“No vacation nation”

Paola Peduzzi

Non c’è nulla che spiega la differenza tra l’America e l’Europa meglio di questo grafico sulla “No vacation nation”, il paese che non va mai in vacanza. Non c’è Marte vs Venere che tenga, non c’è welfare vs small government che tenga, perché in fondo a destra, in questo grafico, c’è uno zero che squilla fortissimo. Derek Thompson, giornalista economico dell’Atlantic, ha pubblicato sul suo blog questo grafico e non ha nascosto – nemmeno lui – la sorpresa.

    Non c’è nulla che spiega la differenza tra l’America e l’Europa meglio di questo grafico sulla “No vacation nation”, il paese che non va mai in vacanza. Non c’è Marte vs Venere che tenga, non c’è welfare vs small government che tenga, perché in fondo a destra, in questo grafico, c’è uno zero che squilla fortissimo. Derek Thompson, giornalista economico dell’Atlantic, ha pubblicato sul suo blog questo grafico e non ha nascosto – nemmeno lui – la sorpresa: l’eccezionalismo americano passa anche per il valore delle ferie pagate, che varia in tutti i paesi dell’Ocse, ma è zero soltanto negli Stati Uniti. Ci fa bene essere sempre al lavoro, chiede Thompson? La sua risposta è no, non è quel che si dice giudizioso ammazzarsi di lavoro, anche se sa che la questione è dibattuta e si apre alle esperienze degli altri (per questo bisognerebbe distribuire già negli asili un minisaggio di Keynes per i nipotini, “Economic Possibilities for our Grandchildren”, in cui l’economista sosteneva che entro il 2030 avremmo tutti lavorato meno ma avremmo avuto il grande problema di occupare il tempo libero, ché coltivare i propri interessi presuppone che uno ce li abbia, degli interessi, e anche per questo è meglio attrezzarsi da piccoli). Non che gli americani non abbiano le ferie pagate, la maggior parte delle aziende prevede tale benefit: è che gli americani preferiscono non usufruirne, o hanno paura di usufruirne, pure se le pause servono – nel lungo termine – a essere più produttivi.

    Molti studi dimostrano che il picco della produttività si raggiunge in mezzo alla settimana – c’è il blues del lunedì e c’è l’aria di vacanza del venerdì: non siete voi, è per tutti così – e i guru della produttività sostengono che esistono tre variabili per comprendere quando si è produttivi al massimo. Primo: siamo come computer, abbiamo bisogno di essere riavviati e ci mettiamo un po’ a farlo. Due: l’energia non è costante, quando finisce dobbiamo riposarci e staccare (e mangiare). Il terzo è l’“end spurt”, il guizzo finale, che spiega perché si lavora di più quando si è vicini alla data di consegna (che è poi la patina virtuosa sul ridursi all’ultimo a fare qualsiasi cosa) e anche al giovedì, così al venerdì si è più leggeri. Per massimizzare questi elementi, bisognerebbe tutti avere attività flessibili, cioè eliminare i cartellini e prendersi il lusso di lavorare nei momenti di picco, come gli scrittori, all’alba perché c’è la luce giusta. Non c’è ovviamente datore di lavoro al mondo che accetterebbe un’organizzazione del genere, nemmeno nella “No vacation nation” (in Europa non se ne parla, men che meno nell’Italia che ieri ha scoperto falsi invalidi e falsi poveri che hanno drenato 60 milioni di euro alla nostra già maltrattata economia), e così si finisce per fare il contrario: lavorare senza sosta. Che a volte non è nemmeno una scelta, visto che nell’America dell’eccezionalismo accade anche che i giorni di malattia non siano pagati. Domenica il New York Times dedicava un editoriale alla questione, chiedendo di mettere fine a questo oltraggio. Iniziava così: “Più di 40 milioni di lavoratori americani se stanno a casa dal lavoro per malattia non vengono remunerati. Devono lavorare pure se sono malati o stare a casa senza essere pagati, cosa che può portare a problemi finanziari o, peggio, al licenziamento. Il modo migliore per affrontare questo problema di lavoro e di pubblica sanità è chiedere alle aziende di fornire la retribuzione per malattia – un benefit normale in almeno 145 paesi del mondo”.

    Gli americani sono produttivi per forza, allora? No, quelli sono i cinesi, e il loro modello è lì per scoppiare se è vero che la storia si ripete e la Rivoluzione industriale sta arrivando anche da quelle parti (si aspettano i politici giusti, ma a ben vedere questo non è l’anno giusto: pare che il grande cambio nel Partito comunista non avverrà, se ne discute in questi giorni nella città della riviera cinese che dai tempi di Mao ospita il conclave del Politburo, Beidaihe, un posto che fa passare la voglia di andare in vacanza anche a noi pigroni europei, a dire il vero). In America c’è un margine di scelta, pure se gli americani spesso non se ne approfittano, ossessionati come sono dal totem della produttività. Un altro tabù per gli europei, che s’apprestano alle grandi chiusure d’agosto, e buon Ferragosto a tutti.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi