Prestiti “canaglia” all'Iran

Il blitz di New York alla banca inglese scatena la rappresaglia della City

Paola Peduzzi

La “banca canaglia” e il “freelance” sono i duellanti dell’ultimo scontro tra Londra e New York. In mezzo ci sono i prestiti, l’Iran, 250 miliardi di dollari di transazioni sospette, soprattutto c’è lo stupore. Lo stupore di tutti, di qui e di là dell’Atlantico: nessuno sapeva che il capo del semisconosciuto dipartimento dei Servizi finanziari di New York stesse per sferrare l’attacco a una delle poche banche virtuose del Regno Unito, la Standard Chartered (StanChart).

    La “banca canaglia” e il “freelance” sono i duellanti dell’ultimo scontro tra Londra e New York. In mezzo ci sono i prestiti, l’Iran, 250 miliardi di dollari di transazioni sospette, soprattutto c’è lo stupore. Lo stupore di tutti, di qui e di là dell’Atlantico: nessuno sapeva che il capo del semisconosciuto dipartimento dei Servizi finanziari di New York stesse per sferrare l’attacco a una delle poche banche virtuose del Regno Unito, la Standard Chartered (StanChart). Nessuno sapeva, e molti si sono irritati. Non soltanto, come è ovvio, il capo di StanChart, Peter Sands, che era appena partito per una vacanza convinto di potersela godere: se si esce indenni dalla tragedia angloamericana del Libor si può sopravvivere a tutto. Ma nemmeno le altre agenzie americane che stanno indagando su StanChart sapevano: sia la Federal Reserve sia il dipartimento del Tesoro hanno ricevuto una “short notice” di qualche ora, lunedì, prima del blitz del dipartimento dei Servizi finanziari di New York, capitanato da Benjamin Lawsky.

    Martedì sono iniziate le controaccuse, mentre il titolo di StanChart perdeva un quarto del suo valore sui mercati, ma la rappresaglia è scattata ieri, con tutto l’establishment londinese pronto a reagire. “C’è un pregiudizio negativo nei confronti della City”, ha detto il sindaco di Londra, Boris Johnson, rivolto alle autorità americane. E anche il sempre cauto governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King, mentre dava le solite brutte notizie sull’economia britannica che ormai scandisce come una litania, ha dichiarato: “L’unica cosa che chiediamo è che le agenzie americane che stanno investigando su un caso particolare cerchino di lavorare insieme e si astengano da rilasciare dichiarazioni pubbliche prima che l’inchiesta sia completa”. Che è come dare di corsaro a Benjamin Lawsky – o come ha detto più elegantemente, ma con stizza chirurgica, Peter Sands, è come dire che Lawsky è un “freelance”, lavora in proprio. Che è convinzione diffusa anche tra Washington e New York: molti avevano aperto inchieste sulla “banca canaglia” e i suoi affari con stati sotto embargo, c’erano trattative in corso con StanChart, ma poi Lawsky ha fatto tutto da solo.

    Ben Lawsky non potrebbe essere più soddisfatto. E’ uno che, a 42 anni, ha deciso di fare carriera velocemente, e non c’è bottino più facile e più remunerativo di quello fornito dalla caccia ai banchieri. Dopo essersi fatto le ossa alla scuola dei mastini presso la procura generale di New York – ha lavorato per anni con Andrew Cuomo, fianco a fianco, nei dossier più livorosi contro Wall Street – Lawsky è diventato il capo di questo nuovo dipartimento presso lo stato di New York, un ufficio creato un anno e mezzo fa, poco noto ai più. Tanto che ieri il New York Post dedicava un ritratto a Lawsky definendolo il “nuovo poliziotto delle ronde a Wall Street”. Voleva farsi notare, Lawsky, e si è sganciato dalla collaborazione con gli altri organismi ed è andato dritto alla gola di StanChart. A giudicare dalle indiscrezioni sulle 27 pagine del report di Lawsky, i sospetti degli americani sono legittimi: da una decina d’anni gli affari della banca britannica si concentrano in Asia, Africa e medio oriente (c’è pochissima Europa in portafoglio: è il motivo per cui StanChart non ha subìto le perdite relative alla crisi dell’euro e della finanza angloamericana che hanno portato al collasso molte altre banche britanniche), e in particolare ci sarebbero stati rapporti intensi con l’Iran, che è sotto embargo, con uno schema di prestiti illegali pari a 250 miliardi di dollari. Ci sarebbe un’email in cui si dice che non è stato compilato il campo del destinatario di un prestito (“no name given”) in modo da impedire alle autorità inquirenti di risalire alla connessione iraniana. Se cinque agenzie americane, compresa la Fed e il dipartimento del Tesoro, si stavano occupando del caso, e avevano già avviato negoziati preliminari come vuole la prassi in questi casi (si cerca di venire a patti senza dare scossoni ai già nervosi mercati), qualcosa di poco chiaro dev’esserci.

    Peter Sands nega qualsiasi comportamento illegale da parte della sua banca, e il fatto che ieri il titolo di StanChart abbia recuperato in Borsa conferma il credito di cui gode Sands. E’ considerato uno dei banchieri più virtuosi della City, tanto che il suo nome ricade spesso nella rosa dei probabili successori al governatore centrale King. Ma se alcuni analisti sostengono che il “paradiso di StanChart” è ormai stato violato, le ripercussioni dello scontro saranno ben più ampie. La City si ribella agli attacchi preventivi che arrivano da New York, ma New York non riesce a rispondere con unità, se dal groviglio delle regole mal imposte, delle riforme mai fatte, del populismo e della finanza che continua a essere fragile è riuscito a sfuggire un guerriero “freelance”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi