Le storie parallele di due madri che hanno scelto di salvare due vite
Una mattina tranquilla al nostro Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli
Una mattina tranquilla al nostro Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli: un colloquio non difficile (una signora ci chiedeva di essere aiutata quando fosse nato il bambino con le cose necessarie), pubbliche relazioni alla ricerca di fondi che non sono mai sufficienti, qualche scheda di tipo anamnestico da concludere. Ore 12.15, comincio a pensare che si avvicina l’ora per andare a casa; ma non ho ancora realizzato del tutto questa idea, quando entra Manuela e mi dice: “Ha appena telefonato un’ostetrica che chiede un colloquio urgente con te; si tratta di una minorenne che ha bisogno di una consultazione e, per lei, lunedì mattina è troppo tardi”. “Bene – rispondo – dille che io sono disponibile e l’aspetto”.
Dopo un quarto d’ora, ecco sedute di fronte a me, Mirna di quindici anni e la sua mamma. Mi dispongo ad ascoltare ed ecco il racconto: “Mia figlia è incinta – inizia la signora che ha tutte le intenzioni di essere lei il mio interlocutore – e …”. La interrompo nel modo più cortese possibile rendendomi conto della sua preoccupazione, e chiedo a Mirna di raccontare lei se riesce e vuole. Con una voce leggera, Mirna la ragazza in cui è difficile ravvisare una futura madre, pronuncia la frase fatidica: “Sono incinta e sono già al quarto mese, ma questo bambino, no, non lo voglio e non lo posso, non posso averlo. Pur di non farlo nascere sono pronta a qualunque cosa”. E’ facile pensare che ha superato il novantesimo giorno, il termine per poter accedere all’interruzione volontaria di gravidanza secondo la legge 194, ma in una situazione così, esiste la possibilità dell’aborto terapeutico fino alla ventiduesima settimana, se il genitore che esercita la “patria potestà” o il giudice tutelare, è di questo parere. Mi sospingo un po’ più in là e chiedo a Mirna di continuare il racconto. “Ero a una festa e avevo bevuto; un ragazzo che non riconoscerei, mi ha preso e, così…”. Silenzio denso e pesante; so che dovrei dire qualcosa ma ciò mi risulta molto difficile. Poi, quasi facendomi violenza, provo a chiedere: “E ti sei tenuta tutto questo dentro senza confidarti con nessuno?”. “Avevo paura! Quella volta, dopo un forte litigio con la mamma, me n’ero andata a casa di una mia amica, volevo essere grande, sono stata con lei a una festa, lì mi sono ubriacata e non volevo sentire nessuna predica. La mia amica mi ha parlato di pastiglie che si possono avere anche clandestinamente dicendo che non mi sarebbe successo nulla, ma, a quel punto, mi sono spaventata tantissimo. Sono tornata a casa tenendomi tutto dentro e il tempo è passato”.
Parliamo di responsabilità; le mostro la fotografia di un bambino a quel tempo di gestazione; la cosa sembra non avere nessun effetto: “L’ho già visto – mi dice – perché ho fatto l’ecografia. La mamma ha iniziato a sospettare qualche cosa e mi ha accompagnato in ospedale dove ha scoperto tutto”. Di nuovo silenzio! Che cosa si può dire in questi casi? Non c’è motivo di offrire un aiuto economico o di altro tipo; è una famiglia ben integrata che si trova a maneggiare un problema non contemplato prima.
Posso usare, però, me stessa, mi dico, e cominciando molto da lontano, le racconto la storia di Mario, il neonato lasciato nella culla termica della Mangiagalli, qualche giorno fa. Lei non ne sa niente ma mi domanda se le sto suggerendo l’adozione. Cerco le parole più giuste per prospettarle di essere la madre buona che regala la vita al proprio figlio che però non riconoscerà e che verrà dato come figlio a un’altra famiglia che certamente lo riceverebbe come un dono meraviglioso impegnandosi a farlo crescere nel migliore dei modi e della bellezza di questo gesto. Nessuna reazione che possa indicarmi la strada se non lo squillo del mio cellulare.Non rispondo, naturalmente, anzi tento di farlo smettere; una sosta della suoneria che, dopo qualche minuto, ricomincia implacabile. Spengo il telefono indispettita di sentirmi disturbata in un momento così delicato. Ma, spento il cellulare, ecco che inizia a squillare il telefono fisso e, dalla segreteria, dicono affannati: “Ti stanno cercando disperatamente dalla sala operatoria della ‘194’ perché hanno sul lettino una donna che non vuole più abortire. Le hanno dovuto praticare una lavanda per annullare l’effetto della prima anestesia e, ora, la stanno mandando da noi per un colloquio.”
Un po’ sconvolta guardo Mirna: eccola lì convinta di voler abortire a qualunque costo e, un’altra donna, già pronta per l’intervento decide di voler far nascere il suo bambino. “Certo che la vita è davvero imprevedibile!”, dico a Mirna cercando di spiegarle ciò che sta succedendo e soggiungo: “Vedi, questa donna, pur all’ultimo momento, ha cambiato idea e chiede di parlare con me per un motivo esattamente opposto al tuo. Se questa azione abortiva fosse una cosa da poco, tutto ciò non starebbe succedendo, ma poiché è qualcosa che cambia totalmente la vita di una donna, e c’è sempre un prima e un poi riferito all’aborto, vuol dire che si deve prendere in forte considerazione l’atto che si sta per compiere. Ora dovrò ascoltare questa signora, ma ti prego, tu pensaci bene. Lunedì mattina io sarò ancora qui e, se lo vorrai, ne potremo riparlare”
La saluto affettuosamente con il dispiacere di lasciarla andare e, mentre sta uscendo, dice rivolta alla madre: “So che non potrei occuparmi di questo bambino, ma se chiedessimo un affido al tribunale a te e papà?”. Dentro di me sorrido; sto accarezzando l’idea che Mirna non andrà ad abortire.
Ecco la signora della sala operatoria; lei e Mirna si guardano un po’ stranite come se si stessero scambiando emozioni profonde. “Mara, vero?” e salutandola l’abbraccio stretta “che bello averla qui!”. Si asciuga una lacrima e mi racconta: “Ho già due figli e una situazione economica difficile tanto che per il secondo l’assistente sociale ha chiesto che fossi inserita nel progetto di Fondo Nasko. Poi sono rimasta incinta subito e mi hanno detto che l’erogazione regionale di 250 euro mensili, non si può ripetere una seconda volta. Noi, però, siamo messi proprio male a livello economico e, spinta anche da mio marito, mi sono convinta che non potevo far nascere questo bambino. Quando poi sono stata sul tavolo operatorio, ho sentito forte dentro di me, che anche lui era mio figlio e ho chiesto ai medici di smettere. Non potevo, non potevo disfarmi di quel bambino! Le stesse parole: “Non posso, non posso” di Mirna e “non potevo, non potevo!” di Mara; e, io nel mezzo, a vivere emozioni del tutto diverse sentendomi nei modi più strani che vanno dall’impotenza, alla frustrazione, al sentirmi fortunata per poter fare a Mara una proposta di aiuto. “E’ vero che non si può avere per una seconda volta l’aiuto della regione, ma noi ci chiamiamo centro di aiuto alla vita e vogliamo aiutare sia la vita del bambino, sia la vita della donna che non voglia rinunciare al proprio figlio. Sa, allora, che cosa faremo? Le regaleremo noi l’aiuto che Fondo Nasko non può darle”. Mi guarda incredula. “Davvero fareste questo per me?”. Non riesce più a trattenere le lacrime: “Stavo così male all’idea di abortire, stavo così male!”. La lascio sfogare un po’ perché si possa liberare da tutte le sensazioni negative e poi le dico: “Siamo poveri anche noi, ma per la vita di un bambino…”. Commossa si guarda intorno come se quella stanza fosse il posto delle cose belle dove i desideri si avverano, e poi esclama: “Un quarto d’ora fa piangevo per il dolore, ora piango per la gioia!”. Il miracolo della Vita forse si è ripetuto. Noi non possiamo far altro che esserne testimoni.
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