Come reagire all'autunno del nostro scontento industriale
Salvate la tuta blu. Di questo passo l’Italia industriale che fu rischia l’estinzione. Non usa questi toni ma quasi il ministro Elsa Fornero, piemontese purosangue, che la gioventù l’ha passata sui treni da pendolare zeppi di operai in viaggio verso la Fiat. “L’autunno – dice – non sarà facile, perché questa crisi è molto pesante e mette a rischio il futuro industriale del paese”. E quando si parla di industria italiana non si può fare a meno di pensare alla Fiat.
Salvate la tuta blu. Di questo passo l’Italia industriale che fu rischia l’estinzione. Non usa questi toni ma quasi il ministro Elsa Fornero, piemontese purosangue, che la gioventù l’ha passata sui treni da pendolare zeppi di operai in viaggio verso la Fiat. “L’autunno – dice – non sarà facile, perché questa crisi è molto pesante e mette a rischio il futuro industriale del paese”. E quando si parla di industria italiana non si può fare a meno di pensare alla Fiat, non fosse che per il fatto che il tracollo dell’auto (-22,5 per cento la produzione nei primi sei mesi) ha contribuito più di tutto, forse ancor di più del terremoto in Emilia, alla voragine senza fine in cui sembra caduta quella che resta la seconda industria manifatturiera d’Europa: un tracollo dell’8 per cento rispetto a un anno fa, numeri che ci riportano in valori assoluti al primo trimestre del 2009, il picco negativo della prima grande recessione da cui si sono ripresi un po’ tutti quanti, non solo i tedeschi, ma non l’economia italiana. Perciò, come del resto aveva già anticipato il collega Corrado Passera, il dossier autunno caldo (anzi freddo) dell’industria italiana non può che partire dal confronto con Sergio Marchionne. “Ci siamo sentiti di recente – rivela il ministro – e abbiamo pensato a un incontro, magari nel mese di agosto”.
All’apparenza niente di nuovo, perché “incontri di franca discussione sono sempre utili e non mi sono mai sottratta, anzi mi sono offerta più volte”, insiste il responsabile del Welfare. Ma una novità c’è, e non di poco conto: “Bisogna lavorare insieme per salvare l’industria automobilistica, dare una chance a questa industria per essere ancora un asset importante per il paese”. Insomma, non si tratta di fare l’ennesimo processo alle intenzioni di Fiat, ormai meno che tiepida verso Fabbrica Italia, piuttosto di lanciare un ultimatum al gruppo torinese (“o vi date una mossa o aprite alla Volkswagen”). Certo, la sorte di Mirafiori o il destino di Cassino e Melfi sono materia di cruciale importanza. Ma non si può pensare di superare la crisi limitandosi a tamponare le tante “emergenze” produttive accumulate in questi anni. Una volta tanto, insomma, si potrebbe giocare d’anticipo, ragionando senza troppi preconcetti sul tema della competitività, che riguarda l’auto ma non solo.
Nell’occidente in crisi, del resto, l’industria è tornata di moda, anche grazie all’apporto delle nanotecnologie che consentono di pensare impianti piccoli e flessibili, in grado di operare con profitti in aree che sembravano omai off limits per l’industria. A partire dagli Stati Uniti, che festeggiano l’infornata di investimenti e nuove assunzioni nell’auto da parte di Detroit ma anche di giapponesi, tedeschi, coreani o francesi, accomunati dalla ricerca di flessibilità nell’utilizzo degli impianti e di salari a buon mercato, oltre che di condizioni di favore praticate dagli stati. Non c’è, per la verità, grande attenzione alla “questione dei diritti”, per usare il linguaggio della Fiom. Ma tant’è, sotto i cieli della crisi bisogna sapersi accontentare. E poi, rileva un reportage del New York Times, meglio loro – i produttori asiatici o piuttosto le Big di Detroit – che i profeti della new economy, le varie Apple, Google o Microsoft che parcheggiano i loro enormi profitti in paradisi fiscali e producono i loro iPad o Xbox in Cina o in Vietnam perché, sostengono, ormai certe produzioni in America non si possono più fare. Peccato, ironizza il giornale statunitense, che gli operai del Tennessee se la cavino benissimo con i robot di Nissan.
Quel che capita in America, si sa, da tempo capita nel Regno Unito, che produce tre vote tanto le auto sfornate dall’industria italiana. Per non parlare della Germania, la grande officina d’Europa, l’unica capace di assorbire con continuità manodopera giovane in arrivo dalle scuole professionali. Una macchina così ben oliata che a settembre il governo Merkel si concederà il lusso di tagliare gli oneri previdenziali dall’attuale 19,6 al 19,2 per cento, perché le casse della previdenza scoppiano di denaro. E così si amplierà di un altro po’ lo “spread” tra le aziende tedesche – che già oggi hanno un vantaggio quasi incolmabile, nell’ordine di una ventina di punti percentuali, sul fronte della fiscalità e pagano il denaro, abbondante, almeno 5 punti in meno delle concorrenti italiane.
Liquidità parcheggiata in attesa di idee
La crisi del “manufacturing” italiano, aggravata dalla congiuntura internazionale negativa, merita davvero l’allarme rosso. (I dati diffusi ieri dall’ufficio studi di Mediobanca relativi al 2011 parlano di un fatturato in crescita del 9,2 per cento sul 2010, ma comunque al di sotto dei valori pre-crisi del 2008, non più raggiunti, e sul 2012 le previsioni sono note. In più, secondo lo studio fare impresa in Italia non remunera più il capitale.
Guai a perder l’occasione del tavolo Fiat per l’ennesimo scambio di accuse o per forzare Sergio Marchionne a rinnovare promesse che, nell’attuale congiuntura, rischiano di essere insostenibili, pena il suicidio di una delle poche multinazionali di cui l’Italia dispone. Può essere l’occasione, semmai, per darsi e dare coraggio a un sistema stressato dalla rincorsa ai numeri chiesti dal Fiscal compact europeo. Dodici mesi dopo la lettera della Bce, nota Marco Fortis il direttore della Fondazione Edison, noi italiani “siamo come degli studenti che non dormono di notte per studiare. Questo può andare bene fino a un certo punto, poi alla fine occorre anche riposare, se no si va via di testa”. Inutile prendersela con il rinvio degli investimenti di Fiat, se l’austerità ha in pratica azzerato gli acquisti sul mercato interno di beni di investimento e di consumo durevoli. Ma il malessere dell’industria di casa nostra viene da più lontano. E non è certo responsabilità solo o soprattutto dell’“assenza della politica industriale”, che dalle nostre parti ha quasi sempre coinciso con aiuti di stato che portano più danni che benefici (vedi, ultimo esempio, gli abbondanti aiuti all’industria dell’energia alternativa).
Fulvio Coltorti, per decenni colonna dell’ufficio studi di Mediobanca, è tra i più severi con gli imprenditori: nei bilanci la liquidità non manca, ma è parcheggiata a fronte dei debiti (47 miliardi contro 35), a dimostrazione che, di questi tempi, nessuno si fida a intraprendere. “Il motto – ha scritto sul Corriere della Sera – che li descriveva come capitalisti senza capitali va rivisto: sono le idee che mancano loro, ancora più dei denari”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano