, Carotti, Macina, Vincenzi, Chiodi, Mandressi, Gaudino. Questi nomi sono musica per le mie orecchie. Profumo di figurine Panini”.

    Musica per le orecchie, profumo da Panini. Quanto varrà fra vent’anni, per un tifoso oggi ancora in erba, la figurina Panini di Rodney Strasser. Probabilmente di più, molto di più, di quella di Ibra. Perché lui, il centrocampista sierraleonese, nel Milan di Ibra ha giocato una sola volta, quasi per caso. E lui, a differenza di Ibra, non se ne è andato, pronto a entrare in campo per quei pochi e veri tifosi rimasti.