Dopo l'attacco al confine
Per i terroristi nel Sinai “ci fidiamo di quello che farà l'Egitto”, dice Israele
L’operazione di sicurezza lanciata ieri dell’esercito egiziano nel pieno della zona demilitarizzata del Sinai è possibile secondo gli accordi di Camp David del 1978, grazie a un permesso che il Cairo rinnova ogni mese, con una richiesta fatta al governo di Gerusalemme e con la sponsorizzazione degli Stati Uniti (sia il dipartimento di Stato sia il Pentagono sono coinvolti) e della Multinational Force, il contingente di osservatori nell’area.
Con un soprassalto tardivo, ieri l’esercito egiziano ha annunciato una grande manovra militare (autorizzata) con elicotteri da guerra e truppe vicino al valico di Rafah.
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L’operazione di sicurezza lanciata ieri dell’esercito egiziano nel pieno della zona demilitarizzata del Sinai è possibile secondo gli accordi di Camp David del 1978, grazie a un permesso che il Cairo rinnova ogni mese, con una richiesta fatta al governo di Gerusalemme e con la sponsorizzazione degli Stati Uniti (sia il dipartimento di Stato sia il Pentagono sono coinvolti) e della Multinational Force, il contingente di osservatori nell’area.
Con un soprassalto tardivo, ieri l’esercito egiziano ha annunciato una grande manovra militare (autorizzata) con elicotteri da guerra e truppe vicino al valico di Rafah. Gli egiziani danno la caccia al gruppo di terroristi che domenica sera ha ucciso 16 soldati durante la cena del Ramadan – quando la guardia è più bassa del solito – e che poi ha dato l’assalto al vicino confine con Israele a bordo di un blindato rubato e di un camion carico di esplosivo. “Quella cellula è formata in tutto da 35 elementi”, dicono i militari dal Cairo (otto sono stati uccisi dai soldati israeliani). La notizia dell’arrivo di due caccia egiziani per dare “appoggio aereo”, non potrebbero volare sul Sinai secondo il trattato di pace, è stata smentita in serata dai militari israeliani.
C’è un problema di inerzia colpevole da parte del Cairo. Da mesi si sa che l’area del Sinai è pericolosa, da quando la caduta del regime di Mubarak ha spostato l’attenzione delle forze di sicurezza sulle grandi città del paese e ha lasciato scoperta la zona di confine, anche se il nuovo presidente Mohammed Morsi sfoggia tranquillità: “Il Sinai è sicuro”. L’ultimo avvertimento di Israele è arrivato giovedì scorso e intimava ai turisti di rientrare per la possibilità altissima di attacchi terroristici. Il giorno dopo i giornali egiziani, citando una fonte anonima della sicurezza, si sono inventati un complotto delle agenzie di viaggio israeliane che punterebbero a creare allarme per danneggiare il turismo in Egitto e attrarre i clienti altrove.
C’è la possibilità che Israele debba occuparsi di quanto succede nella striscia infestata da gruppi ostili appena oltre il confine con una campagna simile a quella degli Stati Uniti nelle aree tribali del Pakistan occupate da al Qaida?
Il Pakistan è un paese alleato di Washington (come l’Egitto per Israele), che però ha dimostrato di non avere la capacità o la volontà di intervenire nelle zone a ridosso della frontiera.
Il portavoce dell’esercito israeliano, Ariye Shalicar, dice al Foglio che Israele non interverrà oltre il confine con l’Egitto, “è un paese con cui abbiamo un trattato di pace e per noi quel trattato è molto importante. Non possiamo occuparci anche di quello che accade oltre la frontiera”.
Il direttore del dipartimento di sicurezza regionale (specializzato in antiterrorismo) del ministero degli Esteri israeliano, Shai Cohen, che controlla l’attività dei gruppi del jihad, dice al Foglio che il governo si fida degli egiziani. “Siamo in contatto costante con loro, soprattutto con i militari con i quali abbiamo rapporti diretti da tempo. Un nome su tutti? Il generale Tantawi (Mohammed Tantawi, capo del Consiglio Supremo e attuale ministro della Difesa, ndr). Abbiamo anche rapporti proficui con i servizi di sicurezza egiziani, sia quello interno sia quello esterno”. Quindi anche con il generale Murad Muwafi, capo dell’intelligence al Cairo? “Preferisco non entrare in dettagli”. Come sono i rapporti con il nuovo governo civile del presidente Mohammed Morsi? “Non posso dire che sia già stato stabilito un contatto, perlomeno diretto come con l’esercito, ma è comprensibile, si tratta ancora di un’amministrazione nuova”. Anche Cohen esclude la necessità di intervenire con operazioni antiterrorismo nel Sinai, “nessuno ha intenzione di farlo o di parlarne, né Israele né l’America”.
Se Israele si fida dell’Egitto e delega al Cairo – soprattutto alla controparte militare – la lotta antiterrorismo nel Sinai, con Hamas è l’opposto. Ieri il movimento armato che controlla la Striscia di Gaza ha condannato l’uccisione dei sedici soldati egiziani. “I gruppi salafiti che sono considerati responsabili dell’attacco di domenica si muovono tra l’Egitto e la Striscia senza problemi, alla luce del giorno attraverso Rafah oppure passando nei tunnel”, dice Cohen. “Gaza è governata da Hamas, ma ha una politica della ‘porta girevole’, un po’ arresta i radicali sunniti e un po’ li lascia liberi di fare. In questo modo tenta di conservare la propria legittimità internazionale e continua a condurre attacchi contro Israele senza assumersi la responsabilità”.
Il presidente Morsi non ha esitato ad accusare il gruppo dirigente di Hamas per non avere prevenuto la strage di soldati e l’esercito egiziano parla con precisione di “appoggio d’artiglieria ai terroristi ricevuto da Gaza durante l’attacco”. Sembra inverosimile che la galassia di gruppi dell’estremismo sunnita che gravita attrono a Rafah sia diventata così pericolosa senza che Hamas, che esercita un controllo ferreo su uomini e movimenti, non abbia concesso il suo permesso. Il caso è un disastro per le relazioni di due gruppi – i Fratelli musulmani in Egitto e i palestinesi di Gaza – che sono considerati decisamente vicini e affini, anche se ieri al Cairo una nuvola di teorie del complotto confuse tentava di scagionare Hamas e incolpare il Mossad.
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