
Diario russo
Pellegrini verso l'artico nelle isole dei monaci e del gulag
Raggiungere le isole Solovki in aereo, con breve scalo ad Archangel’sk, è comodo e probabilmente pittoresco per i cercatori di immagini su Google, ma è appropriato quanto andare alla prima della Scala in autobus, meglio lasciar perdere. L’eremitica barca a remi dei monaci Savatij e Zosima si presterebbe alla bisogna, ma il luddismo dei trasporti richiede tempi e tempra medievali, al momento indisponibili. Uno sciupato treno sopravvissuto alla Glasnost’ è abbastanza depurato da detriti occidentali per non arrivare sui sacri isolotti da smargiassi o come turisti con sandali e calzini bianchi.
Raggiungere le isole Solovki in aereo, con breve scalo ad Archangel’sk, è comodo e probabilmente pittoresco per i cercatori di immagini su Google, ma è appropriato quanto andare alla prima della Scala in autobus, meglio lasciar perdere. L’eremitica barca a remi dei monaci Savatij e Zosima si presterebbe alla bisogna, ma il luddismo dei trasporti richiede tempi e tempra medievali, al momento indisponibili. Uno sciupato treno sopravvissuto alla Glasnost’ è abbastanza depurato da detriti occidentali per non arrivare sui sacri isolotti da smargiassi o come turisti con sandali e calzini bianchi. Un compromesso accettabile. Partenza da San Pietroburgo alle 17.20 in direzione Murmansk, la più grande città del mondo nel Circolo polare artico, nonché porto strategico per passare a occidente e base delle navi militari che durante la Seconda guerra mondiale si sono esercitate in una delle attività preferite dai russi, respingere i tedeschi. Per arrivare alle Solovki non c’è bisogno di spingersi fino al limite nord della Carelia, basta fermarsi a Kem’, cittadina portuale in cui l’improponibile stazione dei treni è di gran lunga l’edificio più accogliente. La babusˇka che esige i biglietti davanti alle porte del treno salta la parte del “buongiorno, buonasera” e arriva direttamente alla parola che conta: passport. Sfoglia le pagine in fretta, salta dalla pagina principale a quella su cui è incollato il visto, perde la pazienza nel passaggio fra i caratteri latini e quelli cirillici, confronta per due minuti le fotografie con le facce reali con un sospetto che mette a disagio. La babusˇka controllore conferma che la prova del passaporto è passata con un movimento del sopracciglio. Si innervosisce perché i turisti non lo colgono al volo e passa alla fase biglietti. Biglietti elettronici? No, niente biglietti elettronici. Niet. Niente Murmansk, niente Kem’, niente Solovki, niente di niente. Il colpo di reni della Russia occidentalizzata, o quasi, è la controllore più giovane che arriva di corsa al binario con il respiro corto e un foglio fra le mani, il salvifico elenco dei biglietti elettronici, sul quale sono segnati per lo più nomi occidentali. La stramaledettamente piacevole droga degli acquisti on line.
La babusˇka riesamina al volo l’intera pratica, fa il gesto del sopracciglio e cede il passo ai turisti con zaini eccessivamente puliti e dai quali non pende nessuna tazza, primo errore strategico di questo grottesco tentativo se non di mimetizzarsi almeno di immedesimarsi. Immedesimarsi in cosa, questo si vedrà poi. Il residuato che ci porta verso nord è un teatro naturale della commedia degli equivoci, ci si immaginano valigie che si scambiano e mani che frugano nelle tasche altrui in quel momento fatidico in cui ci si incrocia nel corridoio. La scena è a metà fra Renato Pozzetto e Agatha Christie. Si cercano i soldati che si bevono le ultime ore di licenza prima di tornare ad amministrare le rompighiaccio nucleari lassù al nord, ma il primo dono dello scompartimento a quattro letti si chiama Grisˇa, ha ventidue anni, viaggia da un giorno e gliene manca un altro per arrivare a destinazione. La qualità dell’aria nello scompartimento ne risente. Arriva da Kaliningrad, città di porto ed enclave che in tempi prussiani era stata Königsberg. “La città di Kant, no?”. “Kant è ovunque a Kaliningrad”, dice Grisˇa, ma nei suoi occhi si legge: “Che palle questi riferimenti occidentali”. Epperò, alla faccia dei riferimenti occidentali, il ragazzo divora avidamente il “Silmarillion” e confida che spesso e volentieri si unisce a bande di sciamannati tolkieniani che si travestono da elfi, nani, hobbit e quant’altro e organizzano gitarelle di ruolo nel nulla che c’è appena fuori da ogni città russa. Si informa se rituali simili si praticano anche in Italia, e accoglie con soddisfazione la notizia che sì, gli sciamannati sono ovunque. Sciamannato e maleodorante, Grisˇa ha il vantaggio strategico della tazza, con la quale sfrutta il samovar incastonato nell’impianto idraulico del treno, fondamentale per bere un tè ma soprattutto per bere acqua sicura. I turisti non muniti di tazza devono arrangiarsi goffamente con bottiglie di plastica a rischio squagliamento, il che rende chiaro anche ai muri che nessuno fra i suggitori di tè plastificato ha nemmeno un cugino di secondo grado a Petrozavodsk.
Quando la babusˇka del passaporto ricompare vien voglia di battere i tacchi e rimanere sull’attenti. Ma la babusˇka è un’altra. E’ la stessa, però rispetto al trattamento sovietico di San Pietroburgo è tutta un’altra storia, un altro calore umano, un altro atteggiamento verso il prossimo. Offre con grande gentilezza il fagotto che spetta a ogni viaggiatore: lenzuola scompagnate che saranno state bollite migliaia di volte, una federa della misura sbagliata ma che contiene le piume che i cuscini invariabilmente rilasciano nello scompartimento e quello che una volta era stato un asciugamano. Viene in mente quel passaggio commosso e dolente del dissidente Charabarov: “Mi ricordo che improvvisamente dal fiume dove stanno scuri i pagliai uscì una donna dalla nebbia con un secchio di latte tiepido. Odorose di frescura campestre, le dita della sua mano ci scossero la polvere dalla camicia, ci abbottonarono il colletto. E ci sembrò che la Russia fosse proprio questa, e non l’altra che ci ha chiesto i documenti e ci ha esaminato il passaporto”.
“Siete italiani, dunque andate alle Solovki, giusto?”. Come sarebbe a dire andiamo alle Solovki? Dove ce l’abbiamo scritto? Da cosa l’ha dedotto, cara compagna dalla doppia identità? Un passaporto italiano vuol dire caciara, problemi, cazzeggio, superficialità, pallonate, vuole dire battute grevi su Berlusconi, sull’inefficienza del sistema, significa spread alla carbonara, inaffidabilità, broccolaggio senza frontiere, vuole dire se va bene Alberto Sordi se va male Toto Cutugno (va quasi sempre male), con un italiano bisogna parlare di quanto sono belle Venezia Firenze Roma (per i turisti si tratta in fondo di un’unica, enorme città), quanto è gentile la gente e quanto è buono il cibo. La celestiale inferenza della babusˇka è roba da gettarsi a terra e stringerle le ginocchia. Italiani, dunque pellegrini, quale meraviglioso salto logico. Il fatto è che ogni anno un gruppo di pellegrini dell’associazione Russia Cristiana, acquartierata nei pressi di Bergamo, sale su quel treno per Murmansk alla volta delle Solovki per contemplare il luogo sacro e ricordare le brutture con cui i bolscevichi ne hanno ribaltato la sacralità. La signora ogni anno li incontra sul treno e dato che la Carelia non è Ibiza, non ha molta occasione per incontrare brandelli di italianità ulteriore: nella sua testa gli italiani sono un popolo di pellegrini, punto. L’acqua naturale, però, non ce l’ha nemmeno per i pellegrini, e tocca ripiegare su un tè verde Lipton, un manrovescio a ogni velleità autoctona, giusto per avere una bottiglia vuota da riempire con l’acqua del samovar. Ci vuole un po’ per completare l’operazione, ma la verità è che ci vuole un po’ per completare qualsiasi cosa. I locali s’arrampicano come acrobati sui letti superiori dello scompartimento (ce ne sono quattro per scompartimento, disposti come letti a castello) e in due mosse srotolano il materasso e tutti i suoi abitanti, lo avvolgono nelle lenzuola bollite, sistemano gli effetti personali sulla retina tattica e i bagagli ingombranti nei vani appositi, e a quel punto tirano fuori una tazza piena d’acqua bollente e iniziano a guardare il mondo in cagnesco. Agli altri, i non autoctoni, ci vuole un corso d’arrampicata ferroviaria, decine di “izvinitie” pronunciati male e altrettanti apologetici e inutili “ia nie gavariù pa russki”, che tanto lo sanno anche i binari che non parli russo. Alla fine, quando la branda sopraelevata ha finalmente assunto un aspetto compatibile con la propria idea di letto, ci si può immergere nella lettura di un romanzo evidentemente russo e così aspettare che venga buio. Il problema è che in questa stagione non viene mai buio e la mascherina da aereo, oltre a essere da aereo, sarebbe una caduta di stile che arrivati a questo punto non ci si può permettere.
Grisˇa è diverso. Sarà la storia dell’internazionale degli sciamannati oppure che è giovane come un giunco, oppure che la manutenzione delle locomotive di Kaliningrad, il suo lavoro, non è elettrizzante, ma, Kant a parte, c’è una curiosità non sospettosa verso l’occidentalismo che invano si cerca di nascondere. “Non sono amico delle lingue” è il modo con cui liquida una domanda stupida circa la padronanza dell’inglese, ma per il resto è ciarliero, fa digressioni tecniche sulle locomotive, spiega perché le cambiano ogni volta che il treno sosta in una nuova provincia, organizza spedizioni fra un vagone e l’altro dove sulle pareti di un interstizio verniciato di resina grigio topo compare una salvifica scritta traghettata dal socialismo reale: “Posto per fumare”. Quando il treno si ferma a Petrozavodsk sono quasi le due di notte e come in una canzone d’ambientazione russa di Battiato si scopre l’alba dentro l’imbrunire. La luce annuncia i primi vagiti del giorno, le anziane signore con il capo coperto che fanno su e giù per la banchina salmodiando “pirosˇki! pirosˇki!”, sono parte di una scena vespertina. Ci si risolve per l’acquisto di una latta malconcia e tiepida di Sibirskaja Korona, nettare siberiano a basso costo, e Grisˇa sconsiglia di prendere i pirosˇki dalle vecchine locali, “perché non si riesce a distinguere qual è ripieno di gatto e quale di topo”. Qualcuno, evidentemente cosciente dei rischi alimentari, si infila fra i vagoni di un treno merci fermo sul binario a fianco per raggiungere il bar della stazione, quello ufficiale. Con la solita sovietica precisione il treno si immerge di nuovo nei boschi di betulle, interrotti di tanto in tanto da una segheria stagionale con comignoli fumanti e nessun altro indizio di presenza umana. Un venditore ambulante di immagini sacre e scadenti passa per i vagoni, versione russa del venditore di bibbie che si aggira per la Bible Belt in un racconto di Flannery O’Connor. C’è un ritmo perfetto nell’incedere dei vagoni, senza traccia di aggressività, come se il treno volesse annunciare con discrezione alla natura circostante il suo imminente passaggio, e ci si sorprende a desiderare che la fermata non arrivi mai, e si possa proseguire fino a Murmansk e chissà dove ancora, leggendo romanzi che non finiscono, lavandosi con l’acqua fresca che puzza di cloro in un bagno metallico a suo modo dignitoso, parlando con la controllora fintamente ostile degli italiani pellegrini e fumando sigarette nazionali con tutti i Grisˇa della Russia.
Kem’ è un’accozzaglia di cubi di pietra accatastati che mette nostalgia dei palazzoni sovietici delle periferie. L’imbarcadero è a pochi chilometri ma l’autobus, l’unico della città, sembra faccia apposta a passare quando non c’è nessun treno in arrivo alla stazione. C’è però una Fiat Ritmo grigia con tappezzeria datata circa 1982, arbre magique slavo ormai esausto e un uomo baffuto a bordo che per 150 rubli porta i pochi turisti interessati al porticciolo dove due volte al giorno, a orari variabili, un traghetto arriva a caricare chi è diretto alle Solovki. Un compagno di scompartimento salito lungo il tragitto, chiaramente ubriaco, aveva già avvertito che le isole sono un posto per stranieri: “Io sono di Kem’ e non ci sono mai andato”. Lo diceva con un sussulto d’orgoglio, come se per i locali visitare quel monastero secolare per il quale persino gli zar si schiodavano dall’antica capitale, Novgorod, per prostrarsi di fronte alle sue maestose iconostasi, fosse un imperdonabile cedimento a un costume degenerato. Arrivati al porticciolo si capisce l’ostilità. Una sbarra con guardiola annessa divide la putrida città industriale da un borgo che sembra uscito da una fiaba nordica, graziosi cottage di legno perfettamente levigato con finestroni che buttano luce su grandi sale sopraelevate, cartelli in caratteri latini, cani dal pelo lucido che ciondolano su strati d’asfalto stesi da poco. Un ragazzino, avrà tredici anni, sta seduto su una montagna di tronchi giovani e monumentali e li scorteccia con calma per renderli adatti a edificare i nuovi cottage che spuntano tutt’intorno.
La ragazza che accoglie i turisti alla reception si muove veloce dentro la sua camicetta di raso, ha occhi di porcellana che dicono “io non sono di qui”, e cambia d’umore quando scopre che almeno uno dei due pellegrini parla la lingua di Tolstoj e Dostoevskij. Mostra agli ultimi arrivati una sala dove servono pirosˇki con ricotta acida e marmellata di lamponi e mentre il sole si alza veloce sul mar Bianco un traghetto spunta all’orizzonte e si muove placido verso la banchina. Il mar Bianco è una tavola color dell’ardesia, ma evidentemente gli strati di ghiaccio che lo ricoprono durante l’inverno si imprimono con più forza nella memoria del popolo, e il volto nero che indossa durante la breve estate non è sufficiente a prevalere sull’algido candore. Questa è la stagione dell’eccezione, non della regola. Le Solovki sono un arcipelago di circa un migliaio di isole sparse dal più grande degli artisti dadà su un mare di colla. Molte sono poco più che scogli abitati soltanto dalle foche, altre erano dimora di esicasti solitari che nel segreto delle loro urne imparavano la preghiera di Gesù e attraverso quella, pronunciata al ritmo del respiro, si sforzavano di “circoscrivere l’incorporeo nel corporeo”, come scrive Giovanni Climaco. Nell’isola Bol’sˇoj, la principale, si trova uno dei monasteri più importanti dell’ortodossia russa, e quando, dalla visuale della nave, le scure cupole a cipolla prendono a stagliarsi contro un cielo abitato da nuvole poco minacciose, si percepisce quanto sia sciocco continuare a lanciare il pane ai gabbiani come fanno i turisti ucraini sulla tolda. Viene soltanto voglia di ripetere l’incipit dei “Racconti di un pellegrino russo”: “Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni gran peccatore, per condizione un pellegrino senza terra, della specie più misera, sempre in giro da paese a paese. Per ricchezza ho sulle spalle un sacco con un po’ di pane secco, nel mio camiciotto la santa Bibbia, e basta. La ventiquattresima domenica dopo la Trinità sono entrato in chiesa per pregare mentre si recitava l’Ufficio; si leggeva l’Epistola dell’Apostolo ai Tessalonicesi, in quel passo dove è detto: ‘Pregate senza posa’. Quella parola penetrò profondamente nel mio spirito, e mi chiesi come sarebbe stato possibile pregare senza posa dal momento che ognuno di noi deve occuparsi di tanti lavori per sostenere la propria vita”. E molto prima di Cˇernisˇevskij e Lenin, il pellegrino si era fatto la più rivoluzionaria delle domande: “Che fare?”. E si mise in cammino.
L’arcipelago delle Solovki è noto per lo Slon, Soloveckij Lager’ Osobogo Naznacˇenija, il campo di prigionia per “scopi speciali”, impiantato all’inizio degli anni Venti dopo un primo sopralluogo della guardia rossa ordinato da Lenin già nel 1918, quando in teoria i bolscevichi avrebbero avuto faccende più urgenti da sbrigare di inviare una delegazione in una remota isola a 160 chilometri dal Circolo polare artico. I luoghi ostili per la prigionia non mancano in Russia, perché proprio le Solovki? E’ la prima domanda che facciamo a Jurij Brodskij, fotografo prestato alla scienza storica e genius loci incontrastato dell’arcipelago. Nel 1998 ha pubblicato “Solovki. Le isole del martirio” (La Casa di Matriona), imponente e tuttavia non enciclopedica ricognizione della vita delle Solovki, dalle prime tracce di insediamenti umani fino agli orrori novecenteschi marchiati dalla più spaventosa delle parole: rieducazione. Se educazione è termine liberante, via d’uscita possibile dalla solitudine e dalla dissipazione umana, rieducazione ne è un orribile rovesciamento che sa di tentativo, tendenzialmente violento, di raddrizzare il legno storto dell’umanità, oppure, come in un vecchio racconto del dissenso, di estrarre quell’enorme chiodo che chissà come s’è conficcato in mezzo al tavolo della cucina. Il padre s’affanna per sradicarlo, chiede aiuto al figlio, s’armano di pinze e martelli per togliere quell’impiccio, la moglie urla per lo spavento, ma non c’è molto da fare, il chiodo non esce. E’ quando l’orda dei nipotini festanti arriva a mettere a soqquadro la casa che il chiodo improvvisamente svanisce. Rieducazione è anche il termine sul quale Maksim Gor’kij, il più generoso araldo delle Solovki e del Canale Belomor, opera assurda e titanica fatta per santificare il primo piano quinquennale, indulge più di frequente: elogiava il campo di lavoro per la sua “utilità sociale e capacità rieducative”, un “luogo indispensabile” dove “aiuole fiorite crescevano intorno alle caserme”. E non diede retta a quel ragazzino che gli si era avvicinato: “Gor’kij, la vuoi sapere la verità sulle Solovki?”. Ma torniamo a Brodskij. Perché, dunque le Solovki? Il fotografo, con i suoi capelli bianchi setolosi in cui le zanzare si fermano per trovare riparo dal vento che viene da nord, prende a parlare di ornitologia e botanica, di magnetismo, dei tipi di paludi che si trovano nelle isole, di una certa specie di beluga che vive soltanto su quelle coste, dell’infinita varietà della fauna, della capacità produttiva di quella terra nera e di altre cose che apparentemente con il Gulag non c’entrano nulla.
Muoviamo verso la costa, sul litorale ci sono “i labirinti”, complicati bassorielievi di pietra e terra che emergono appena dal terreno e sui quali gli archeologi non riescono a mettersi d’accordo. La versione più accreditata è che risalgano a quattromila anni fa, quando una popolazione forse vichinga ha riconosciuto nelle isole un certo tratto mistico o il portale d’accesso a una dimensione ultramondana. I labirinti testimoniano questa pulsione per l’oltre. Ecco che il racconto di Brodskij si lega ai bolscevichi che arrivano di corsa ad abbattere le cupole con le corde, a fondere le coppe e bruciare le icone. “Questo è un luogo che ha sempre attratto l’uomo, c’è qualcosa di misterioso qui, sia dal punto di vista naturale sia da quello della capacità produttiva dell’uomo. I bolscevichi non hanno inventato nulla. Sono venuti qua come generazioni e generazioni di uomini prima di loro”. Nel XVI secolo il monastero delle Solovki era abitato da circa settecento monaci e la produzione del monastero era talmente abbondante che avevano preso a fare esportazioni nel continente. Hanno scavato centinaia di chilometri di canali per mettere in comunicazione il mare con i laghi che si rincorrono per l’isola. Savatij, Zosima e gli starcy che li hanno succeduti venivano, e vengono tuttora, venerati come santi dalla chiesa ortodossa. Non è raro trovare nei negozi religiosi di Mosca o Pietroburgo icone in cui i padri delle Solovki reggono il monastero, che s’innalza su un cielo dorato. Un detto antico recita: “Prima alle Solovki, poi in Russia”. Le solitarie isolette del mar Bianco anticipavano regolarmente usanze e costumi che si sarebbero diffusi più tardi in tutto l’impero.
“Stiamo andando al monastero, le va di accompagnarci?”. “Vorrei, ma non posso”. “Ah, è impegnato, certo”. “No, non sono impegnato affatto, soltanto non è conveniente che mi faccia vedere assieme a due turisti”. Brodskij era stato il fondatore del museo dello Slon, una casetta in cui si raccontava degli 850 mila prigionieri transitati da qui in quindici anni, delle decine di migliaia che sono morti sul suolo insulare, delle fucilazioni di massa, degli intellettuali come Pavel Florenskij, dell’intuizione di Solgenitsin, che nella diabolica organizzazione delle Solovki riconobbe l’archetipo del Gulag sovietico, esportato in tutta la Russia con l’efficienza che sappiamo. Si raccontava anche, faccenda delicata, di una certa connivenza di una parte della chiesa ortodossa nel grande progetto di rieducazione. A un certo punto si è ritrovato a non essere più il direttore del museo, le sue fotografie sono state rimosse, i suoi pannelli sostituiti con contenuti più edulcorati, le cifre dello sterminio rimpiazzate da versioni leggermente più reticenti. Lo hanno già segnalato più volte alle autorità, perché guidava i visitatori senza essere autorizzato. “Il governo dice che la mia versione della storia non è patriottica”, spiega, “e così mi hanno tagliato fuori”. Racconta che le segnalazioni impediscono la ripubblicazione del suo testo, che già nel 1998 era uscito prima in italiano e poi in russo (nell’epigrafe si rallegrava di aver avuto la stessa fortuna di Pasternak). “Ma lei ha paura?”. “E’ troppo tardi per avere paura”, e scompare lungo la via, salutando gente del popolo che ferma la macchina lungo la via per scendere ad abbracciarlo. La domanda, “hai paura?”, è la stessa che qualche settimana più tardi, passeggiando per i boschi della Lettonia, rivolgiamo a Ksjusˇa, la moglie di Dmitrij Golubovskij, detto Mika, il direttore dell’edizione russa della rivista Esquire. Mika ha seguito le proteste dei giovani a Mosca, è solidale con quel movimento che in primavera ha iniziato ad alzare la testa contro il potere del Cremlino, e passa da una manifestazione all’altra. “Un po’”, dice lei. La sera, mentre beve cognac armeno direttamente dalla bottiglia, Mika mostra un giochetto che hanno fatto con il sito di Esquire: se inserisci la data di nascita nell’apposito spazio, un calcolatore ti spiega quanti anni avrai quando Putin lascerà il potere. Ci ride sopra, e accende un’altra sigaretta.
Il monastero delle Solovki è un incanto di ori bizantini che lascia appena intendere che cosa doveva essere quel luogo nei secoli del suo splendore. A genuflettersi di fronte alla porta che nasconde l’altare ci si scopre latini, dunque fuori luogo in questo posto dominato dalla patristica greca, dall’eremitismo mistico, dalle litanie del monte Athos, dalle iconostasi a cinque ordini, dalla fissità liturgica nella quale è facile intuire una sovrabbondanza di simboli. Nella cappella della Trasfigurazione, dove il nuovo Cristo trafigge con i raggi che promanano dalla sua presenza i non credenti e soltanto chi ha l’aureola può sostenere la visione mistica, ci si sente più a proprio agio con il segno della croce al modo degli ortodossi, con ampio movimento del braccio e le tre dita giunte, nell’ingenuo tentativo di non essere scambiati per vecchi credenti. Per arrivare all’eremo di Sekira c’è una scala di legno con 298 gradini: i pellegrini che li affrontano tutti hanno rimessi 298 peccati (i bolscevichi buttavano i prigionieri giù per la scala, per risparmiare sulle munizioni) e preparano lo spirito per quello che vedranno nel minuscolo eremo, nel nord dell’isola principale. Vedranno la gratuità assoluta di una bellezza edificata per gli occhi degli angeli.
E’ quando il desiderio della contemplazione sembra ormai invincibile che è il momento di andarsene. Di nuovo sul traghetto, poi a Kem’, in un autobus affollato di bevitori di vodka. Tre ragazzi di città con pantaloni mimetici, zaini e bottiglie di Kvas nelle tasche fanno amicizia con un rubicondo beone del paese; al congedo gli danno qualche rublo e un buon consiglio: “Non bere troppo. Ma nemmeno poco”. Si finisce infine sul solito treno, questa volta nella direzione opposta. Alla stazione di Mosca ci aspetta il ghigno marmoreo di Vladimir Ilicˇ Lenin.


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