Il mondo è pieno di gente che sta a casa
Ci sono giorni, d'estate, in cui pur di non lavorare pulisci il frigorifero
Il 7 di agosto, alle sette e dieci del mattino, suona il mio cellulare e mi sveglio di colpo e mi volto da una parte e vedo gli occhi sgranati dell’Avvocato. L’Avvocato è una gatta che da due giorni abita con me insieme a sua sorella che si chiama la Peppa che è lì dietro anche lei e anche lei ha gli occhi sgranati che sembra che pensino, lei e l’Avvocato, “ma chi è che ti telefona alle sette e dieci del mattino?”. Io invece penso “Ma chi è che mi telefona alle sette e dieci del mattino?”, e prendo il telefono, guardo. “Ah – dico – è la sveglia”.
Il 7 di agosto, alle sette e dieci del mattino, suona il mio cellulare e mi sveglio di colpo e mi volto da una parte e vedo gli occhi sgranati dell’Avvocato.
L’Avvocato è una gatta che da due giorni abita con me insieme a sua sorella che si chiama la Peppa che è lì dietro anche lei e anche lei ha gli occhi sgranati che sembra che pensino, lei e l’Avvocato, “ma chi è che ti telefona alle sette e dieci del mattino?”. Io invece penso “Ma chi è che mi telefona alle sette e dieci del mattino?”, e prendo il telefono, guardo. “Ah – dico – è la sveglia”.
La cosa che non mi torna è come mai ho messo la sveglia alle sette e dieci del mattino, solo che poi, quasi subito, mi accorgo che ho addosso l’holter, che è una macchinetta che mi han messo il 6 di agosto per controllare i battiti del mio cuore per 21 ore di seguito, e mi ricordo che alle otto devo andare in ospedale a riconsegnarlo.
Allora mi alzo. “Non preoccupatevi – dico all’Avvocato e alla Peppa – continuate pure a dormire”, e vado in sala, mi vesto, mi faccio il caffè, scendo, prendo la mia bicicletta, venti minuti dopo sono già in un bagno del sotterraneo dell’ospedale maggiore di Bologna a staccarmi gli elettrodi dal petto e a pensare: “Ma che vita avventurosa, che ho”.
Metto l’holter dentro una busta, con tutti i suoi fili, la consegno all’infermiera del reparto di cardiologia, esco, riprendo la mia bicicletta e con la mia bicicletta vado al supermercato Esselunga Santa Viola che ci entro che son passate da poco le otto del mattino e in tutto il supermercato, che è grande, saremo in cinque o sei clienti e delle diciotto casse che ci sono in fila l’unica aperta è la cassa numero cinque mi sembra di essere un pensionato e la mia vita, che solo dieci minuti prima sembrava così avventurosa non è poi avventurosissima, a pensarci bene.
Poi torno a casa con la mia spesa, ritorno a letto, mi riaddormento, mi sveglio che è mezzogiorno, dovrei lavorare, che entro il dieci dovrei finire un romanzo solo che oggi, lavorare, prima di tutto devo mangiare, mi dico, poi dopo mangiato mi metto a leggere, che sto rileggendo un romanzo che mi piace moltissimo, “Il giocatore” di Dostoevskij, che non mi ricordavo che era così bello, e leggo un po’, poi mi viene in mente che dovrei lavorare ma mi torna in mente, anche, che son venti giorni che devo pulire il frigo e ci sono quei giorni che, piuttosto che lavorare, sei disposto anche a pulire anche il frigo, e il 7 di agosto è un giorno così, si vede, e pulisco il frigo, ma bene, smonto, lavo, sfrego, asciugo, rimonto, ci metto quasi due ore, intanto che pulisco ascolto la radiocronaca delle Olimpiadi che l’altro giorno, c’era un radiocronista, un’italiana è arrivata quarta, il radiocronista ha detto: “Siam sprofondati in un incubo che chissà quando ne verremo fuori”, delle radiocronache singolarissime, queste Olimpiadi, che se le sentisse De Coubertin gli verrebbe un malore, mi vien da pensare, e le atlete si mettono a piangere, “Ma cosa piangi? – mi vien da pensare – sei arrivata quarta, cosa vuoi piangere?”, che è vero che una delle cose più belle che ho sentito quest’anno è la poesia di Rodari sul diritto dei bambini di piangere, ma parlava di bambini, Rodari, eran bambini, avevan dei motivi più seri, mi vien da pensare, e son tutti pensieri per non lavorare, non dovrei neanche andare a correre, oggi, che ci sono andato cinque giorni di seguito, oggi dovrei riposarmi solo che, è un giorno così, che dovrei lavorare, non ne ho voglia, non dovrei andare a correre, mi vien voglia di andarci e allora vado a cercare le scarpe e intanto che prendo in mano le scarpe mi viene in mente “Il giocatore” di Dostoevskij, che a un certo punto dice che i calcoli, in sostanza, contano poco e che, in generale, non hanno quell’importanza che gli danno molti giocatori, che si siedono con le loro tabelline, si segnan le uscite, contano, calcolano le probabilità, ricontrollano i conti e alla fine puntano e perdono come noi, comuni mortali, che perdiamo senza far calcoli, e resto poi lì con le scarpe in mano a chiedermi “Be’, allora, cosa faccio? Ci vado o non ci vado?”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano