Restare al verde
Un default, l'erosione dei depositi bancari, le case che non valgono più nulla, le cure mediche al lumicino, l'energia carissima, i negozi che chiudono uno dopo l'altro, i posti di lavoro sempre più pencolanti.
E’ un dubbio, un’ombra, una vocina che dice “invece forse ti può capitare”. Non importa se per ora è saltato solo il superfluo che fino a ieri pareva normale, nell’economia domestica di quelli che non pensavano e in fondo non pensano possa succedere davvero quello che paventa Luca Ricolfi sulla Stampa (seppure come ipotesi limite e non del tutto probabile): un default, l’erosione dei depositi bancari, le case che non valgono più nulla, le cure mediche al lumicino, l’energia carissima, i negozi che chiudono uno dopo l’altro, i posti di lavoro sempre più pencolanti. E vorrebbero tanto girare la testa dall’altra parte, i cittadini di ceto medio (alto e basso) che leggono ogni giorno di “rischio Grecia” e “rischio Spagna” e di euro appeso a un filo. Vorrebbero non pensare, non pensarci, credere che si risolverà tutto e tutto sarà come prima, com’è sempre stato per i decenni in cui si è smesso di pensare che i nonni mangiavano pane e cipolla sotto le bombe e i genitori da piccoli mettevano lo stesso cappotto finché non aveva le maniche consunte e anche oltre.
Eppure qualcosa, a quel ceto medio, dice che no, che è già tutto cambiato, ed è come quando a scuola i professori spiegavano che “l’universo è infinito” e si restava un po’ così, con la mente che non riusciva a concepire l’idea: ma come infinito?, ma dietro le stelle ci sarà qualcosa, e dietro ancora qualcosa, e il buco nero di qualcosa dovrà pure essere pieno. E invece. Invece ogni giorno i giornali dicono: spread a cinquecento, contagio imminente, baratro senza fondo, fine delle certezze collettive (dal mattone investimento sicuro alla banca forziere di un domani sereno). E’ un’inquietudine sottile, quella di chi non sta malissimo come chi purtroppo stava malissimo anche prima né benissimo come chi sta benissimo anche adesso. E’ il ceto medio e medio alto che si sente come Mel Brooks nel film “Life stinks”, con il ricco che scommette con un altro ricco sulla sua capacità di vivere come un barbone – per un giorno, per un mese – e si autoinfligge la vera povertà. Solo che in questo caso non è una scommessa, e non è ancora per fortuna vera povertà. E’ un pensiero che si insinua sotto la consuetudine al benessere, e anche “una specie di senso di colpa”, dice Caterina Forti, libera professionista romana, “perché l’idea di essere spaventata per i guadagni mancati, cosa che ha già un impatto sulla mia vita, o di lamentarmi per la prospettiva di un futuro d’austerità che non mi aspettavo, mi fa sentire, davanti alle notizie che arrivano dalla Spagna, come Maria Antonietta che vuole dare brioche al popolo affamato”. In Spagna non c’è più il “socialismo magico” che piaceva a Concita De Gregorio (e ogni giorno Concita riporta su Repubblica testimonianze dal ceto medio disperato e fotografato in piazza, signori che criticano le misure che “colpiscono quelli di sempre” e pompieri nudi sotto al sole – come a dire “che altro volete toglierci?”). In Italia il socialismo magico non c’è mai stato, ma c’è la grande paura di diventare Madrid. Paura di restare al verde, e di restarci per sempre. (E a Roma una signora cinquantenne della borghesia consiglia a tutti di “comprare un salvadanaio di quelli non apribili, di argilla, e di ricominciare a mettere via monete – cinquanta centesimi, un euro, due euro”. Lei alla fine l’ha rotto, e con gran sorpresa gli euro risparmiati erano novecento, “buoni per un viaggio in tempo di crisi”).
“Credevamo di conservare una sorta di diritto naturale al lieto fine”, ha scritto Federico Fubini sul Corriere della Sera, e Caterina Soffici, sul Fatto, tornando da Londra, ha trovato un’Italia che “balla sul Titanic”, dimentica dei guai evidenti a chi la guarda dall’estero, attaccata all’illusione ottica del sole, del cibo, del mare, delle vacanze, delle intoccabili ferie d’agosto. Ma al di là della facciata chissà che cosa c’è, tra rimozione, incoscienza, angoscia e ottimismo resistente a tutto. Aziende in ristrettezze improvvise, mobilità, prepensionamenti: parole che per molti non sono più una lontana ipotesi per conoscenti sfortunati da consolare. Vuoi vedere che aveva ragione l’amico economista trapiantato a Londra, si pensa, l’amico-Cassandra che diceva “se hai dei risparmi compra sterline”, e tu non stavi a sentire, tanto i risparmi non li avevi, e neanche giravi il consiglio a chi li aveva.
Chi la studia, l’Italia pervasa dalla grande paura da crisi nera, come Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, dice che per molti “è come se stesse per cadere un meteorite, aprono le Borse ed è già panico, ma è anche schizofrenia. I sondaggi dicono che si va in vacanza più dell’anno scorso, seppure per vacanze meno costose. Bisogna poi guardare che cosa succede nei risparmi: chi vince e chi perde? C’è chi per la prima volta si sente ‘tradito’ dalla casa, chi maledice l’investimento in azioni e chi torna con soddisfazione al deposito postale”. In generale, dice Giuseppe Roma, “si cerca di arrangiarsi con quello che si ha: non più automobili in giro tanto per girare, la cosiddetta mobilità erratica; poca acqua minerale, più acqua del rubinetto, riduzione dei viaggi a favore delle seconde case. ‘Costano molto e si usano poco’, si diceva; ora si usano e basta. Il boom immobiliare del periodo 1997-2007, alla luce della crisi, parla di italiani preveggenti che si sono messi al sicuro invece di speculare”.
Passa per piccoli gesti, la paura sottile: “Già l’anno scorso abbiamo comprato i regali di Natale il 28 agosto, scontati, su Internet, con una spesa collettiva tra colleghe”, dice Francesca, dipendente pubblica romana consapevole di non poter “mai più aspirare all’aumento di stipendio” e di avere in prospettiva ben poco da mettere via. Nel suo ufficio c’è chi non compra più le sigarette – spesa troppo alta a fine mese, con tutti quei pacchetti da cinque euro – e si fa le sigarette da sola col tabacco (“un pacco sette euro”) e chi “per la prima volta comprerà libri usati alla figlia liceale”. La sera, a casa, c’è chi fa “la spending review” con suo marito. “Senti di non avere futuro”, dice Francesca, che quando è stata assunta (pagata in lire) pensava di avere un buon stipendio e un avvenire senza incrinature economiche. Si sentono “in stand by”, “cristallizzate”, le colleghe dell’ufficio, tra cui una precaria ultratrentenne che, dopo vari contratti a termine non più rinnovabili, ha “una grande voglia di tornare a studiare”. Ci si sente improvvisamente a rischio di una pre povertà gentile del tipo vissuto dalle sorelle March nel vecchio “Piccole donne” di Louisa May Alcott: famiglia benestante in rovina improvvisa, il cibo ancora c’è, un tetto anche, ma bisogna rinunciare a quello che si considerava irrinunciabile. “Natale non è Natale senza regali”, pensavano le quattro sorelle March al primo dicembre di ristrettezze, tra la zia ricca e bisbetica e il vicino bello e generoso, fiere di una nuova sobrietà che le faceva andare al ballo con il guanto macchiato da nascondere dietro al vestito datato ma rinnovabile. Non era certo l’Argentina da bancomat bloccati, era un universo ottocentesco anche ovattato e descritto con nostalgia elegiaca, quello delle “povere” sorelle March (anche se poi Jo vendeva i suoi capelli per aiutare la madre). E oggi lo scrittore Paolo Nori dice: “Le conseguenze del collasso finanziario che sembra sia all’orizzonte, per come le capisco io, e probabilmente le capisco male, se dovessi riassumerle brevemente direi che potrebbero essere queste: diventeremo più poveri. E quando penso alla povertà, mi vien sempre in mente una cosa che mi sembra dicesse Stendhal, al quale, come si sa, l’Italia piaceva moltissimo, e diceva che quello che gli piaceva, dell’Italia, era che in Italia, gli italiani, non si vergognavano di essere poveri. Allora, secondo me, se ritornassimo a pensarla a questo modo, che non c’è da vergognarsi, a essere poveri, credo che il collasso finanziario che sembra sia all’orizzonte ci farebbe molto meno paura”.
Ma forse ci vorrebbe la “pellaccia da coccodrillo” di cui parla il professor Tino Vittorio, docente di Storia contemporanea all’Università di Catania, per reggere l’idea del crac nazionale in un ceto medio che non si era mai posto il problema in questi termini. Ci vorrebbe quella che Tino Vittorio chiama “l’abitudine catanese alla convivenza con disgrazie, terremoti, eruzioni e mafie”. Se prima c’era “chi viveva di espedienti”, dice, “da domani magari si vivrà tutti ferocemente di espedienti, anche tra chi ha contratto i vizi del benessere. Ma io non credo che si arriverà alla grande paura da francesi nel post rivoluzione. Mi sembra strano che possa succedere qualcosa che davvero sconvolge i termini della convivenza civile. Le crisi di sistema sono ricorrenti, durano venticinque anni. Questa magari finirà nel 2025, quando si scoprirà qualche nuovo accidente”.
In parte si rinuncia, in parte si rimuove (“credo che la maggior parte dei cittadini non abbia ancora capito”, ha scritto Ricolfi). Qualcuno fa come l’attrice Simona Izzo, “non coerente” per autodefinizione, “involontariamente gioiosa, pervasa da una lieve maniacalità che mi fa comprare lo stesso, anche se magari in saldo, e fare mutui, investire sul mio lavoro, scrivere e poi però dire no al macchinone, no alle spese inutili, no agli sprechi in un globale atteggiamento ecologico verso la vita che avevo anche prima della crisi e che cerco di trasmettere ai figli”. Dice di essere abituata, Simona Izzo, al “lavoro fluttuante”, e di non essere impaurita dal “conto in rosso”: “Lavoro da quando ho sette anni, e mio padre già allora diceva che il nostro settore era in crisi”.
Eppure a molti “è scattato dentro un meccanismo per cui stai attento”, dice Andrea, quarantenne avvocato a Roma, padre di una figlia. “E’ come se dovessi in fretta ripristinare la propensione al risparmio, come se avessi un freno che mi dice ‘è immorale spendere oltre quella cifra’. Continuo a bere vino buono, andrò comunque in vacanza, ma con un occhio che prima non avevo e un’incertezza di fondo. Mi chiedo tra due anni che cosa succederà, anche se io sono stato toccato solo marginalmente: sempre più privati che non pagano, pagano dopo molto tempo o addirittura si tirano indietro davanti a cifre che prima consideravano normali. Penso ‘tutti tirano la cinghia’, e davanti a prezzi che fino all’anno scorso trovavo possibili adesso non compro. Non mi spavento, ma mi interrogo sulla mancanza di prospettive di ripresa”.
C’è “il sentore di qualcosa che cambia in peggio”, dice Laura, sessantadue anni, professoressa di liceo, due figlie, un marito, una casa di città in Emilia Romagna e una al mare. Qualcosa che fa decidere di “andare in pensione un anno dopo per ottenere qualcosa in più, non molto, per stare più tranquilla di questi tempi”. Ci sono cose a cui Laura non rinuncia (“la colazione al bar, un mio piccolo vizio quando c’è il sole”) e cose di cui fa a meno perché sente che la sua vecchiaia non sarà come l’aveva immaginata, ed è vero che la sua generazione “ha fatto sacrifici ed è stata educata, in un’infanzia non benestante, ad aspettare”, a dilazionare i desideri, ma questo per lei è comunque un risveglio brusco “da una sicurezza conquistata con il lavoro di una vita”. “E se la banca fallisce?”, pensa, “e se il conto in banca diventa carta straccia?”. “In qualche modo farò”, dicono più fatalisti. Non Patrizia, pensionata ora settantenne che ai tempi della lira pensava di avere “una pensione da ricca”, e ora teme “la caduta verso lo zero di risparmi che non valgono quello che valevano”.
E Giulia, ventinovenne che da anni lavora in televisioni pubbliche e private con contratti a termine pagati sempre meno e sempre più tardi, “e magari mascherati da false partite Iva”, pensa che le notizie che arrivano vadano a peggiorare un peggio “che fa solo venire voglia di scappare a Berlino”, nuova America delle opportunità. Qualcuno prevede nemesi buffe da default, come lo scrittore Ugo Cornia, autore per Sellerio del libro “Sulla felicità a oltranza”. “L’altra sera, come tutti i lunedì, vado a giocare a calcetto con dei miei amici”, racconta Cornia. “Poi andiamo a mangiare qualcosa. Quattro euro il campo, quindici mangiare e bere. Eravamo un insegnante statale, un insegnante di musica per bambini a contratto annuale con vari comuni, due piccoli imprenditori in campo informatico e pubblicità, e un falegname disoccupato. Qualcuno a un certo punto parla delle previsioni per la crisi, di se ci molla l’euro e così via. Io, avendo visto un documentario americano sulla crisi dove si parlava delle megabanche d’affari e delle loro porcate, e che non hanno fatto nessuna legge per limitarle, a un certo punto ho detto che lo spread non può abbassarsi più di tanto perché lì a Wall Street, diceva il film, vanno continuamente a letto con prostitute da mille dollari l’ora, bevendo champagne e affittando Lamborghini. Allora ci siamo immaginati, una volta saltate l’Italia, la Spagna, la Francia e vari altri, quando non avranno più soldi da rubare, ci sarà il momento che tutti questi impiegati di Wall Street, invece di andare con prostitute da mille dollari a botta, dovranno farsi una colletta tra colleghi di ufficio, comprarsi una rivistina porno e andare in bagno a turno a farsi una pugnetta (masturbarsi), che magari è piacevole lo stesso”.
Molti pensavano fosse fantascienza, la discesa negli inferi del fallimento nazionale: “Chiediamoci chi e perché non ha mai pensato all’eventualità di restare al verde in un paese dove ogni famiglia aveva nel suo Dna storie di miseria o di amici che avevano perso tutto, magari per un affare sbagliato”, dice Claudio Risé, psicoanalista e scrittore, convinto che a “un’intera generazione – persone nate negli anni Settanta e formatesi tra gli Ottanta e i Novanta – viva il possibile restare al verde come pensiero disorientante perché a loro è stato detto che era impossibile. Padri, maestri, media, politici, tutti hanno concorso, più o meno colpevolmente, a illudere ragazzi ora quarantenni con teorie come ‘la fine dei cicli economici’ e la litania del successo a portata di immagine. Pochi si sono sforzati di convincere i figli del contrario”. Il professor Massimo Lo Cicero, docente di Economia alla Sapienza, prevede per il prossimo futuro “la scomparsa dell’Italia per come siamo abituati a pensarla. Il nord vedrà l’affermarsi del modello Ikea, con ricomposizione anche virtuosa del rapporto prezzi-reddito, il sud sarà Marrakech: chi nel meridione lavorava nel pubblico, con la crisi sta molto peggio, ma chi aveva un bed and breakfast o un banco di mutande al mercato sta meglio, perché la crisi spinge sempre più persone verso il ‘club del nero’. Qualcuno sarà tentato non di tornare alla lira ma di passare al dollaro, e l’Italia fantasista e fantasiosa che teneva insieme Milano e Palermo non esisterà più”.
Cambia l’idea della vita, se non ancora la vita. Cambia la percezione dell’oggi quando “il cliente non dà più la mancia, ed è lo stesso che lasciava cinquanta centesimi ogni volta”, dice Ettore, barista a Trastevere, o quando “con gli sconti non risolvi più nulla”, dice Anna Sartelli, commerciante a Roma (dove peraltro, fa notare un cronista politico esteta, “davanti ai saldi di Cenci, negozio storico, non c’è più la fila”). Marco Agliata, architetto romano, parla di “professionisti stremati” dal “precipitare della crisi su una situazione già grave”: iter autorizzativi da labirinto kafkiano, clienti insolventi, investitori fermi, studi che chiudono. “Si cerca di accorparsi”, dice Agliata, “per dividere le spese e non dare forfait per i troppi crediti da pubblica amministrazione”. Persino tra i dentisti, categoria considerata immune da ogni possibile default, serpeggia il pensiero del pericolo incombente: “La gente viene per curare solo il dolore, non fa lavori a lungo termine oppure non paga”, dice Angela Pieri, dentista quarantenne con un figlio di pochi mesi, consulente in studi non suoi. Si sente “fortunata”, Angela, a vivere “soltanto il riflesso della crisi che su altri ha avuto effetti devastanti, e mi metto nei panni di chi deve sborsare dal nulla mille euro per cure dentistiche di base. Io non devo affrontare i costi di uno studio di proprietà, ma tutto è cambiato nel mio approccio: guardo i prezzi che non guardavo, vado al discount, tendo a comprare solo per il bambino, vado a cena fuori meno di prima, e prima di andarci ci penso. Per carattere non sono pessimista, ma oggi penso che per mio figlio sarà meglio andare all’estero. Mi angoscia l’imprevisto, il non riuscire a risparmiare per l’emergenza”.
Cambia il senso di sé, perché improvvisamente ti rendi conto, dice Francesca, designer trentottenne di Milano, “che la tua cieca fiducia nel lavoro non dipendente, da persona che sapeva di avere del talento anche senza agganci, si scontra con la realtà. Ho avuto riconoscimenti, ho lavorato e anche guadagnato, in questi anni, e ho reinvestito, ma ora non ce la faccio: troppe tasse, sponsor che improvvisamente hanno paura, gente che vede il dipendente come la peggiore delle iatture, progetti che piacciono ma non trovano supporto pratico. Per la prima volta ho pensato di accettare un’offerta dalla Svizzera: insegnare moda e design in un’università. Non sono mai voluta andare via dall’Italia, ma ora non so. E non ho mai voluto un marito che mi risolvesse il problema economico, sognavo l’amore e basta, ma adesso, non mi vergogno a dirlo, mi sono resa conto che non penso subito ‘vade retro’ davanti a un corteggiatore abbiente, anche se non proprio corrispondente alle mie aspettative”.
Ci sono persone molto benestanti in preda all’ansia perché non riescono ad affittare case prima richiestissime, e trentenni controcorrente che, come Angelo Savini da Milano, studi in Legge, master in Economia e un impiego nella moda, non pensa sia un dramma “attrezzarsi a prolungare il periodo di incertezza, dividendo casa con gli amici, accantonando l’idea del posto fisso, facendo di necessità virtù, divertendosi anche. Certo, a livello di paese è terribile, ma a livello personale, forse egoisticamente, lo trovo stimolante. Anche perché non credo finiremo così male, abbiamo gli strumenti per tirarci fuori”. Ma per molti è come quando dopo Chernobyl si temeva ogni goccia di pioggia: magari non succede niente, ma è meglio non comprare l’insalata. “La gente sente che è stata toccata la sua vita e non sa perché”, dice Giorgio Zanchini, conduttore e autore radiofonico con osservatorio privilegiato sulle doléances del ceto medio.
Nel corso del suo programma “Tutta la città ne parla”, su RadioTre, e di “Prima Pagina”, sempre su RadioTre, Zanchini sente di tutto, via telefono, sms e mail. Sono voci di spavento collettivo: qualcuno scherza sul suicidio col gas, humour macabro che tradisce malessere “da precariato intellettuale travolto”. Molti dicono: non esco più la sera. Moltissimi, di seconda e terza età, sono terrorizzati per figli e nipoti. C’è rabbia, desolazione, ansia repressa, sfogata magari contro l’economista liberale ospite o contro l’ascoltatore che dice “ho due o tre case, sono sommerso dalle tasse”.
E’ il capovolgimento del mondo in cui si aveva il tempo e lo spazio mentale per pensare a stupidaggini, amori e furori, e invece ora tutto pare improvvida distrazione, distoglimento dall’allerta che può evitare la caduta, il tonfo, il film dell’orrore del restare al verde immaginato e funesto, quello che fa rimpiangere il semplice segno “meno” del conto in rosso.
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