Storia della coppia che cambiò per sempre il senso delle Olimpiadi
L’Olimpiade contemporanea è un assist di Magic Johnson per Michael Jordan. Ciuf. Vent’anni. Mi-Ma, loro. Fondamenta, pilastri, colonne dei Giochi come li conosciamo adesso. Perché prima del Dream Team del basket americano c’era ancora un velo di ipocrisia sulle Olimpiadi: quel dilettantismo presunto e spacciato a cui nessuno credeva davvero, ma al quale tutti dovevano far finta di dare retta. Barcellona 1992 ha tolto la fuliggine: con Jordan, Johnson, Pippen, Bird, Robinson, Barkley, Stockton, Malone, Ewing e gli altri. La squadra dei sogni.
L’Olimpiade contemporanea è un assist di Magic Johnson per Michael Jordan. Ciuf. Vent’anni. Mi-Ma, loro. Fondamenta, pilastri, colonne dei Giochi come li conosciamo adesso. Perché prima del Dream Team del basket americano c’era ancora un velo di ipocrisia sulle Olimpiadi: quel dilettantismo presunto e spacciato a cui nessuno credeva davvero, ma al quale tutti dovevano far finta di dare retta. Barcellona 1992 ha tolto la fuliggine: con Jordan, Johnson, Pippen, Bird, Robinson, Barkley, Stockton, Malone, Ewing e gli altri. La squadra dei sogni. Le stelle più pagate del pianeta che sbarcano ai Giochi e li dominano in tutto: nelle foto, nelle immagini televisive, nell’attenzione di tutti. Nei punteggi: 32 punti di vantaggio in finale con la Croazia. Prima erano stati 68 contro l’Angola, 44 col Brasile, 41 con la Spagna, 51 con la Lituania.
Non ci fu storia perché bisognava riscrivere la storia: quattro anni prima, a Seul ’88, gli Stati Uniti persero il torneo di pallacanestro. Sconfitti dall’ultima Unione sovietica dello sport: un’umiliazione che teneva dentro la politica e la società. I russi che fregano gli americani nel loro sport. Fu una tragedia nazionale. L’America ripensò a se stessa: perché gli altri spedivano ai Giochi i professionisti e gli Usa invece giocavano coi ragazzini del college? Mandare i dilettanti era figo solo fino a quando non ci fosse stata la prima sconfitta. Arrivò e l’America cambiò: dentro le star, i colossi dell’Nba, i più forti sportivi del mondo. Barcellona ospitò il Dream Team fuori dal villaggio olimpico. Alloggiavano in centro, in un hotel costantemente assediato dalle tv di tutto il mondo. Jordan e Johnson, cioè l’atleta più forte dell’epoca e forse di tutte le epoche con il suo predecessore diventato da neanche un anno il primo sportivo globale sieropositivo. Insieme, compagni di squadra, amici, inconsapevoli distruttori dell’ultima barriera delle Olimpiadi. Vent’anni fa, con Mi-Ma, si aprì la porta dei Giochi contemporanei: prima l’Olimpiade regalava personaggi che nascevano in quelle due settimane.
Corridori, ginnasti, nuotatori: partivano dall’Olimpiade e si facevano conoscere. Valeva persino per i velocisti: Carl Lewis era il simbolo dei Giochi non dello sport in genere. Con il Dream Team di Jordan e Johnson, invece, sbarcarono ai Giochi personaggi che erano già star. Da allora i tennisti hanno cominciato a vedere l’Olimpiade come qualcosa che valga la pena di giocarsi. Da allora le Nazionali di calcio che vanno ai Giochi sono Under 21 rinforzate da qualche pezzo grosso. Quest’anno ci va Pato, Thiago Silva, Neymar. A Pechino c’era Messi. Nessuno sportivo snobba l’Olimpiade, se qualcuno gli propone di farla. Prima succedeva: quell’anno, a Barcellona, il tennis lo vinse Marc Rosset. Gli altri giocavano per allenarsi. L’esplosione di Mi-Ma fu il ritorno al futuro sublimato vent’anni dopo dal fatto che a Londra la gran parte dei portabandiera saranno professionisti e dal fatto che il tennis si giocherà a Wimbledon, dove il professionismo è di fatto stato creato.
Michael Jordan e Magic Johnson non lo sapevano allora. O forse sì. Quell’esperienza olimpica moltiplicò la loro fama. Per Johnson fu anche la fine della carriera. Oggi, gli spifferi postumi dicono che la federazione americana lo portò a Barcellona per compassione. Bugie. Magic era stato l’America: la sieropositività, l’ombra dell’Aids, le maldicenze avevano accompagnato i mesi prima, ma non riuscirono a distruggere il suo mito. Il Dream Team servì, certo: essere un simbolo planetario cancellò alcuni dei dubbi morali che gli Usa avevano avuto su di lui. Jordan, invece, avrebbe avuto ancora anni di gloria immensa, interrotti da una pausa dopo la morte del padre, ucciso nel 1993. Tornò per vincere e per essere il più grande giocatore di sempre.
Dicono che sia stato l’unico sportivo americano senza colore: mai un accenno alla pelle e alla razza, né in un senso né nell’altro. Era anche uno senza nome, volendo: bastava dire Air per capire. Volava. In America e nel mondo, perché Barcellona 1992 e il Dream Team hanno cambiato tutto: la storia delle Olimpiadi e quindi dello sport. Come un alley-oop perenne fatto in faccia al mondo. Assist di Magic, schiacciata di Michael. Non per sfregio, ma per piacere. Non sfidando, ma sorridendo. Non per vincere, ma per esportare la felicità di giocare. E di guadagnare. Senza ritegno, ma anche senza vergogna.
Il Foglio sportivo - in corpore sano